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Quel che resta di Schengen

I trattati europei stabiliscono un esplicito legame tra l’eliminazione dei controlli alle frontiere interne e una politica comune e solidale verso i paesi terzi. L’eccezione è il regolamento di Dublino III. E ora si aprono altre inquietanti prospettive.

UE tra solidarietà e controlli alle frontiere

Nelle ultime settimane il significato dell’espressione “movimenti secondari” è emerso nella sua valenza politica, oltre che tecnica. Si riferisce all’attraversamento delle frontiere tra paesi membri dell’Unione europea di richiedenti asilo, ossia di cittadini di paesi terzi giunti sul suolo europeo che fanno domanda di protezione internazionale al fine di ottenere lo status di rifugiato in base ai principi della Convenzione di Ginevra del 1951. Fino alla decisione definitiva delle autorità competenti sulla sussistenza dei requisiti richiesti per tale status, hanno il diritto di soggiornare nel paese di arrivo, anche se privi documenti d’identità o giunti in maniera irregolare.

Una volta arrivati in un paese membro, le loro possibilità di muoversi all’interno dell’Unione sono definite da due regolamenti che portano il nome della città dove furono originariamente concepiti. I richiedenti possono recarsi in un altro paese europeo confidando sull’assenza di controlli alle frontiere tra paesi membri stabilita dal cosiddetto sistema Schengen. Sennonché questo tipo di spostamenti appare incompatibile con il c.d. regolamento Dublino III dalla cui disciplina deriva in sostanza che solo il paese di primo arrivo debba prendersi carico del richiedente asilo.

Il cortocircuito giuridico discende dall’incompleta e contraddittoria attuazione delle norme dei trattati UE. Infatti, l’articolo 67 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea (Tfue) stabilisce un esplicito legame tra l’eliminazione dei controlli alle frontiere tra Stati membri e una politica comune e solidale nei confronti degli stati terzi. La norma prevede che l’Unione realizzi uno spazio comune europeo mediante l’eliminazione dei controlli sulle persone alle frontiere interne e “una politica comune in materia di asilo, immigrazione e controllo alle frontiere esterne, fondata sulla solidarietà tra stati membri ed equa nei confronti dei cittadini dei paesi terzi”.

Mentre l’eliminazione dei controlli alle frontiere interne è pienamente avvenuta già negli anni passati e oggi è codificata nel sistema Schengen, la politica comune e solidale verso gli stati terzi è ancora in fase embrionale, non trovando il necessario consenso politico tra i paesi membri. Anzi, i principi ispiratori di Dublino III sono in contrasto con l’idea di solidarietà tra stati membri perché di fatto lasciano la responsabilità e gli oneri finanziari dell’immigrazione solo su quelli che, per ragioni geografiche, possono concretamente risultare di primo arrivo dei migranti.

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La risposta degli stati

Gli stati europei hanno risposto in tre modi diversi alla asimmetria giuridica. I paesi del Gruppo di Visegrad (Polonia, Repubblica Ceca, Slovacchia e Ungheria) e, più di recente, anche l’Austria seguono un approccio contrastante con i trattati: intendono mantenere il completo controllo delle loro frontiere esterne e si oppongono a ogni idea di solidarietà nella politica di immigrazione e asilo. Il tentativo compiuto dalla Commissione europea, nel 2015, di ricollocare obbligatoriamente 120 mila richiedenti asilo entrati irregolarmente in Italia e in Grecia si è scontrato con il rifiuto irremovibile di questi stati, che nemmeno la vincente procedura giudiziaria promossa dalla Commissione ha potuto scalfire.

Gli stati del Sud Europa – oggi maggiormente interessati dai flussi migratori, Italia e Grecia in primo luogo – hanno cercato di rompere lo schema di Dublino III, invocando, nello spirito dei trattati, una maggiore solidarietà degli altri stati membri nell’accoglimento dei migranti (economici e richiedenti asilo). Non ricevendo effettivi riscontri, hanno tollerato quando non favorito il transito dei richiedenti asilo in altri paesi europei; questi ultimi, a loro volta, hanno reagito richiedendo il rafforzamento dei centri di identificazione dei migranti ai confini del Sud Europa (hotspot) e ripristinando i controlli nei punti di frontiera più interessati dal flusso migratorio.

