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Patto per la fabbrica. Al minimo sindacale*

Confindustria, Cgil, Cisl e Uil hanno siglato accordo interconfederale definito “Patto per la fabbrica”. Obbliga la politica e la futura maggioranza a ripartire dalle parti sociali. Ma non tocca le questioni che dovrebbero essere al centro della discussione.

Rappresentanza e sistema di contrattazione

Nella notte tra il 27 e il 28 febbraio, Confindustria, Cgil, Cisl e Uil hanno siglato il cosiddetto “Patto della fabbrica” che dovrebbe segnare un nuovo inizio per le relazioni industriali in Italia. In realtà, l’accordo, ora al vaglio degli organismi dirigenti delle varie organizzazioni, sembra solo il minimo comune denominatore che era possibile raggiungere prima delle elezioni tra parti ancora distanti. E benché fosse in gestazione da molti mesi, arriva sotto la pressione delle proposte bipartisan di introduzione di un salario minimo che le parti sociali, soprattutto i sindacati, non vedono di buon occhio.
Al di là della dimensione politica, ci sono due punti nell’accordo che meritano attenzione.
Il primo riguarda la misurazione della rappresentanza di parte datoriale. Il Testo unico del 2014 aveva definito le regole per la misurazione della rappresentanza sindacale, ora quest’accordo chiude il cerchio. Se applicato, aiuterà a combattere i cosiddetti “accordi pirata” (accordi formalmente legali ma firmati da parti non rappresentative e mirati a indebolire quelli esistenti) e rafforzerà il recente protocollo sottoscritto dalle parti sociali con il Cnel per la raccolta e l’archiviazione dei contratti collettivi più rappresentativi. Tuttavia, ora bisogna definire i criteri per misurare la rappresentatività e ci sono ancora varie difficoltà tecniche. A conferma della complessità dell’esercizio, nonostante il Testo unico sia del 2014, stiamo ancora aspettando i dati sulla rappresentatività sindacale.
Un secondo elemento importante dell’accordo riguarda il funzionamento del sistema di contrattazione. In Italia, dice chiaramente il testo, continuerà a basarsi su due livelli, nazionale (anche se sarebbe più corretto dire settoriale), incaricato di preservare il potere d’acquisto del salario, e quello aziendale (o territoriale) in cui effettuare lo scambio salario-produttività. Il trattamento economico del contratto settoriale sarà composto da due parti:

  • una prima, detta trattamento economico minimo (Tem), che fissa i minimi e varia secondo l’indice dei prezzi al consumo depurato dalla dinamica dei prezzi dei beni energetici importati (se ex ante o ex post questo toccherà ai singoli settori definirlo);
  • una seconda, da sviluppare soprattutto a livello aziendale, detta trattamento economico complessivo (Tec) che comprende tutte le componenti salariali oltre al minimo e anche le forme di welfare.
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Da un lato, la distinzione contribuisce a chiarire il perimetro di ciò che è incluso nell’accordo integrando il welfare a pieno titolo nel trattamento economico. Ma soprattutto l’intesa segna la fine di nove anni di opposizione formale da parte della Cgil contro l’uso dell’indice Ipca senza beni energetici importati come riferimento per l’aumento dei salari. Tuttavia, la Cgil e le sue categorie hanno già firmato vari accordi usando l’Ipca. L’accordo, quindi, si limita a riaffermare uno stato di fatto.
La distinzione tra Tem e Tec, però, permette di chiarire che mentre i minimi sono indicizzati all’inflazione, il resto no e quindi i sindacati non potranno più accampare pretese di aumento “automatico” sul trattamento economico eccedente il minimo e gli aumenti del trattamento economico potranno essere più liberamente negoziati caso per caso.

Quello che manca

Il Patto obbliga la politica e la futura maggioranza a ripartire dalle parti sociali. Tuttavia, non tocca le questioni che dovrebbero essere al centro della discussione. Per esempio, come adeguare il sistema di contrattazione all’enorme eterogeneità aziendale e regionale, senza perderne il carattere inclusivo (cioè senza delegare tutto al livello aziendale). Oppure come rendere il sistema di contrattazione a “prova di crisi” con meccanismi di coordinamento tra le parti. Oppure ancora come includere le nuove forme di lavoro nella contrattazione collettiva. L’accordo non recepisce nemmeno alcune recenti innovazioni come il diritto soggettivo alla formazione contenuto nell’accordo dei metalmeccanici. I temi più interessanti come welfare, formazione, salute e sicurezza e partecipazione sono menzionati, ma rinviati a futuri protocolli attuativi. Forse troppa energia è stata spesa nella disputa sul considerare l’inflazione ex ante o ex post. Non è un problema che le categorie trovino le proprie soluzioni, anzi è il vantaggio della contrattazione collettiva rispetto alla legge uguale per tutti.
Le relazioni industriali non sono al centro del programma di nessuno dei partiti che potrebbero governare nei prossimi mesi o anni. Il Partito democratico e il Movimento 5 stelle hanno proposto una legge sulla rappresentatività. Al di là di alcune menzioni generali per “promuovere la contrattazione a livello aziendale”, nessun partito ha proposto di mettere mano in maniera sostanziale al sistema di contrattazione collettiva. Senza il bastone di un intervento governativo, la carota degli accordi interconfederali non sembra portarci molto lontano.

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  1. Woodpecker

    Domanda ingenua: ma è normale che siano due parti – Confindustria e sindacati – a “chiudere il cerchio” della misurazione della rappresentanza sindacale? Non so rischia che ne esca un modello che, paradossalmente, non sarà rapprentativo in quanto definito da un accordo tra alcune delle parti?

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