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Ma le guerre commerciali non prevedono il lieto fine

Oggi è difficile essere ottimisti su una risoluzione consensuale della controversia commerciale tra Usa e Cina. Ma se le sanzioni minacciate diventassero realtà, il gioco si farebbe davvero pericoloso, per i due paesi e per gli scambi internazionali.

Mosse Usa e contromosse cinesi  

Gran parte degli osservatori avevano paventato il rischio che le mosse del presidente Trump in materia di politica commerciale sarebbero potute sfociare in una disputa fuori controllo. Basta guardare la sequenza temporale preparata dal Financial Times per capire che la previsione si è avverata:

  • 23 marzo: gli Stati Uniti impongono dazi su acciaio e alluminio usando la clausola della sicurezza nazionale (section 232 del codice di commercio americano) per motivare la decisione, come argomentato in questo articolo. Alcuni paesi, tra cui l’Unione europea, ottengono una temporanea moratoria (in scadenza il 1° maggio). La Cina viene colpita dalle misure, anche se in modo marginale.
  • 2 aprile: la Cina annuncia dazi compensativi alle misure americane su acciaio e alluminio, imponendo nuove tariffe del 25 per cento su 128 categorie di prodotti Usa, tra cui carne di maiale, frutta e noci, tubi di acciaio, per un controvalore di circa 600 milioni di dollari di esportazioni americane.
  • 3 aprile: l’amministrazione Usa annuncia un nuovo elenco di 1333 categorie di prodotti cinesi che potrebbero essere soggette a tariffe del 25 per cento entro l’estate, per stimati 60 miliardi di dollari. Secondo le autorità americane, i dazi hanno lo scopo di eliminare alcune pratiche commerciali cinesi “irragionevoli o discriminatorie”, inclusi trasferimenti forzati di tecnologia, investimenti e acquisizioni di beni per ottenere proprietà intellettuale e tecnologia statunitense, a seguito di una specifica indagine (section 301) del dipartimento del Commercio americano.
  • 4 aprile: la Cina identifica un elenco di 106 categorie di prodotti americani pari a circa 50 miliardi di dollari che potrebbero a loro volta essere soggetti a tariffe del 25 per cento. Contrariamente alle misure del 2 aprile, questi prodotti includono alcune esportazioni chiave degli Stati Uniti verso la Cina, come i semi di soia e le auto.
  • 5 aprile: il presidente Trump in un comunicato annuncia che “alla luce delle ingiuste rappresaglie della Cina”, ha incaricato il rappresentante commerciale statunitense di “valutare se 100 miliardi di dollari di tariffe aggiuntive sarebbero appropriate” e di identificare quali prodotti dovrebbero essere interessati da queste ulteriori nuove misure.
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Strategie di breve e lungo periodo

Mentre scriviamo, siamo in attesa dell’annuncio di una possibile nuova rappresaglia cinese, e in generale di capire dove questa insensata guerra commerciale porterà il sistema degli scambi commerciali internazionali, il principale motore della crescita economica mondiale.
Secondo le stime di Natixis, circa l’85 per cento del valore totale dei 1333 prodotti cinesi che potrebbero essere soggetti a tariffa Usa è costituito da esportazioni ad alto valore aggiunto tecnologico (strumenti ottici, medici e di misurazione avanzati; macchinari di meccanica avanzata; prodotti farmaceutici), coerentemente con l’impostazione della section 301 su cui si basano le sanzioni, per un controvalore che sembra inferiore a quello annunciato di circa 60 miliardi di dollari.
Dal canto suo, la lista cinese di 106 tariffe ha un valore effettivo simile a quello annunciato (50 miliardi di dollari) con dazi al 25 per cento comparabili a quelli americani, dunque tecnicamente all’interno delle misure compensative autorizzabili dalla World Trade Organization. I prodotti oggetto delle possibili tariffe (soia, cereali, automobili, aerei) sono caratterizzati da basso valore aggiunto o da tecnologie mature, ma rappresentano alcune tra le principali voci di esportazione americana verso la Cina.
Dunque, mentre da un punto di vista di livello di dazi e volumi di commercio interessati le due politiche sono comparabili, la loro natura è diversa: gli Stati Uniti prendono di mira i settori strategici in cui la Cina sta cercando di crescere, sia in termini di quota di mercato globale che nel livello tecnologico, secondo la dottrina “Manufacturing 2025” voluta da Xi Jing Ping.
Pechino risponde puntando a massimizzare il costo di breve periodo per una ampia parte degli esportatori statunitensi, tentando di limitare i danni per la sua economia. Una strategia che a stretto giro potrebbe pagare, visto che a novembre negli Stati Uniti si vota per il rinnovo di metà Camera e Senato e alcune industrie e stati americani potrebbero essere particolarmente colpiti dalla ritorsione cinese. La risposta di Trump all’annuncio cinese, con la minaccia di un pacchetto ancora più ampio di tariffe, è stata infatti immediata. Tuttavia, è una strategia che nel lungo periodo ha margini limitati, in quanto lo sviluppo industriale cinese in parte dipende dall’export americano: non a caso, la quarta categoria merceologica più importante nelle importazioni cinesi dagli Usa, i semiconduttori, sono stati esentati dalle tariffe.
Date le circostanze, appare difficile essere ottimisti su una risoluzione consensuale della controversia, ma la posta in gioco sembra troppo alta per entrambi i paesi nel momento in cui le sanzioni minacciate dovessero avere effettivamente seguito. A volte, anche nel commercio internazionale vale il detto “se vuoi la pace, prepara la guerra”.

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Quel patto poco utile per la fabbrica

  1. Savino

    Il sovranismo imperante è, peraltro, un’ideologia, condita di ampia propaganda, che non promette nulla di buono.
    Sembra la vecchia tattica del catenaccio nel calcio, con difesa ad oltranza: dazio e contro-dazio; muro e contro-muro. Così si uccide il concetto stesso di scambio commerciale e si ritorna ad un’econimia chiusa di tipo medievale.

    • Savino

      vedasi dichiarazioni di Lagarde (i dazi ci impoveriranno) e di Prodi (nesso con sovranismo)

  2. Luca Ba

    Secondo me si sopravvaluta il gesto del presidente Trump. La Cina già fa dazi su molte importazioni e fa dumping su molte esportazioni, qua stiamo assistendo ad un timido tentativo di riequilibrio. L’articolo propende per la tesi che saranno gli Usa che ci rimetteranno mentre io ne dubito e sono piuttosto convinto che non ci saranno conseguenze grandi per nessuno dei due paesi. Giusto una precisazione vero è che i semiconduttori sono prodotti principalmente in Cina ma è vero che sono prodotti anche in altri paesi (es. Messico) che potrebbero in poco tempo compensare quanto non viene più dalla Cina, questo a dimostrazione che si tratta di poco più di una scaramuccia trumpiana per far vedere che qualcosa di promesso lo sta facendo.

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