Gli stati del Centro e Nord Europa (Francia e Germania per prime) che, non avendo frontiere esterne raggiungibili dai richiedenti asilo, di fatto non possono risultare paesi di primo arrivo, hanno, per un verso, cautamente accettato l’idea di una misurata ricollocazione dei richiedenti asilo e, per l’altro, difeso i principi di Dublino III, opponendosi risolutamente ai movimenti secondari tra paesi membri. L’opposizione, tuttavia, passa necessariamente per il rispristino di almeno alcuni controlli alle frontiere interne, dunque per la compressione della libertà di circolazione garantita dal sistema Schengen. Quest’ultimo possiede, a dire il vero, strumenti di flessibilità che prevedono una procedura per la sospensione temporanea della sua disciplina in caso di una minaccia grave per l’ordine pubblico o la sicurezza interna dello stato. Tuttavia, un ricorso sistematico e perdurante a questi strumenti può far temere per la tenuta complessiva del sistema. Come emerge dalla documentazione resa disponibile dalla Commissione europea, dal 2006 al 2015 si sono avuti 40 periodi di breve ripristino dei controlli sulle frontiere interne normalmente dovuti a vertici internazionali o eventi sportivi. Mentre dall’autunno del 2015 a oggi i periodi di sospensione di Schengen sono stati 60 e praticamente tutti dovuti a casi di flussi migratori.

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Ma il difetto di solidarietà europea porta purtroppo ad altre inquietanti prospettive. Nei giorni scorsi è emersa in Germania l’idea di creare “centri di transito” dove i richiedenti asilo giunti attraverso movimenti secondari sarebbero temporaneamente detenuti per essere ritrasferiti – sulla base di accordi bilaterali – nei paesi membri dai quali provengono tramite l’attraversamento illegale di una frontiera interna. Dalle confuse notizie che si hanno, questi centri sarebbero istituiti sul suolo tedesco, ma raccoglierebbero stranieri sostanzialmente privi di diritti e destinati a una detenzione potenzialmente senza fine. La prospettiva dunque appare quella di creare una sorta di Guantanámo europea dove i diritti dell’habeas corpus sono negletti o sospesi. Se così fosse, è meglio fermarsi immediatamente.

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I requisiti severi che bocciano le domande di Rei

  1. Henri Schmit

    In gran parte condivisibile l’articolo ignora una questione, delicata e importante: la libera circolazione delle persone vale anche per immigrati clandestini? L’UK ha detto di no causando l’imbuto, l’immenso campo (8.000, di cui 2.000 minori non accompagnati che cercavano di raggiungere parenti o conoscenti oltremanica) poi smantellato, in parte in collaborazione con l’UK che ha fatto entrare 500 minori. La Francia pure ha detto di no, soprattutto dopo che il ministro Marroni aveva detto cinicamente che l’Italia accoglieva per poi lasciar migrare verso altri confini. La narrazione politica e giornalistica di questi fenomeni è stata poco veritiera, demagogica e chauvinista. Ma nessun paese serio al mondo lascia entrare liberamente dei clandestini. Ora con la nuova strategia dell’attuale governo (o ministro) qualsiasi soluzione più favorevole all’Italia è più distante che mai: ricollocamenti, frontiere esterne comuni, sviluppo e sicurezza promossa in comune in Africa. Nell’immediato non prevedo nulla di buono, né per gli immigrati, né per la politica italiana, né per quella europea. Colpa di Dublino? Dubito.

  2. Ezio Pacchiardo

    Perchè non corredare l’interessante articolo con una mappa che per punti ed articoli evidenzi la differenza tra il trattato di Dublino e quello di Schengen ?

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