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Ma l’Australia non dice solo “No way”

Nonostante la politica migratoria molto rigida, ogni anno in Australia entrano più immigrati che in Italia, contribuendo a mantenere un saldo positivo della popolazione. Sono arrivi legati alle esigenze del mercato e con il coinvolgimento di sponsor.

La storia delle migrazioni in Australia

Si parla molto in questi giorni del “modello Australia” sull’immigrazione, citando la campagna “No way” e la rigida politica nei confronti dei richiedenti asilo. Sarebbe utile però considerare la politica migratoria australiana nel suo insieme, ragionando anche sugli ingressi per motivi di lavoro e sulla selezione dei migranti qualificati.

Va ricordato innanzitutto che la storia dell’Australia va di pari passo con la sua storia migratoria. Nel 1788, quando arrivarono gli inglesi, la popolazione australiana contava circa 400 mila abitanti. A fine Ottocento era quasi decuplicata, raggiungendo quota 3 milioni. Dopo la seconda guerra mondiale, il governo favorì fortemente l’immigrazione, soprattutto da Regno Unito, Italia e Grecia.

Nel 2014, a seguito di un aumento degli sbarchi di migranti provenienti da Afghanistan, Sri Lanka, Iran e Iraq (18 mila tra il 2012 e il 2013,), l’Australia ha lanciato la campagna “No way”, basata su due pilastri fondamentali:

– accoglienza affidata a paesi terzi. Sono stati stipulati accordi con altri paesi del Pacifico (Papua Nuova Guinea, Nauru, Kiribati, ma anche Cambogia) disposti a gestire le procedure di identificazione (e l’accoglienza) dei migranti. Anche qualora ottengano lo status di rifugiato, i migranti non possono raggiungere l’Australia, ma solo rimanere nei paesi in cui sono stati accolti;

– pattugliamento delle frontiere. Le imbarcazioni che tentano di raggiungere l’Australia sono “dirottate” verso i paesi di partenza (in particolare l’Indonesia) o verso gli hotspot nei paesi terzi.

Naturalmente, un simile approccio è possibile grazie alla conformazione geografica (unico approdo e facilità di pattugliamento, distanze molto ampie) e ai rapporti di forza tra l’Australia e i paesi insulari del Pacifico (Nauru è grande come Lampedusa e conta circa 10 mila abitanti).

Questa politica è stata fortemente criticata sia da gruppi della società civile che dalle Nazioni Unite, per le condizioni durissime dei centri di accoglienza e per il mancato rispetto della Convenzione di Ginevra, che impone a ogni paese di valutare al proprio interno le richieste d’asilo ricevute.

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Gli ingressi legali

Parallelamente alla stretta sui migranti forzati, l’Australia ha mantenuto canali legali per quelli economici, cercando di soddisfare le esigenze del sistema produttivo nazionale.

Esistono diversi tipi di “visto temporaneo”, generalmente di un anno, volti a favorire brevi esperienze soprattutto per i giovani e in determinati settori (ad esempio l’agricoltura).

Per quanto riguarda i permessi di lunga durata, invece, viene effettuata una rigida selezione volta a far entrare solo i lavoratori con determinate competenze. Periodicamente i ministeri dell’Interno e dell’Istruzione aggiornano l’elenco dei profili richiesti. La selezione si basa poi su due criteri: da un lato, un colloquio per dimostrare di possedere alcuni requisiti quali: età (massimo 45 anni), conoscenza della lingua, qualifica professionale riconosciuta dalle autorità australiane, buone condizioni di salute e fedina penale pulita; dall’altro lato, la presenza di uno sponsor (datore di lavoro) che garantisca l’effettiva esistenza del rapporto di lavoro.

Tendenze demografiche a confronto

In base a questa politica migratoria, l’Australia mantiene una crescita demografica costante intorno all’1,6 per cento annuo e una popolazione straniera intorno all’8,9 per cento.

Secondo l’ufficio statistico australiano (Australian Bureau of Statistics), tra il 1996 e il 2016 la popolazione australiana è aumentata del 33 per cento (da 18,2 a 24,2 milioni) e l’incremento è dovuto per il 56 per cento ai movimenti migratori (saldo migratorio attivo per 3,3 milioni).

Nel 2017 la popolazione è ulteriormente aumentata dell’1,6 per cento, raggiungendo quota 24.770.700. Il saldo naturale è positivo (+148 mila), così come il saldo migratorio (+241 mila): 530 mila ingressi contro 289 mila partenze.

Tabella 1

* Dato aggiornato al Censimento 2016

Fonte: elaborazioni Fondazione Leone Moressa su dati Istat e Australian Bureau of Statistics

Se si confrontano i dati australiani con quelli dell’Italia, bisogna in primo luogo tener conto della diversa densità di popolazione (Italia 200 ab/kmq, Australia 3 ab/kmq) e della presenza di ampie aree desertiche. Possiamo comunque evidenziare alcuni elementi demografici significativi.

La principale differenza sta nel saldo naturale: in Italia è negativo quasi ininterrottamente dal 1993, segno di un invecchiamento demografico tanto significativo quanto sottovalutato. L’Australia invece continua a crescere, con più nati che morti.

