La manovra rende più facili gli investimenti delle amministrazioni locali, ma non dà incentivi monetari alla loro realizzazione. E continua a impedire ai comuni di utilizzare la leva fiscale per aumentare le risorse a propria disposizione.
Poco chiaro e molto scuro
È in discussione in queste settimane la legge di bilancio per il 2018, approvata in prima lettura dal Senato il 30 di novembre mediante voto di fiducia al Governo. Si tratta, naturalmente, di un documento ancora provvisorio, sia per quanto riguarda gli specifici interventi sia per quanto riguarda la loro dimensione quantitativa. A maggior ragione, la prudenza nel commentare misure non definitive risente della recente lettera che la Commissione europea ha inviato all’Italia, nella quale di fatto invita il paese a trovare, tra oggi e la prossima primavera, circa 3,5 miliardi aggiuntivi per rispettare gli obiettivi di saldo strutturale. Alla luce di questa doverosa premessa, che cosa possiamo imparare e che cosa possiamo suggerire per quanto riguarda gli interventi dedicati agli enti locali?
Due sono gli aspetti che vale la pena di mettere in evidenza. In primo luogo, dal lato della spesa, la legge di bilancio rende più facili gli investimenti, mettendo a disposizione risorse finalizzate allo scopo. Più precisamente, si tratta di incentivi agli investimenti per la messa in sicurezza di edifici e del territorio, per un ammontare di 750 milioni di euro nel triennio 2018-2020, col vincolo però che nessun comune possa ottenere più di 5.225.000 euro complessivi. Altri interventi specifici, per 30 milioni di euro nel triennio, sono previsti per i piccoli comuni, con popolazione inferiore a 5 mila abitanti, per la tutela dell’ambiente e dei beni culturali, l’attenuazione del rischio idrogeologico, la riqualificazione dei centri storici, la messa in sicurezza delle infrastrutture stradali e degli istituti scolastici, la promozione dello sviluppo economico e sociale e l’insediamento di nuove attività produttive.
L’intervento più generoso, sempre in tema di investimenti, assegna spazi finanziari agli enti locali (nell’ambito dei patti di solidarietà nazionali) fino a complessivi 700 milioni annui – di cui 300 destinati all’edilizia scolastica – per il 2017 e fino al 2023, con un aumento a 900 milioni per il 2018 e il 2019 (sempre con alcuni vincoli sulla destinazione a favore dell’edilizia scolastica e degli impianti sportivi).
Infine, 30 milioni nel triennio sono destinati a incentivare le fusioni dei piccoli comuni: si tratta di un tema caldo, insieme a quello delle unioni di comuni, ma il legislatore non sembra seguire un percorso coordinato, logico e continuativo, all’interno del ridisegno più ampio delle funzioni degli altri enti territoriali “intermedi”, vale a dire province e città metropolitane.
In secondo luogo, sul fronte delle entrate, persiste il blocco delle aliquote dei tributi locali, fatta eccezione per la Tari, l’imposta di soggiorno – comunque limitata a specifici comuni – e altre imposte minori. La scelta, determinata dal tentativo del governo centrale di controllare in qualche modo il livello della pressione tributaria complessiva, limita fortemente l’autonomia impositiva degli enti locali e, di conseguenza, riduce gli spazi di autonomia nella gestione della loro attività di spesa.
Sempre dal lato del finanziamento, va invece valutato in modo positivo l’accordo raggiunto in questi giorni per la ripartizione del Fondo di solidarietà comunale per il 2018, quindi prima dell’anno di riferimento. L’intesa è stata resa possibile anche dalla nuova calendarizzazione sia della fase di passaggio ai fabbisogni standard, che si concluderà nel 2021, sia dell’accantonamento al bilancio del Fondo crediti di dubbia esigibilità.
Possibili miglioramenti
Sono due le “colpe” principali della legge di bilancio nei confronti degli enti locali.
La prima è la mancanza di un sostanzioso incentivo monetario per rilanciare gli investimenti, vero punto di debolezza del sistema economico italiano. La seconda è impedire ai comuni di utilizzare la leva fiscale per aumentare le risorse a propria disposizione e quindi offrire maggiori o migliori servizi ai propri cittadini.
