Mario Draghi ha mandato un messaggio chiaro ai governi europei. La maggiore fiducia nella stabilità del sistema argina le crisi e riduce così la necessità di interventi pubblici di emergenza. Si deve partire da qui perché l’Unione monetaria funzioni.
Il monito del presidente della Bce
La critica all’Europa che siamo ormai abituati a definire “populista” non è caduta dal cielo. È il riflesso del fatto che la moneta unica non ha realizzato fin qui la sua “promessa di stabilità e prosperità”, come ha detto Mario Draghi l’11 maggio a Firenze. E ciò perché non siamo stati finora capaci di affrontare quegli aspetti che “tutti sappiamo essere incompleti”.
Non è certo la prima volta che il presidente della Banca centrale europea chiama a un salto di qualità dell’assetto istituzionale dell’euro. Ma nel discorso pronunciato all’evento “Lo stato dell’Unione”, organizzato dall’European University Institute, Draghi ha indirizzato alla politica europea un preciso messaggio. È più che mai urgente un progetto comune di riforma che introduca due nuovi strumenti di stabilizzazione: a) una rete di sicurezza pubblica per il fondo di risoluzione bancaria e per l’assicurazione europea dei depositi; b) uno strumento fiscale che scongiuri gli effetti pro-ciclici dei mercati e delle politiche fiscali nazionali in caso di crisi.
A tirare le fila di un possibile accordo al Consiglio europeo del 28 e 29 giugno sono i due protagonisti di sempre, Francia e Germania, con l’Italia più defilata che mai. Nel nostro paese, ormai da tempo, il dibattito sull’euro si è polarizzato sulla questione se sforare o no le regole sul disavanzo, quando non si è allargato alla questione epocale se uscire o meno dalla moneta unica (e dall’Europa). In entrambi i casi riveliamo un atteggiamento di sudditanza o almeno di riluttanza a entrare nel merito delle riforme necessarie a un continente che oggi si trova ad agire in uno scacchiere internazionale in profonda mutazione.
Dal canto loro, i due paesi leader stentano a trovare un accordo.
In particolare, la Germania insiste sul fatto che ogni riforma che comporti forme di condivisione del rischio non debba avvenire prima di aver preventivamente ridotto quel rischio nei paesi membri. Insomma, condividere il rischio sì, ma a condizione che da condividere sia rimasto poco o nulla. Un’impostazione che Draghi ha decisamente criticato, affermando che “la dicotomia tra riduzione del rischio e condivisione del rischio che caratterizza il dibattito odierno è, sotto molti aspetti, artificiosa”. E che “con la struttura politica giusta questi due obiettivi si rafforzano a vicenda”. Per il presidente della Bce, riduzione e condivisione dei rischi devono essere affrontate in maniera complementare. E ha ampiamente spiegato perché.
Un problema sistemico
La convinzione viene da una diagnosi che va oltre le responsabilità dei singoli paesi e che mette al centro il carattere sistemico del problema. Secondo il presidente della Bce, il filo rosso della crisi è stata l’impossibilità di assorbire efficacemente gli shock. Come ha affermato in altre occasioni, la povertà e la disoccupazione dovute alla crisi sono state largamente causate dall’assetto incompleto dell’Unione monetaria, che ha risposto accentuando le divergenze tra i paesi. Non si tratta dunque di pensare a un euro a due velocità, che non farebbe altro che “raddoppiare” il problema.
Draghi ha invece voluto distinguere tra condivisione del rischio “a posteriori” (quando il danno ormai è fatto e si deve correre ai ripari) e condivisione del rischio “a priori”. È il secondo che fornisce la cornice istituzionale in ogni unione monetaria (l’esplicito riferimento è agli Stati Uniti, al Regno Unito e al Giappone), con l’assordante eccezione di quella europea.
La cornice istituzionale europea dovrebbe articolarsi in due strumenti addizionali di stabilizzazione. Il primo è la creazione di una rete di sicurezza fondata su un sostegno pubblico del fondo unico di liquidazione delle banche e dell’assicurazione dei depositi. La consapevolezza che la risoluzione delle crisi bancarie possa essere condotta con successo alimenta la fiducia e riduce i rischi.
Ma questo non sarebbe sufficiente senza un nuovo strumento europeo di politica fiscale che mantenga la convergenza durante gli shock. Le due strutture europee create in funzione anti-crisi, l’Omt (Outright Monetary Transactions) e l’Esm (European Stability Mechanism) non bastano, ha spiegato Draghi, in quanto la condizionalità dei loro programmi produce, in caso di crisi, una restrizione fiscale pro-ciclica che accentua le divergenze tra i paesi. Qui Draghi pensa evidentemente a qualcosa di molto più ambizioso di un fondo per le emergenze, proponendo di legarlo alla fornitura di beni pubblici come difesa, sicurezza e migrazione.
