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Nasce dalla rete l’ennesima tempesta su Tim

Il progetto di costruire una seconda rete di telecomunicazione ultrabroadband probabilmente implicava già la riunificazione con la rete di Tim. Ma la fusione perseguita dal governo Conte apre molti problemi. Alcuni dei quali di competenza dell’Antitrust.

Perché costruire una seconda rete?

Negli ultimi giorni Tim ha occupato le prime pagine dei giornali per due notizie: la prima è la decisione del governo di spingere decisamente per lo scorporo della rete di Tim e la fusione con quella in fibra che OpenFiber sta costruendo; la seconda è il licenziamento di Amos Genish dalla carica di amministratore delegato, probabilmente legato proprio alla sua avversione alla perdita del controllo sulla rete.

Proviamo quindi a delineare una mappa che ci aiuti a orientarci in questa ennesima tempesta del principale operatore di telecomunicazioni italiano. La riunificazione delle reti di telecomunicazione ultrabroadband è un esito che molto probabilmente stava già nel progetto, fortemente sostenuto dal governo Renzi, e poi proseguito con quello Gentiloni, di avviare la costruzione di una seconda rete in fibra ottica in concorrenza con gli investimenti, giudicati troppo timidi, di Tim. OpenFiber, controllata da Cassa depositi e prestiti e da Enel, è evidentemente un veicolo societario dove la proprietà pubblica è preminente. Lo sviluppo della sua rete ultrabroadband, orientata alla soluzione tecnologicamente più avanzata – la fibra fino alle abitazioni (FTTH) – ha esercitato una pressione competitiva su Tim e sulla sua joint venture con Fastweb, con una accelerazione degli investimenti e un potenziamento delle soluzioni tecnologiche inizialmente previste. OpenFiber si è poi aggiudicata le gare per il finanziamento pubblico degli investimenti nella rete nelle aree a fallimento di mercato, le cosiddette aree bianche.

Il livello ancora limitato in Italia della domanda per servizi che necessitano della velocità di trasmissione di queste nuove infrastrutture fa tuttavia ritenere che, almeno nei prossimi anni, una competizione infrastrutturale tra due reti non sia sostenibile, se non in un numero circoscritto di aree. Pertanto, da più parti si è osservato che un esito possibile, e probabilmente ineluttabile, sarebbe stato quello di una riunificazione dei due progetti all’interno di una unica società. La spinta del governo Conte verso una riunificazione delle reti appare quindi in piena continuità con l’approccio dei governi Renzi e Gentiloni.

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Una fusione, tanti problemi

La riunificazione delle reti ultrabroadband, tuttavia, è solamente un titolo generale dietro cui si nascondono questioni estremamente complesse e di non facile soluzione.
Guardando a Tim, lo scorporo di un asset strategico come la rete pone almeno quattro problemi. Il trasferimento alla nuova società della rete sia delle infrastrutture tradizionali in rame che delle nuove infrastrutture in fibra, o invece solamente di queste ultime. Come sarà ripartito il debito di Tim, quale parte andrà alla newco che acquisirà la rete e quale rimarrà in capo alla vecchia società che si focalizzerà necessariamente sulla fornitura di servizi. L’assegnazione tra la newco e Tim del personale, che è oggi per una parte sostanziale impiegato nelle funzioni di gestione, manutenzione e sviluppo della rete. E la gestione della migrazione dei servizi dalla rete tradizionale in rame di Tim a quella in fibra, che comporterà una svalutazione più o meno accelerata del valore della rete in rame.
Sul fronte di OpenFiber, si pongono problemi altrettanto complessi. In primo luogo, per la valutazione del valore degli asset apportati, che per una quota rilevante corrispondono a reti in aree dove la domanda di servizi ultrabroadband da parte degli utenti, e quindi degli operatori che li forniranno, è molto limitata.

Per incentivare il processo di fusione il governo ha messo sul piatto una modifica dei criteri che fissano le tariffe per l’utilizzo della rete da parte dei diversi operatori di servizio, le cosiddette tariffe di accesso. La proposta mira ad adottare un criterio già utilizzato nella rete elettrica di trasmissione, che non a caso opera come monopolista, in base a cui il capitale investito (regulatory asset base: Rab) viene remunerato a un tasso predefinito, entrando in questo modo a formare il valore della tariffa di accesso. Il criterio è solitamente visto come utile per incentivare gli investimenti nelle infrastrutture, definendo un quadro certo per l’impresa e riducendo così il costo del capitale.

Tuttavia, al di là delle intenzioni enunciate, molti sono i punti che andrebbero chiariti. In primo luogo, il governo discute delle sorti di due imprese private, per quanto una delle due subisca potenzialmente l’influenza delle decisioni pubbliche, e non è chiaro, al di là dei consueti proclami roboanti, di quali strumenti disponga per incentivare il matrimonio. Lo strumento che è stato enunciato, l’introduzione della Rab, per quanto appetibile per le imprese coinvolte, non appare di portata sufficiente a sbloccare la situazione. Inoltre, la modifica dell’assetto regolatorio è di competenza dell’AgCom e conferisce a essa un ruolo ulteriore e delicato nel valutare il perimetro degli asset da remunerare. In terzo logo non è chiaro come si possano conciliare il finanziamento pubblico, in ultima analisi a carico dei contribuenti, a coprire in parte gli investimenti di OpenFiber a valle delle gare vinte nelle aree bianche e il finanziamento da parte degli operatori, e quindi in ultima analisi degli utenti, che invece è implicito nella Rab. La rinuncia a forme di competizione infrastrutturale, che almeno nelle aree nere di maggiore domanda potrebbe svilupparsi, non è poi un passaggio da compiersi a cuor leggero, e richiederà una attenta valutazione dell’Autorità antitrust. E infine, se ragioni di sostenibilità economica possono spingere a una società unica della rete, non è per nulla ovvio che essa debba essere controllata direttamente dalla mano pubblica, realizzando il sogno di sapore statalista che in questo governo si accompagna sempre a un ruolo potenziato della Cassa depositi e prestiti. Forme di regolazione delle tariffe di accesso possono limitare gli eccessi di un monopolista della rete senza richiedere una proprietà pubblica che si troverà ad affrontare le complesse scelte tecnologiche che il mondo delle telecomunicazioni ha di fronte nei prossimi anni.

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  1. Savino

    Questo è un monopolio mai superato, che ha sempre avuto appoggi dalla politica vecchia, nuova e nuovissima. Ne hanno fregata di gente, eppure sono sempre i deus ex machina incontrastabili. Questo Governo addirittura gioca d’azzardo in queste operazioni strane attraverso CDP, cioè il risparmio sudato dei cittadini.

  2. Esito piuttosto scontato dopo aver fatto scelte sbagliate in passato, sbagliata la privatizzazione., bruciati miliardi, distrutto un campione nazionale, parlare di privato ancora su reti che richiedono grandi investimenti non ne vedo la ratio, qui più di statalismo abbiano assistito a manca za di visione strategica

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