L’anticipo nell’assegnazione dei fondi è certamente utile, ma di fatto solo una cura palliativa. Per aumentare gli investimenti, senza ricorrere a nuovi stanziamenti di bilancio, una strada percorribile potrebbe essere quella di potenziare i Patti regionali, vale a dire di responsabilizzare maggiormente le regioni, dotandole del potere di gestire più liberamente la ripartizione di spazi finanziari tra i diversi comuni.
In aggiunta, ma questo è argomento che non andrebbe necessariamente trattato in una legge di bilancio, è ormai diventato inderogabile ridefinire i ruoli, le competenze e le risorse delle province e il loro rapporto con gli altri livelli di governo.
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Pietro Negri
Il Forum per la finanza sostenibile ha elaborato un interessante e completo documento:
http://finanzasostenibile.it/wp-content/uploads/2017/09/manuale-sviluppo-locale-WEB.pdf
serlio
Al solito; gli intellettuali statalisti prestano il loro operato a sostegno del massacro fiscale del contribuente, dimenticando una semplicissima regola; “i soldi degli altri, (i contribuenti), non bastano mai.
Già l’IMU sulle seconde case è una bestialità giuridica, per cui si estorce denaro a chi non vota, in nome di una pretesa perequazione, mentre gli sprechi dei Comuni non finiscono mai e su questi non trovate mai niente da dire. Troppi dipendenti, troppe partecipate, poche responsabilità dirette, troppi comuni microscopici e via dicendo. Basta tasse!
david berera
Quindi, riassumendo brevemente, “male” perché non è prevista la possibilità di aumentare la tassazione a livello locale per fare più spesa pubblica?
Giorgio
Cosa si intende dire quando si afferma che il governo continua a limitare l’autonomia impositiva dei Comuni (a vantaggio di chi?), quando è noto che una buona parte, se non la gran parte, dei tributi locali (in termini di entrate) è posta a carico dei non residenti con IMU e Tasi in genere alle massime aliquote, ed essendo del tutto esentati i residenti (visto che gli immobili A1 in Italia sono una rarità)? Senza contare che coloro che, unici, pagano le imposte sugli immobili (che magari si vorrebbero sbloccare da parte di qualcuno) non possono nemmeno votare in quel determinato Comune perché non residenti. Sarebbe questa l’autonomia fiscale?
Giorgio
Aggiungo: i servizi locali (anche la Tari, me n’ero dimenticato, pagata anche a tariffa piena in genere a fronte spesso di nulla o scarsa produzione di rifiuti) pagati dai non residenti a vantaggio dei residenti. E si vorrebbe lasciare ai Comuni lapossibilità di utilizzare maggiormente la leva fiscale. Il mondo alla rovescia…in Italia. All’estero (ovunque) si pagano a livello locale le imposte anche sulle prime case…
Giorgio
Cosa si intende dire quando si afferma che il governo continua a limitare l’autonomia impositiva fiscale dei Comuni (a vantaggio di chi?), quando è noto che una buona parte, se non la gran parte, dei tributi locali (in termini di entrate) è posta a carico dei non residenti con IMU e Tasi in genere alle massime aliquote e Tari pagata anche in presenza di nulla o scarsa produzione di rifiuti, ed essendo del tutto esentati i residenti che ne usufruiscono in massima parte (visto che gli immobili A1 in Italia sono una rarità)? Senza contare che coloro che, unici, pagano le imposte sugli immobili, non possono nemmeno votare in quel determinato Comune perché non residenti. Vogliamo forse aumentare ancora le aliquote IMU e Tasi e, magari, le tariffe Tari per chi non gode se non in misura minima dei servizi a livello locale? Non sarebbe il caso di avere il coraggio di chiedere la reintroduzione delle imposte sulle prime case (come ci sono in tutta Europa) invece che lasciare eventualmente mano libera ai Comuni di aumentare indiscriminatamente l’imposizione fiscale? Sarebbe questa l’autonomia fiscale o il cosiddetto federalismo?