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Verso un’educazione fondata sulle competenze

Il concetto di competenze ha modificato il modo di guardare e organizzare il lavoro. Ora la sfida si trasferisce nei sistemi educativi, attraverso un approccio pedagogico complesso non riducibile ai soli test. Un libro aiuta a orientarsi sulla questione.

Una definizione condivisa

Per farsi un’idea precisa di che cosa si intende con “competenze” è bene leggersi il volume curato da Luciano Benadusi e Stefano Molina, intitolato Le Competenze epubblicato all’inizio del 2018 da il Mulino. Nell’introduzione, Andrea Gavosto ricorda che il rapporto è l’esito di un progetto decennale della Fondazione Agnelli, che aveva come scopo l’approfondimento di temi inerenti ai sistemi educativi. Il volume ha diversi pregi.

Dopo aver accompagnato il lettore attraverso molti mondi disciplinari, propone una definizione condivisa di competenze, articolata in più livelli: al primo si collocano le risorse costitutive della competenza (come conoscenze o abilità), al secondo le competenze derivate da mobilizzazione e coordinamento delle risorse stesse, mentre il terzo livello include anche competenze cognitive e non-cognitive.

Varie comunità scientifiche hanno contribuito alla polisemia di questo costrutto. La prima pietra l’ha posata negli anni Settanta il mondo della formazione, del lavoro e delle professioni che concepiva le proprietà cognitive, caratteriali e sociali degli individui come risorse che servono ad accrescere la produttività di lavoratori e aziende e, quindi, di un paese. La psicologia ha partecipato con almeno tre contributi. Il comportamentismo ha attribuito alle competenze una matrice fortemente motivazionale, mentre per il cognitivismo sono divenute teoricamente centrali le funzioni cognitive e le loro misurazioni. Come è stato suggerito recentemente da James Heckman e collaboratori, i test cognitivi sono stati utilizzati come strumento di autovalutazione, per migliorare o correggere i programmi di studio insoddisfacenti. Si sono imposti perché la loro somministrazione è semplice e a basso costo, perché esiste una domanda di presa di responsabilità da parte delle istituzioni e per la convinzione che gli individui provvisti di buone capacità cognitive riuscirebbero meglio nella vita e nella carriera, una convinzione costruita sul ruolo divenuto dominante in psicologia del paradigma delle scienze cognitive. Questi studiosi ritengono che i test cognitivi, nonostante la loro diffusione, non prevedano del tutto gli esiti accademici e lavorativi di coloro che vi si sottopongono e, quindi, propongono di misurarne anche le competenze non-cognitive (per esempio, i tratti di personalità). Con il terzo contributo degli psicologi – il sociocostruttivismo – le competenze esondano dai confini della individualità fino a comprendere una prospettiva socio-relazionale. Si tratta di un approccio intrinseco anche nel modo di pensare le competenze di sociologi e pedagogisti.

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Contro i pregiudizi

Il secondo pregio del libro di Benadusi e Molina è rappresentato dalla correttezza con cui gli autori smontano critiche e ostilità, spesso ideologiche e pretestuose, verso le competenze, chiarendo come non siano affatto avulse da scuola e università, e non possano essere considerate come “un corpo estraneo” che snatura le finalità educative. Dunque, le varie acquisizioni culturali confluite nelle competenze non sono esclusivamente derivate dall’utilitarismo economico, attraverso il mondo delle aziende e della gestione delle risorse umane, ma rappresentano un’espressione autoctona delle scienze umane, così come risulta dall’analisi dei contributi di filosofi, pedagogisti e psicologi.

Gli autori sciolgono abilmente anche alcune perplessità che si sono trasformate in veri e propri pregiudizi. Secondo uno di questi, l’approccio per competenze promuoverebbe una educazione interessata e bassa, perché finalizzata a produrre capitale umano per il mondo del lavoro. Secondo alcuni benpensanti, una simile istruzione rappresenterebbe una minaccia per l’educazione disinteressata e alta, per la quale il sapere deve essere sganciato da qualsiasi finalità a esso estranea. In contrapposizione a questa visione classista, l’istruzione per competenze promuove più democrazia perché contribuisce a migliorare lo sviluppo umano e le relazioni sociali (le competenze di cittadinanza). I dati di una recente sperimentazione coordinata dall’Anvur (Agenzia nazionale di valutazione del sistema universitario e della ricerca) con vari atenei italiani va nella direzione indicata dagli autori: le competenze disciplinari acquisite dagli studenti delle professioni sanitarie durante il corso di studi dipendono dalla didattica per competenze impartita e non dalle caratteristiche iniziali di contesto (titolo di studio dei genitori, status socio-economico, scuola frequentata o altro).

