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Flat tax: riforma strategica o salto nel buio?

Alla proposta di flat tax dell’Istituto Bruno Leoni mancano troppi dettagli perché possa essere considerata un progetto articolato e realizzabile. Ma è lo spunto per un serio dibattito sull’urgenza di riformare l’Irpef e alcuni istituti di welfare.

Una riforma complessa

La riforma proposta dall’Istituto Bruno Leoni sulla flat tax ha indubbiamente ambizioni strategiche: non si limita a rivedere radicalmente l’Irpef o l’intera imposizione diretta, ma interviene in modo significativo anche su altri tributi erariali (Iva, cedolari), sulle principali fonti di entrata di regioni ed enti locali (Irap, Imu, Tasi, addizionali Irpef), nonché su alcuni pilastri fondanti del welfare (in particolare la sanità, ma in prospettiva anche l’istruzione universitaria e il finanziamento della previdenza pubblica).

Per rendersi conto della complessità della riforma è sufficiente uno sguardo alla tabella 1, che sintetizza i principali interventi proposti, le modifiche rispetto al regime vigente e gli effetti sul bilancio pubblico. Sorprende che a fronte di una ipotesi di riforma così ampia e articolata, molti dettagli siano in realtà assenti o poco esplicitati, mentre purtroppo, in questa materia, si sa, il diavolo è proprio nei dettagli. In particolare, non è chiaro come sarebbero articolate le varie deduzioni Irpef diverse dal minimo vitale (per lavoratori dipendenti e anziani, famiglie con figli minori, soggetti non autosufficienti e così via), né le modalità con cui le stesse (tutte, incluso il minimo vitale, o solo alcune?) decrescono al crescere del reddito. Restano poi molti altri dubbi, di cui si dà conto nella tabella. Non è un caso che tutti i commenti si siano finora limitati a una più o meno generica adesione o critica al modello flat tax, più che entrare nel merito della proposta stessa.

Tabella 1 – Principali interventi previsti: confronto con il regime vigente e  effetti sul bilancio (- minori entrate; + maggiori entrate o minori spese). Dati 2015, in miliardi di euro

Nota: Rispetto ai 31,2 di squilibrio evidenziati in tabella, va considerato che la Tasi sulla prima abitazione, presente nei dati 2015 a cui fa riferimento la tabella, è stata già abolita con un mancato gettito di circa 4 mld.

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Tutti i limiti della proposta

Per quanto riguarda gli effetti distributivi, l’evidenza empirica riportata induce a ottimismo: migliorano significativamente sia l’indice di Gini che quello di Reynolds-Smolenski, ma gli indici sono calcolati considerando solo la riforma dell’Irpef (che comporta un calo di gettito di 72 miliardi) e non altri interventi potenzialmente molto regressivi, come l’aumento dell’Iva per 19 miliardi, la perdita di prestazioni socio-assistenziali per circa 60 miliardi e la nuova imposta locale sui servizi (+4,5 miliardi).

In altre simulazioni (grafici) vengono inclusi gli effetti dell’aumento dell’Iva e della abolizione dell’Imu, ma mancano tutti gli altri interventi. Anche i confronti “caso per caso” che possono essere fatti grazie a un accattivante simulatore includono solo le imposte dirette e indirette e rischiano di essere parziali e fuorvianti.

L’impatto sul bilancio pubblico è definito prudenziale, ma non si spiega, ad esempio, come è calcolato il maggior gettito del nuovo contributo sanitario (18 miliardi). Inoltre non si considera l’abolizione dei ticket, che dovrebbe accompagnare il nuovo contributo sanitario. Non si spiega in base a quali variazioni compensative sia dovuta la parità di gettito sui redditi delle attività finanziarie, attualmente tassati con aliquote che vanno dal 12,5 al 26 per cento. Inoltre, ben 27,4 miliardi di copertura vengono dalla spending review, le cui difficoltà sono ben note.

Non sarebbe garantita, per più di 30 miliardi, la parità di entrate per regioni e comuni, che perdono addizionali Irpef, Irap, Imu e Tasi. Le minori risorse disponibili agli enti locali potrebbero spingerli a ridurre la spesa o ad aumentare altre entrate. Non sembra che gli autori pensino a un aumento dei trasferimenti statali, ma piuttosto al recupero di evasione e all’aumento delle rendite catastali. I comuni dovrebbero poi riaffrontare, per l’ennesima volta, il tormentone della tassazione della prima abitazione, che verrebbe in prospettiva tassata ben due volte: con l’aliquota del 25 per cento sulla rendita catastale (venendo meno la deducibilità dal reddito complessivo) e con l’imposta sui servizi (una riedizione della Tasi originaria). Sono assenti, o poco argomentate, valutazioni sugli effetti comportamentali: sui consumi, sull’evasione, sull’offerta di lavoro.

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Gli autori sono consapevoli dei limiti della proposta e della complessità di attuazione e trattano il delicato tema del processo di transizione, su cui spesso si arenano o rischiano di farlo le grandi riforme, ma solo in un breve paragrafo (7.8), dove si limitano a tracciare a grandi linee un possibile percorso, che vede la riforma dell’Irpef subordinata all’efficacia della spending review e il rinvio prudenziale dell’abolizione delle addizionali Irpef regionali e comunali.

In conclusione, più che un progetto organico ed effettivamente realizzabile, la proposta di Ibl è un sasso nello stagno: l’auspicio è che invece di alimentare sterili contrapposizioni costituisca un’utile provocazione per stimolare un serio dibattito e riattivare l’attenzione sulla urgenza di riformare l’Irpef e alcuni istituti di welfare.

