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Cacciatori di Android a Bruxelles

La Commissione europea ha imposto a Google la più alta sanzione pecuniaria della storia dell’Unione. Ma la questione esemplifica l’attuale complessità del rapporto tra politica antitrust e le dinamiche che caratterizzano i nuovi mercati digitali.

L’innovazione Android

Fino al 2005, per il grande pubblico, gli androidi erano relegati a un contesto squisitamente letterario-cinematografico: dai robot di Asimov, alla serie dei Terminator, passando per i replicanti di Blade Runner. Ma da allora il contesto di riferimento si è allargato sino a modellare l’app economy. Dal 2005, infatti, Android è diventato il sistema operativo per dispositivi mobili di Google, che oggi viene utilizzato su circa l’80 per cento degli smartphone e tablet in Europa.

Diversamente da Ios di Apple, Android è un sistema operativo “open source”. Ciò significa che quando Google ne sviluppa una nuova versione pubblica il relativo codice sorgente on line permettendo a terzi, quanto meno in via di principio, di scaricarlo gratuitamente per creare versioni “modificate” del sistema, note come “Android forks”. Tuttavia, il source code accessibile a terzi copre solo le caratteristiche di base del sistema operativo, e non le applicazioni e i servizi Android, per ottenere le quali i produttori di smatphone e tablet devono stipulare con Google specifici contratti. Inevitabilmente, dunque, l’utilizzo di Android investe non trascurabili profili giuridici ed economici, relativi ai diritti di proprietà intellettuale e, ancor più, al rispetto del diritto antitrust.

Le contestazioni della Commissione

Su questo tema è intervenuta la Commissione europea con la decisione del 18 luglio 2018 che ha imposto a Google la più alta sanzione pecuniaria della storia dell’Unione, pari a oltre 4,3 miliardi di euro.

Nel presupposto che possieda una posizione dominante sui mercati collegati dei servizi di ricerca generica su internet, dei sistemi operativi open source e dei portali di vendita per applicazioni per Android, la Commissione ha imputato alla società di Mountain View tre distinte pratiche abusive.

Partendo dalla meno controversa, la Commissione ha accertato che Google concedeva significativi incentivi finanziari a grandi produttori di dispositivi e operatori di reti mobili a condizione che pre-installassero, a titolo esclusivo, l’applicazione Google search sull’intera gamma dei loro dispositivi Android. In tal modo, un concorrente di Google incline a installare la sua app di ricerca solo su alcuni dispositivi, avrebbe dovuto compensare il relativo produttore per la perdita delle entrate subite. Ciò, secondo la Commissione, avrebbe pregiudicato i concorrenti di Google, altrettanto – se non più – efficienti, ma privi delle stesse risorse finanziarie.

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Sulla natura anticoncorrenziale della condotta non vale la pena soffermarsi, tenuto conto che la stessa Google, dopo che la Commissione ha iniziato a occuparsi del caso, l’ha abbandonata.

Più controversa è la seconda infrazione. Secondo la Commissione, Google avrebbe impedito ai produttori di dispositivi di utilizzare le versioni modificate di Android (le “Android forks”) non approvate da Google stessa. Secondo l’accusa, in tal modo la società di Mountain View avrebbe precluso l’introduzione da parte dei suoi concorrenti di applicazioni e servizi pre- installabili sulle varianti Android, con un impatto negativo sui consumatori, cui sarebbe stato impedito l’accesso a ulteriori innovazioni e a nuovi dispositivi mobili.

Ai rilievi, tesi a smentire l’effettiva apertura del sistema operativo, indicata come cifra del proprio modello di business, Google ha replicato che le restrizioni all’uso di Android forks erano di carattere tecnico e dirette ad assicurare il buon funzionamento del sistema operativo, che altrimenti sarebbe risultato eccessivamente “frammentato” e non più pienamente affidabile.

Ma forse la questione intellettualmente più stimolante è sollevata dalla pratica di bundling (ossia di pratica “legante”). L’imputazione nasce dal presupposto di fatto che per i produttori di smartphone e tablet che usano Android è imprescindibile dal punto di vista commerciale offrire ai consumatori Play Store, di proprietà di Google, quale portale di accesso alle app. Tuttavia, Google concede in licenza Play Store solo a condizione che i dispositivi mobili pre-installino sia Google Search che Goolge Chrome.