Comunque lo si voglia interpretare, il messaggio è chiaro: la maggiore fiducia nella stabilità del sistema argina le crisi e finisce per ridurre la necessità di interventi pubblici di emergenza. È da qui che si deve partire perché l’unione monetaria funzioni. Ai governi la responsabilità storica di prendere un’altra strada.
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Henri Schmit
Con tutto il rispetto per il prof. Terzi e per il presidente della BCE trovo che questo articolo e l’argomento di Mario Draghi sull’artificialità della distinzione (dicotomia sembra un termine inappropriato) fra riduzione e condivisione dei rischi e sulla necessità di distinguere fra condivisione del rischio a priori e a posteriori (domanda: a quale dei due sostantivi che lo precedono il complemento di tempo si rapporta?) siano pura retorica, né giusti né sbagliati, ma semplicemente una riformulazione del problema, non una soluzione (nuova). Ovvio, se ci fosse una politica fiscale e finanziaria comune – quod non – riduzione e condivisione dei rischi viaggerebbero insieme. Ma per il momento questa non c’è, e i paesi (limitatamente) sovrani sono impegnati in sforzi di convergenza, ma residualmente liberi di interpretare questa convergenza ciascuno come meglio crede, in modo serio e responsabile, o in modo più disinvolto, furbesco. Il nodo è la legittimazione elettorale e la capacità degli attori politici nazionali di proporre politiche virtuose, cioè convergenti. Proprio le vicissitudini attuali intorno alla formazione del governo e della formulazione di una nuova politica finanziaria e fiscale evidenziano quanto le parole del presidente della BCE siano teoriche e lontane dalla realtà. Un euro a due velocità essendo assurdo bisogna rinforzare i meccanismi diversi dalla condivisione dei rischi per indurre gli attori nazionali a ridurre deficit, debito e rischi.
Andrea Terzi
La ringrazio del suo utile commento.
Il termine usato da Draghi è proprio “dicotomia” ed è più appropriato di “distinzione” in quanto ciò che è in discussione non è che si tratti di due problemi distinti. È che si tratti di due problemi trattabili separatamente e “in sequenza”.
La condivisione del rischio ex ante significa disporre di strumenti che mantengono coesione, anche impedendo gli effetti di divergenza di una recessione dell’area.
Alla fine, mi pare che le due visioni differenti siano queste: a) L’euro potrà sopravvivere premunendosi di strumenti che promuovono la convergenza b) L’euro potrà sopravvivere se i paesi vorranno convergere. L’esperienza degli ultimi 10 anni dimostra, a mio parere, che la seconda non è percorribile, e ciò in quanto, assenti quegli strumenti, i paesi divergono e l’incentivo predominante è difendere il paese dagli effetti dell’euro.
Henri Schmit
Ringrazio dell’attenzione. La mia affermazione “ovvio, se ci fosse una politica fiscale e finanziaria comune – quod non – condivisione e riduzione dei rischi viaggerebbero insieme” è sbagliata; intendevo un’altra cosa; in realtà non ci sono due metodi possibili, bensì tre. La sua alternativa “delle due visioni” è giusta, ma ignora il punto cruciale, la condivisione dei rischi. Sono d’accordo che la storia recente evidenzia che la soluzione b) non funziona. Ma la soluzione a) significa solo riduzione comune e vincolante delle politiche divergenti e quindi dei rischi, non condivisione dei rischi. Basterebbe maggiore autorevolezza, severità e potere di costrizione da parte delle istanze comuni nei confronti di quelle nazionali per assicurare politiche convergenti per ridurre gradualmente i rischi, differenti per paesi. La madre di tutti gli errori è stata quando prima la Germania poi e più a lungo la Francia hanno sforato i limiti del deficit. Dopo è più difficile dire all’Italia (ai suoi politici che cercano la rielezione) che deve rispettare i parametri. Tempo fa Merkel l’ha capito e riconosciuto pubblicamente.
Piero
L’euro è stato salvato dal QE, oggi quella strada non può essere abbandonata, abbiamo già regole stringenti nei bilanci nazionali che devono giustamente essere rispettate, solo che la Bce deve fare la sua parte; deve consolidare il debito pubblico dei paesi euro, in modo proporzionale tra di loro, almeno il 50%, sono circa 5.000 miliardi. Il consolidamento deve avvenire in almeno 50 anni e deve altresì concentrarsi sull’inflazione, non è ancora riuscita a riportarla al livello prefissato del 2%.
Se la Bce non va verso questa rotta che gli è permessa dal trattato europeo, basta volerlo, non occorrono modifiche, è inutile parlare di banche. Le istituzioni finanziarie sono un aiuto all’economia reale, se quest’ultima muore non ha senso parlare di banche.