Quanti lavoratori saranno interessati dalle novità previste per il tempo determinato nel decreto dignità? E con quali effetti possibili? E va anche compreso come la nuova normativa si inserisce nella storia lunga della regolazione del mercato del lavoro.
La platea coinvolta e gli effetti possibili
La discussione sugli effetti del “decreto dignità”, per la parte che riguarda il mercato del lavoro, può essere scomposta in tre parti: a. qual è la dimensione della platea interessata dalle novità (essenzialmente: introduzione della causale dal tredicesimo mese; riduzione del numero di proroghe ammissibili; durata massima limitata a 24 mesi); b. quali sono gli effetti possibili; c. come la nuova normativa si inserisce nella storia lunga della regolazione del mercato del lavoro italiano.
Precisare esattamente i contorni della platea coinvolta è operazione tutt’altro che semplice. Soprattutto perché oggetto delle modifiche introdotte dal decreto non sono le popolazioni usualmente considerate dall’informazione statistica corrente – lavoratori oppure assunzioni (e quindi rapporti di lavoro) – ma eventi la cui esatta individuazione è ben più complessa: rinnovi, a distanza temporale anche rilevante (di anni), di rapporti di lavoro con il medesimo contratto tra il medesimo lavoratore con la medesima impresa; superamento delle soglie di 12 e di 24 mesi di durata da parte di una “catena” di contratti; proroghe distinte per il loro numero d’ordine all’interno di ciascun singolo rapporto di lavoro. In aggiunta occorre considerare le numerose eccezioni, anche pesanti – pubblica amministrazione, stagionalità, agricoltura – e anch’esse con specifiche complessità di individuazione (non tutto il lavoro nel settore “alberghi e ristorazione” è stagionale e così via).
La fonte migliore per operare analiticamente tali identificazioni è costituita dalle Comunicazioni obbligatorie delle imprese sui rapporti di lavoro, fonte cogestita dal ministero del Lavoro e dalle regioni. Per il Veneto, su tale base, è stato possibile ottenere una approssimazione che, simulando sui dati 2017 l’impatto delle nuove norme, evidenzia le dimensioni della platea interessata dalle modifiche più rilevanti (riduzione della durata massima, introduzione della causale e incremento dello 0,5 per cento ad ogni rinnovo): si tratta di poco meno di un sesto delle coppie lavoratori/impresa (o agenzia).
In definitiva una porzione minoritaria dell’insieme del lavoro a termine, ma comunque consistente in valori assoluti e che risulta ancor più rilevante se consideriamo, anziché il numero di eventi, la quantità di giornate di lavoro a termine da essi attivate.
La nuova normativa pone dunque alle imprese vincoli e costi (anche burocratici). Come si adatteranno? Si contrarrà in assoluto la domanda di lavoro? Oppure si contrarrà la domanda di lavoro a termine compensata dal ricorso ad altre tipologie contrattuali (tempo indeterminato, intermittente, lavoro autonomo occasionale, esternalizzazioni, partite Iva) e da una diversa organizzazione interna delle imprese (più straordinari)? Oppure aumenterà il turnover tra i lavoratori mantenendo stabile la domanda di lavoro a termine frammentando ulteriormente l’offerta? La risposta implicita nella Relazione tecnica dell’Inps di accompagnamento del provvedimento è che, tra le tre alternative, saranno le ultime due a prevalere mentre la contrazione assoluta della domanda di lavoro regolare sarà ai limiti dell’impalpabile (8 mila unità). Si tratta di un’ipotesi basata sul riconoscimento alle imprese di un’elevatissima elasticità di comportamenti in materia di reclutamento, come del resto hanno spesso dimostrato. È un’ipotesi di fatto molto filo-governativa (anche se il governo sembra non se ne sia accorto): ma allo stato attuale delle conoscenze, e in particolare dell’avanzamento nell’utilizzo dei dati amministrativi (avanzamenti che non si fanno “a comando”), si può sfidare chiunque a proporne una ancor più favorevole e basata su migliori “basi scientifiche”.