Google ha vigorosamente contestato che tali condizioni siano abusive, perché gli utenti, una volta acquistati i dispositivi, possono facilmente e senza costi sia disinstallare Google Search e Google Chrome sia aggiungere applicazioni di concorrenti. In sostanza, dalla pratica legante non deriverebbe nessuna effettiva limitazione della libertà di scelta dei consumatori perché la concorrenza sarebbe a un solo click di distanza. La Commissione ha però obiettato che la preinstallazione determina comunque una preferenza per lo status quo, essendo empiricamente accertato che gli utenti che trovano applicazioni di ricerca e browsing preinstallate normalmente non le cambiano. Ciò significa che la mera pre-installazione conferisce a Google un illecito vantaggio competitivo sui concorrenti.

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Un nuovo approccio?

Se l’approccio comportamentale alla libertà di scelta adottato dalla Commissione appare scientificamente ineccepibile, occorre ammettere che la linea argomentativa di Google sembra trovare un altrettanto solido riscontro nel recente rapporto del Parlamento europeo sulla European App Economy, dove si riporta che nei mercati maturi, quale quello europeo, gli utilizzatori hanno sui loro dispositivi mobili tra le 90 e le 100 app. Una tale capacità di download degli utenti potrebbe far ipotizzare che la persistenza di Google Search e Google Chrome sui loro dispositivi derivi più dal fatto che siano apprezzati, che dalla circostanza che siano pre-installati.

Insomma, come ha scritto Franco Debenedetti qualche giorno fa, è proprio certo che con la maggiore libertà agli sviluppatori fioriranno mille fiori? In sostanza, la “questione Google” esemplifica l’odierna complessità del rapporto tra politica antitrust e le dinamiche che caratterizzano i nuovi mercati digitali.

Complessità che nemmeno l’androide di Blade Runner, quello che pure ha visto cose che noi umani “non possiamo nemmeno immaginare”, può facilmente risolvere.

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  1. Federico Leva

    Si trascurano alcuni aspetti, come il fatto che molte applicazioni preinstallate di Google non sono disinstallabili dall’utente e che la versione Android di Google (non quella “pubblica”, chiamata AOSP) costringe a mantenere alcune applicazioni di Google (come Google Play Services) per far funzionare alcune applicazioni altrui (per esempio Snapchat).

    L’utente non è affatto libero di fare quello che vuole, in un telefono Android normale: le libertà che ha sono garantite dal livello sottostante, Linux, una volta che si ottengono i privilegi di root. Le potenzialità di Linux vengono amplificate in alcune verisioni derivate come LineageOS e Replicant. Linux fornisce delle libertà agli utenti, compresa la disponibilità del codice sorgente, non per graziosa concessione di Google ma per obbligo legale derivante dalla licenza del software libero (GPL).

    • Andrea

      Va considerato che i Google Mobile Services godono nei sistemi Android di una posizione di vantaggio, al punto da costringere le alternative a “fingersi” GMS per funzionare. E i GMS(che non sono open-source) utilizzano la geolocalizzazione Google, Google maps e, forse, Search per funzione servizi integrate alle applicazione: così si garantisce a questi prodotti google un vantaggio sulle alternative. Per sostituirli non basta disattivarli (non disinstallarli perché vengono quasi esclusivamente installati nel sistema) ma occorre modificare il sistema Android. E installare PlayStore poi, sempre se possibile, dubito non violerebbe qualche licenza. Sicuramente, ad ora, non è consentito agli OEM.
      Inoltre l’utilizzo di alternative ai Android e alle Google App+GMS è anche “SafetyNet” il sistema che certifica il sistema su cui è eseguito come “sicuro e non alterato”. Tuttavia SN certifica sicuri sistemi non aggiornati vulnerabili da noti bug e non certifica vari Android forks senza chiara ragione non sicurezza (o almeno non ho trovato articoli e ricerche che certi organizzazioni dei permessi costituiscano un pericolo). Questo esclude la possibilità di installare molte app(ad esempio molte di banche) che utilizzano SN su versione modificate di Android.
      Infine lo stesso utilizzo del nome e del sistema Android è subordinato ad accordi con Google che ne detiene la proprietà. Il sistema open source si chiama AOSP.

  2. Umbe

    Il tutto si riduce a considerare vero o falso un assioma per il mercato delle tecnologie presenti e future :

    “Un’azienda può rinunciare volontariamente a fare profitto per il solo vantaggio del consumatore”.

    That’s all guys.

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