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La concorrenza può attendere

  1. Michele Lalla

    Un problema a monte, non sottolineato abbastanza, concerne l’ignoranza (nel senso che ignorano) dei ricercatori dell’Istituto Bruno Leoni, che sono quanto meno scriteriati: la proposta è anticostituzionale, perché viola il principio di progressività delle imposte, il quale richiede almeno tre aliquote e in modo che siano piú che proporzionali. Queste uscite bizzarre gettano solo discredito sull’Istituto, perché si sono mossi piú per narcisismo mediatico o, peggio, per rincorrere le proposte balzane della lega. Sugli altri aspetti o dettagli tecnici si può pure discutere, partendo almeno da tre aliquote. L’aumento dell’IVA, poi, serve solo per fare pagare ai poveri le spese che servono maggiormente, in definitiva, ai ricchi, come le infrastrutture, la scuola, la polizia, eccetera. Mi fermo qui per fermare il furore necessario, in questo caso.

    • Nicola

      in realtà la progressività si può realizzare con più metodologie: per scaglioni (com’è adesso), con detrazioni ed aliquota unica; per classi, ovvero fino a 10000 il 2%, fino a 20.000 il 3% ecc.
      che la proposta sia bizzarra e getti discredito sul proponente (soprattutto se viene pagato per fare l’analista e non il “portatore di felpa”) è evidente, ed il successo fra i leghisti ne conferma la limitata bontà.

  2. Massimo Matteoli

    Chiunque con il livello attuale di debito pubblico proponga una riduzione sostanziale e strutturale della pressione fiscale è un matto o un pericoloso demagogo.
    Potrà non piacere, ma questa è la dura ma vera legge dei fatti.

    • bob

      sono d’accordo ma Lei crede che questo livello di tassazione possa essere sopportato? Io credo di no. Inoltre non solo sarebbe da rivedere il peso delle tasse, ma soprattutto la burocrazia soffocante e inutile che crea danni maggiori della stessa tassazione, ma le pare possibile che un pensionato deve andare dal CAF o dal commercialista per dirne una?

  3. Henri Schmit

    Nel 1980, anno di elezione di Ronald Reagan, si discuteva già di flat tax , addiruttura all’università a Parigi. Nel frattempo anche i riformatori neo-liberali più radicali si sono accorti che l’idea è eccessiva. E nel frattempo le disuguaglianze sono cresciute come mai prima in così poco tempo. Riproporre ora la flat tax sembra una provocazione. L’unico merito è di ricordare a tutti che bisogna partire da un piano di riforma se possibile onnicomprensivo, invece di proporre riformette che domani chiedono altre correzioni e rendono tutto sempre più bizantino, incontrollabilee ingiusto. Negli ultimi 30 anni non ho visto in questo paese alcun progetto, solo ritocchi. Ultimo: non vedo nella soluzione IBL una tassa sulle successioni, sarà flat o abolita?

  4. ancora con queste proposte indecenti, oltre che incostituzionale non è sostenibile e poi mi ricorda tanto il famoso trickle down che poi non si verifica mai in pratica , abbiamo grossi problemi di elusione ed evasione, forse per questo le tasse per chi le paga sono troppo alte

  5. Nicola

    E’ notizia del giorno che in Italia l’1% della popolazione detiene circa il 20% della ricchezza.
    E circa 9 milioni di persone sono in stato di povertà.
    Sovente chi propone la flat tax parte dal presupposto della sua evasione (vera) per postulare che un’aliquota ridotta ridurrebbe contestualmente l’evasione.
    Ipotesi che al più interesserebbe una fascia marginale di evasori.
    Indiscutibile è che l’aumento dell’iva ha effetti regressivi.
    Come pure la riduzione del welfare dovuto alle minori entrate.
    Dopo l’esperimento di Reagan, in un contesto assai diverso, è francamente bizzarro sentire qualcuno tirare Laffer nuovamente fuori dal cappello.
    Magari in Svezia un esperimento del genere potrebbe essere tentato, ma in Italia significa distruggere quel poco che tiene insieme più di 40 milioni di persone che “sopravvivono” con stipendi e pensioni.
    Fortunatamente c’è l’articolo 53… anche se in caso di referendum basterebbe dire al cittadino medio italiano che si abbassano le tasse, tanto il ragionamento sulle conseguenze gli sarebbe indigeribile.

  6. Salvatore Iannazzo

    Io devo essere rimasto indietro: come si fa ad istituire una flat tax quando un articolo della Costituzione, il 53, stabilisce che “Tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva. Il sistema tributario è informato a criteri di progressività”.
    Che sia stato abolito senza che io me ne rendessi conto?

  7. Premetto che vado controcorrente rispetto a chi ha pubblicato i commenti fin’ora. Sfugge a costoro che soltanto il reddito da lavoro e assimilati (pensione) è rimasto imbrigliato nell’Irpef attuale. Occorre prendere atto degli intervenuti cambiamenti epocali e provare con una visione scevra da pregiudizi di sorta (cfr. F.De Benedetti, Sole 24 Ore del 12/7/2017) a liberare il lavoro da una tassazione iniqua se non vessatoria (anche su questo cfr. D.Stevanato, sulle medesime colonne). Quanto meno rendiamo opzionale la tassazione sul lavoro come per l’Iri (24% – legge di Bilancio 2017).

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