Il terzo pregio del volume è l’efficacia con cui gli autori mettono in guardia il lettore dalle distorsioni generate da un’applicazione riduttiva e automatica del costrutto delle competenze. Il progetto di una istruzione per competenze di cittadinanza è certamente ambizioso e complesso, ragione per cui temono il rischio che tutte le energie vengano profuse solo nella messa a punto dello “strumentario operativo”, insomma i test. Il rischio che per ragioni pratiche ci si accontenti di considerare solo le competenze trasversali quali literacy e numeracy esiste e va tenuto d’occhio, aprendo a ulteriori ambiti quali probelm solving, civic e le lingue. L’altro timore è che la logica delle competenze venga applicata alle sole discipline scientifiche, ignorando quelle umanistiche. Almeno per quanto riguarda l’università, alcuni gruppi di lavoro di area umanistica e delle scienze sociali sono già impegnati a identificare le conoscenze che possono essere tradotte in competenze caratterizzanti un corso di studi.

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L’idea di competenze ha modificato il modo di guardare e organizzare il lavoro, trasformando politiche sociali passive di welfare in politiche attive e centrate sulla formazione dei lavoratori. E i sistemi educativi? Gli autori individuano fattori di accelerazione e di rallentamento dell’affermazione dell’idea di competenze nella scuola e nell’università. Le raccomandazioni dell’Unione Europea, volte a integrare le competenze per la cittadinanza e per l’apprendimento permanente nelle politiche educative dei singoli paesi membri, hanno spianato la strada alla normativa scolastica e universitaria sulle competenze anche nel nostro paese. Tuttavia, la traduzione è avvenuta in modo parziale per ragioni ideologiche e organizzative, come l’ostilità di settori del corpo insegnante di scuola e università. L’opposizione è stata forse generata da una comunicazione un po’ miope, che ha contrapposto bruscamente alla didattica trasmissiva e tradizionale quella attiva e collaborativa delle competenze, sempre più identificata con un riduzionismo ai test che non rende merito della portata innovativa del progetto pedagogico. Gli altri fattori che hanno contribuito al rallentamento del processo di adeguamento dei sistemi scolastici sono la formazione troppo tradizionale degli insegnanti, l’assenza di una didattica innovativa, la rigidità di calendario e orari, i rapporti tra docenti e tra questi e gli studenti, e l’inadeguatezza della dotazione informatica.

Una recensione, anche la più benevola, non può non contenere almeno un elemento di disappunto. Il mio è che l’assenza di tabelle e figure non aiuta il lettore a costruirsi una mappa tridimensionale dei temi trattati.

In conclusione, l’idea di competenze, grazie all’ibridazione culturale raccontata nel libro, si è adattata bene a vari contesti, dal lavoro all’istruzione, e sembra essere pronta ad affrontare la sfida più importante: “Perché ragionare di competenze significa, in ultima analisi, interrogarsi sulla direzione che vogliamo imprimere al futuro del lavoro e al futuro della democrazia: missioni impegnative, alle quali riteniamo che scuola e università non possano sottrarsi” (p.190).

Luciano Benadusi e Stefano Molina, Le competenze. Una mappa per orientarsi, il Mulino, 2018, 216 pagine, 15 euro.

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  1. Alberto Lusiani

    Segnalo che alcuni refusi rendono difficole comprendere il frammento “aprendo a ulteriori ambiti quali probelm solving, civic se le lingue”

  2. Savino

    In Italia avremmo anche bisogno dell’alternanza lavoro-scuola per mandare sui banchi tanti asini succedutisi nel tempo e il cui rendimento sui posti di lavoro è pari a zero.

  3. ferdinando

    C’è una cosa che non trovo e che credo debba essere messa in grande rilievo .. la fondazione “umana” della competenza ed in essa il primato dell’etica .. è un aspetto centrale. Credo ci sia assai bisogno di mettere sempre alla base di ogni aspetto formativo l’insegnamento dell’etica. Inutile dire che penso a filosofo come Piero Martinetti.

  4. bob

    ” attraverso un approccio pedagogico complesso non riducibile ai soli test…” Ma questi sono serviti ai ” politici” degli ultimi 30 anni per far credere al “popolino” lucciole per lanterne. Per semplificare per creare luoghi comuni. I risultati della situazione culturale di questo Paese si vede da coloro che sono al Governo che adottano il concetto della ” semplificazione da bar dello sport” concetto culturale figlio proprio dei test e delle statistiche usate come la schedina del lotto
    La scuola: 2 licei classico e scientifico, il resto corsi di formazione dalla durata di 3 anni. Aggiungo che mai come in questo momento c’è bisogno di maturandi dal liceo classico. Altro che barzellette

  5. Umbedx@gmail.com

    Abilità :
    Quale è il risultato di 120×160 ÷8 ?

    Competenza :
    In uno stagno, con una rete pesco 120 pesci. Contrassegno ogni pesce con una vernice permanente e li rigetto in acqua.
    Torno dopo diversi giorni.
    Con la stessa rete catturo160 pesci di cui 8 sono marcati.
    Quanti sono i pesci nello stagno…più o meno…

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