Sky e Mediaset hanno presentato offerte importanti per ottenere i diritti della Champions League. Perché il calcio continua a essere uno dei contenuti che differenziano una emittente dai suoi concorrenti. E perché l’Uefa applica la vendita per prodotto.
Due gare, due risultati
Mentre il 10 giugno la Lega Calcio annullava la gara per l’aggiudicazione del diritti del campionato di Serie A per il triennio 2018-2021, pochi giorni dopo, dopo un’accesa competizione tra Mediaset e Sky, la Uefa assegnava a quest’ultima i diritti della Champions League (e dell’Europa League) per lo stesso periodo.
In questo modo Sky, con un’offerta che si stima non lontana dai 300 milioni di euro a stagione (inclusiva dei diritti di Europa League che già le appartengono), ritorna in possesso di quei contenuti che Mediaset le aveva sottratto nell’asta precedente, pagando 230 milioni per la sola Champions League, una somma ritenuta da molti analisti azzardata e che ha inciso non poco nella decisione di vendita di Mediaset Premium a Vivendi (con tutto quello che ne è seguito nel corso dell’ultimo anno).
Per quale motivo le due gare hanno avuto esiti così diversi? Perché Sky ha offerto per la Champions una cifra consistente, pari alla metà di quanto proposto per la Serie A, considerato anche il suo minor valore e il fatto che l’averla persa negli ultimi due anni ha avuto un effetto molto limitato sugli abbonamenti? Perché Mediaset, che si è ritirata dalla gara per la Serie A, ha invece presentato per la Champions (ed Europa) League un’offerta analoga alla precedente, che tanto le era costata sotto vari punti di vista?
Se manca l’esclusiva
L’esito negativo della gara della Serie A era scritto nel bando stesso proposto dalla Lega. La vendita per piattaforma, mista a quella per prodotto con un unico pacchetto ed estesa anche a internet, così come auspicato dalle Linee guida dell’Antitrust, riduceva indubbiamente le potenzialità di ricavo. L’assenza di una vera e propria esclusiva, a differenza di quanto avviene nella vendita per prodotto, limitata a un numero minoritario di partite del pacchetto D (senza le prime quattro squadre), portava indubbiamente a una banalizzazione del prodotto calcio, per cui una stessa partita poteva essere vista potenzialmente su quattro se non addirittura cinque emittenti, riducendo evidentemente l’incentivo ad acquistarne i diritti. Se tutti coloro che partecipano alla gara possono trasmettere lo stesso contenuto, viene meno un principio fondamentale su cui si misura il grado di attrattività di un contenuto pregiato e il suo conseguente valore.
In altri termini, le modalità attraverso le quali i diritti tv vengono commercializzati e il grado di esclusiva offerto all’aggiudicatario rappresentano la condizione essenziale per massimizzare i ricavi delle società di calcio e degli operatori, al fine di differenziarsi dai concorrenti e remunerare l’ingente investimento richiesto dall’acquisto. La vendita per prodotto e la sua suddivisione in pacchetti (per giorni e orari) è quella che garantisce i maggiori ricavi al venditore. E se è accompagnata da interventi pro-concorrenziali quali la durata limitata (tre anni) e la vendita a più soggetti (no single buyer rule) è anche quella che in linea di massima garantisce il maggiore benessere per il consumatore.
Rispetto alla Lega italiana, la Uefa è apparentemente meno preoccupata dei profili concorrenziali ed è mossa prevalentemente dalla volontà di massimizzare i ricavi a favore delle squadre. La vendita dei diritti tv che detiene rimane perciò per prodotto, come nel resto dei campionati europei. In questo modo, ogni triennio i ricavi crescono in maniera impressionante, mediamente intorno al 25-30 per cento, grazie anche a impennate di paesi come Regno Unito e Francia (tabella 1). Tutto questo consente alle squadre di migliorare la loro rosa e di garantirsi con più facilità i migliori talenti.
Tabella 1 – Evoluzione delle vendite dei diritti audiovisivi della Champions League (a stagione – milioni di euro)
Fonte: Uefa/ITMedia Consulting
Naturalmente, sulla diversa disponibilità a pagare da parte dei broadcaster incidono anche altri elementi: ad esempio sull’ultima asta ha influito la riforma della Champions League, che porterà alcuni paesi come l’Italia ad avere quattro e non tre squadre in gara, e la diversa collocazione oraria di alcune partite.
Incide anche il diverso grado di sviluppo dei mercati, in particolar modo quelli di internet e della banda larga, dove i processi di consolidamento tra telco (operatori telecomunicazioni) e pay tv e l’ingresso sempre più consistente degli Ott (Over-the-top) alzano il livello della competizione e accrescono gli incentivi ad acquisire un prodotto pregiato come il calcio che rappresenta un elemento di differenziazione e una parte essenziale dell’offerta editoriale, rendendola più attraente rispetto ai concorrenti.
È probabilmente anche per questo che, contrariamente alle attese della vigilia, Sky e Mediaset hanno puntato le loro carte con decisione sulla Champions League, in attesa che la situazione sul mercato televisivo italiano si chiarisca e che il nuovo bando della Lega, previsto tra qualche mese, rimuova alcuni degli ostacoli alla migliore riuscita della gara a livello economico.
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Roberto
Secondo il suo ragionamento sky e mediaset hanno partecipato al bando dei diritti per la champions league perché erano venduti per prodotto quindi veniva garantita l’esclusiva.
Allora come mai mediaset è ricorsa all’antitrust sul bando dei diritti di serie a contestando proprio il pacchetto D, l’unico venduto per prodotto e non per piattaforma?
Luca Colombo
Ero curioso anch’io di conoscere la risposta, perché non sono certo di aver capito tutto di questa faccenda. Ma sono passati quattro mesi e non vedo replica. Forse l’autore ritiene di essere stato così chiaro ed esaustivo da ritenere che nessun quesito meriti risposta.