La lunga storia della regolamentazione del mercato del lavoro
L’intervento si inserisce, al di là dei proclami, in una storia lunga e oscillante di regolazione del mercato del lavoro alla ricerca – almeno teorica – della miglior aderenza alle necessità di flessibilità, sia dal lato della domanda che dell’offerta, salvaguardando nel contempo la preferenza per la costruzione di rapporti di lavoro stabili tra imprese e lavoratori. Gli stop and go sono stati numerosi. Per citarne solo alcuni e solo per evidenziare la difficoltà di tale ricerca: la cosiddetta riforma Biagi (2003) stringe sulle collaborazioni e apre su voucher e intermittente. La riforma Fornero (2012) porta una forte stretta sull’intermittente, che si contrae velocemente, ma esplodono i voucher; disincentiva il tempo determinato incrementando i costi e allungando gli intervalli tra un contratto e l’altro però, poco dopo, il governo Letta (2013) ripristina gli intervalli precedenti. Il decreto Poletti (2014) semplifica i contratti a tempo determinato facilitandone l’utilizzo mentre il Jobs act (2015) riduce il costo del tempo indeterminato e chiude praticamente la partita delle collaborazioni, ma lascia correre i voucher. Il governo Gentiloni (2017) chiude sui voucher ma riesplode l’intermittente e in generale il lavoro a termine. Adesso il “decreto dignità” stringe duramente – dopo tre anni di dinamica occupazionale assai positiva – i contratti a termine ma si parla insistentemente di riaprire sui voucher. La storia non finirà qui, basta avere pazienza. Di mezzo c’è un po’ di fretta e, come accade spesso, presunzione sull’efficacia automatica, immediata e a senso unico (positiva) delle norme. Che il rischio di essere abusate, come si sa, lo corrono sempre (e non per questo si devono cancellare): il recente rapporto Inps ha evidenziato la fortissima rischiosità sottesa alla diffusione anomala del part time, con punte in diverse province del Sud vicine al 40 per cento, anche nel settore manifatturiero (in provincia di Milano la corrispondente incidenza è pari al 9 per cento). Ma questo non sembra aver colpito, per ora, l’immaginario del regolatore.
* Le opinioni espresse non coinvolgono l’istituzione di appartenenza.
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Michele
Di “riforme” malfatte questo paese ne ha avute ben troppe. In generale il mercato del lavoro ha subito negli ultimi 20 anni una progressiva e continua precarizzazione. Precarizzazione che non ha aumentato ne l’occupazione ne tantomeno la produttività, così sbugiardando, con i fatti, tutte le teorie sui taumaturgici effetti della flessibilità del lavoro. Il Decreto Dignità si inserisce a buon titolo tra le riforme malfatte. Ha però un grosso merito: da un segnale concreto di inversione di tendenza. Dalla precarizzazione inutile e dannosa si torna indietro. Ovviamente ci sono grosse resistenze. Facile sostenere che, a parità di ogni altro fattore, l’occupazione potrebbe diminuire. Altrettanto facile sarebbe sostenere che, a parità di ogni altro fattore, l’occupazione potrebbe aumentare dimezzando gli stipendi. Il problema è che la condizione di parità di ogni altro fattore non esiste in natura.
Il punto è che i livelli di occupazione poco dipendono dalla regolamentazione del mercato del lavoro (vedi job act che ha buttato 20 mld in incentivi con risultati negativi sui contratti e t. Indeterminato), ma dal livello dell’attività economica, in grossa parte guidata dalla domanda interna per consumi.
Corrado
Introdurrei una quarta questione più generale relativa a quanto chi firma le Leggi (in questo caso i Decreti) li abbia veramente letti.
Pietro Brogi
Una prima considerazione: manca nella tabella un riferimento ad altre categorie che potrebbero essere influenzate dal provvedimento, ad esempio l’ottenimento delle stesse prestazioni lavorative tramite titolari di nuove partita iva, manca inoltre la definizione dei fattori che autorizzano il passaggio da numero di contratti coinvolti a numero di posti di lavoro persi.
E’ stata considerata la contingenza economica? Ma allora questo non deve essere imputato al decreto.
Correggete un dato nella vostra tabella, la somma fa 99 e non 100…
Henri Schmit
I danni di una normativa erratica, senza direzione, sono immensi. L’instabilità, è forse il difetto più profondo della politica italiana intesa come azione del governo e del legislatore. A ben vedere il vizio si manifesta in quasi tutti i settori: senza tirare in ballo le costituzionali l’instabilità fonte di incertezza, di precarietà e di imprevedibilità si ritrova ovunque: Cinque leggi elettorali in 25 anni senza contare quelle di fabbricazione giurisprudenziale, una riforma storica del sistema educativo in ogni legislatura, ma sempre di segno politico opposto alla precedente (chi si ricorda Moratti che cancella di un colpo la riforma Berlinguer appena approvata), delle riformette fiscali d’immagine e di convenienza contingente senza concetto sistemico, dei ritocchi annuali improvvisati alla normativa del lavoro senza filo conduttore, senza concezione d’insieme comunque ben definita ai tempi di Marco Biagi. Incertezza del diritto, litigi, processi, inefficienze, imprevedibilità sono il principale ostacolo all’investimento, e fattore di rischio e di aumento dello spread, con tutti gli effetti devastanti che questo implica. Una domanda: ma le riforme istituzionali della scorsa stagione politica avrebbero permesso di superare questi vizi atavici? Ne dubito fortemente.