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Sul fronte migratorio, nonostante la politica molto rigida, il saldo australiano è superiore a quello dell’Italia, così come il numero degli ingressi. La caratteristica principale sta nella selettività degli arrivi, legati alle esigenze del mercato australiano (attraverso un lungo processo che coinvolge diversi ministeri) e al coinvolgimento dei datori di lavoro (sotto forma di sponsor).

Un approccio radicalmente diverso rispetto alla politica migratoria attuata dall’Italia negli anni Novanta e Duemila, basata su sanatorie (regolarizzazioni a posteriori) e “click day” (selezione basata sul criterio cronologico).

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  1. Per l’Europa la soluzione sono gli accordi bilaterali e i corridoi umanitari, uniti ad una redistribuzione su base obbligatoria. Non certo i barconi o i blocchi navali.

  2. Luca Morandini

    L’articolo e’ generalmente condividibile, ma si impongono alcune precisazioni.

    Per quanto riguarda la geografia, non ritengo giochi un ruolo essenziale: Christmas Island dista dalle coste indonesiane circa 350Km, piu’ o meno la stessa distanza (300Km) che separa Lampedusa da Tripoli

    Contrariamente a quanto riportato nell’articolo, i visti temporanei sono generalmente rivolti a lavoratori qualificati o neo-laureati, sono quadriennali e rinnovabili. I visti -annuali- per lavori non-qualificati (“working holidays”) sono una minima parte (7% [1] Tabella 1) del totale dei visti temporanei.

    Non esistono “permessi di lunga durata”, bensi’ “visti permanenti” [6], che danno quasi gli stessi diritti della
    cittadinanza, ma che possono essere revocati, ad esempio per condanne penali, causando l’espulsione
    del residente senza riguardo alla sua eta’, stato familiare o durata della permanenza nel paese [2].

    I visti permanenti non richiedono, come riportato nell’articolo, un colloquio, bensi’ la certificazione
    delle proprie competenze educative, linguistiche e lavorative tramite un processo lingo, rigoroso e talvolta
    pedante.

    Contrariamente a quanto affermato, non e’ necessario avere un sponsor per ottenere un visto permanente [3].

    (Continua in un post successivo)

  3. Luca Morandini

    (Ripreso da un post prece3ente)

    La Tabella 1 dell’articolo, relativamente all'”Incidenza stranieri / popolazione”, non e’ congruente con
    altri dati: al censimento del 2011 ([8], tabella T01), risultava che circa il 16% della popolazione e’ composta da
    cittadini di altre nazioni, mentre il dato piu’ recente mostra che il 28% della popolazione australiana
    e’ nata all’estero [4]: potreste gentilmente riportare la sorgente -esatta- del dato?

    Un aspetto importante, ma non citato nell’articolo, della politica immigratoria australiana e’ la secretazione
    ([5]) di quello che avviene in mare e nei campi di detenzione: i barconi non si vedono in TV, cosi’ come
    non si vedono i richiedenti asilo che si danno fuoco (uno e’ morto nel 2016 per le ustioni riportate) o
    tentano il suicidio in altri modi.

    Va anche detto che l’Australia garantisce accoglienza ed inserimento a circa 20.000 rifugiati l’anno [7],
    ma solo tramite canali ufficiali (in genere UNHCR).

    (Riferimenti in un post successivo)

  4. Amegighi

    Credo che il problema dell’immigrazione in Italia vada affrontato con la testa (pragmaticamente) piuttosto che con la pancia (demagogicamente).
    In un modo (accessi incontrollati) che nell’altro (accessi deviati ad altri) il problema è che l’UE non è uno Stato unico come l’Australia, nè noi italiani siamo l’Australia (uno Stato circondato dal mare).
    Ne deriva che se non si trova una soluzione, c’è il serio rischio che diventiamo noi (Italia) un imbuto in cui si ammassano tutti gli immigrati, bloccati alle frontiere Nord. Lo siamo in parte anche adesso, ma c’è da ricordare che parte della procedura di accesso è gestita (e pagata) anche dai fondi UE. Nel caso la situazione diplomatica degeneri, ce la dovremmo gestire interamente (anche nei fondi) da soli, con 8000 Km di coste.
    Personalmente (non condivido nessuna idea politica), penso si potrebbe pensare ad un sistema tipo ESTA (online, Ambasciate, Consolati) dove il richiedente presenta richiesta e documenti che verranno valutati. Stesso sistema (gestito dall’ONU) per i rifugiati. Un meccanismo centrale UE dovrebbe gestire online le richieste fornendo eventuali visti da utilizzare per viaggi normali per l’accesso allo Stato richiesto. L’immigrazione clandestina invece sarebbe completamente bloccata con l’intervento di tutti gli Stati Europei che cooperano al controllo delle frontiere esterne.

  5. Andrea C

    Impossibile comparare le due realtà. Se in Italia facessimo quello che fanno loro avremmo già la commissione EU a rimproverarci e la “pseudo sinistra” in piazza per i diritti…Il loro esempio è comunque vincente: si prendono gente qualificata, che non graverà sulle spalle dei contribuenti e che non ha un’attitudine criminale. Per i lavori a bassa qualificazione danno i permessi di 1 anno per studio/lavoro, poi se in quel periodo uno trova un contratto a tempo indeterminato allora può restare, altrimenti dovrà fare ritorno nel paese di origine.

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