Livelli elevati dello spread, se prolungati nel tempo, hanno effetti sui tassi di interesse. E di conseguenza su investimenti, redditività e rischio delle imprese. Rispetto al passato, però, le Pmi potrebbero resistere meglio a un eventuale shock.
Credito e spread
Il differenziale tra i titoli di stato italiani e tedeschi ha iniziato ad ampliarsi a maggio 2018, fino a toccare in dicembre un nuovo massimo, a 338 punti.
Spread elevati potrebbero avere conseguenze rilevanti sul livello degli investimenti, della redditività e del rischio delle imprese se producono un aumento del costo del credito. Analisi condotte sulla fase di tensione dei debiti sovrani del 2011 indicano che incrementi permanenti dello spread causano, nel giro di un anno, aumenti dei tassi di interesse sui nuovi prestiti della stessa entità.
Nel Rapporto Cerved Pmi 2018 è stato stimato l’effetto di un aumento del costo medio del debito su redditività e rischio delle piccole e medie imprese italiane.
Figura 1
Gli effetti sulla redditività
Negli ultimi anni le Pmi italiane hanno registrato una ripresa della redditività netta, favorita dalla prolungata fase dei bassi tassi di interesse che hanno beneficiato dei programmi di Quantitative easing della Banca centrale europea.
In base ai dati di bilancio, tra il 2012 e il 2016 il costo per oneri finanziari che le Pmi affidate dalle banche hanno sostenuto si è ridotto di oltre 5 miliardi di euro, passando da 12,5 a 7,4 miliardi (-41 per cento). A parità di tutte le altre condizioni, con un ammontare assoluto di oneri finanziari pari a quello del 2012, il Roe delle piccole imprese si ridurrebbe di 2,3 punti percentuali, passando dal 4,8 per cento al 2,5. Quasi la metà del beneficio (2,4 miliardi) è dovuto al minor costo medio del denaro, con un contributo positivo sul Roe di 1,1 punti, L’altra parte è dovuta invece alla contrazione dei debiti finanziari, da cui scaturisce un miglior Roe per 1,2 punti percentuali.
Figura 2
Una stima sui bilanci indica che, data la struttura finanziaria delle Pmi, a 100 punti base di aumento del costo medio del debito corrisponderebbe a regime un calo del Roe di circa un punto percentuale.
Ma gli effetti sulle piccole e sulle medie imprese non sarebbero omogenei: nel caso di un aumento dei tassi di 300 punti base, il Roe delle medie imprese si ridurrebbe infatti dal 5,4 per cento al 2,5 per cento (-2,9 punti percentuali), mentre quello delle piccole arriverebbe quasi ad azzerarsi, passando dal 4 per cento allo 0,6 per cento (-3,4 punti).
Figura 3
Il rischio fallimento
Negli ultimi anni, le piccole imprese italiane hanno fortemente rafforzato i propri profili finanziari e patrimoniali per effetto dell’uscita dal mercato delle società più deboli e del consolidamento di quelle sopravvissute. In particolare, il rapporto tra oneri finanziari e Mol – una misura sintetica della capacità delle imprese di generare le risorse necessarie a ripagare l’indebitamento – si è più che dimezzato dopo il 2012.
Quale sarebbe oggi la capacità del sistema delle Pmi di reggere l’urto di aumenti dei tassi di interesse? Abbiamo utilizzato la soglia del 43 per cento del rapporto tra oneri finanziari e Mol (il terzo quartile delle Pmi in area di rischio secondo il Cerved Group Score) per definire le aziende con oneri finanziari “scarsamente sostenibili” e abbiamo simulato, a parità di tutte le altre condizioni, gli effetti di aumenti dei costi del debito sul rischio di default delle Pmi.
Nel caso di un aumento di 300 punti base del costo medio del debito, il numero di Pmi con oneri finanziari scarsamente sostenibili passerebbe da 20 mila (il 22 per cento del campione) a 31 mila (34 per cento). Nel caso di aumento dello spread accompagnato da una riduzione dei margini, il numero di Pmi con debiti scarsamente sostenibili rimarrebbe comunque inferiore a quello del 2012 (33 mila contro 41 mila).
La migliore capacità rispetto al passato del nostro sistema di Pmi di resistere a shock dei tassi di interesse è dovuta a una serie di fattori: oggi le piccole imprese sono più capitalizzate, hanno ridotto l’indebitamento (ed è diminuito il numero di Pmi affidate dalle banche, conseguenza del credit crunch) ed è quindi più basso l’ammontare di oneri finanziari.
Figura 4
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Savino
Risarcimento danni a carico di chi si è assunto pro-tempore incarichi governativi
Henri Schmit
Un po’ teorico ma molto interessante. Contrariamente all’evidenza empirica dell’analisi condotta nel 2012 da Bankitalia penso che oggi un aumento dello spread sui titoli decennali non avrebbe più un effetto UGUALE sul costo dei finanziamenti concessi dalle banche. Quelle più deboli e più esposte sono state eliminate. Considerando solo il primo gruppo bancario più grande e con ratios relativamente buoni, sono convinto che riuscirebbe a LIMITARE il danno creato dallo spread; i suoi clienti sarebbero marginalmente vantaggiati. L’attivo di questa banca e forse di molte altre nel frattempo è meno dipendente dal debito sovrano domestico (esperienza e regole nuove aiutano) e quindi tende a rendersi indipendente dalla sorte dello spread. Le regole UE spingono i clienti a selezionare le banche più efficienti. Sarei curioso sapere se quest’ipotesi trova riscontro empirico.
Michele
Malgrado il titolo l’articolo non dimostra per nulla il legame tra spread tra i titoli di stato italiani e quelli tedeschi e il costo del debito per le PMI. Si parla solo dell’effetto di un aumento dei tassi sui finanziamenti alle imprese che può essere causato da tanti motivi. Il legame spread-tassi sui finanziamenti diventa articolo di fede
Henri Schmit
Bisogna misurare la correlazione fra spread dei titoli pubblici e costo delle emissioni bancarie. UniCredit ha lanciato a fine novembre una mega-emissione in dollari pagando uno spread di 720 bp rispetto ai 70 bp pagati a gennaio. Le ragioni dell’aumento esorbitante saranno più complesse, anche endogene, ma la variazione in concomitanza con il rialzo dello spread pubblico causato da un politica fiscale irresponsabile non può che colpire. La correlazione fra i due mondi (fra titoli di stato e tassi bancari prima sulle loro emissioni e quindi sui crediti concessi) c’è, ma sta diminuendo a vantaggio delle banche virtuose proprio per merito delle regole prudenziali europee.
Rino Impronta
Quanti di noi hanno avuto modo di parlare o discutere di “scala mobile”?
Ufficialmente fu conosciuta come “indennità di contingenza”, tra fine anni ’70 e inizio anni ’80. Essa fu oggetto di rivisitazione nel tempo. Esisteva un “paniere”, contenente beni particolari di largo consumo. Con riferimento all’andamento dei prezzi di tali beni, un’apposita Commissione procedeva, trimestralmente, alla verifica delle eventuali variazioni. Alla fine provvedeva – con il meccanismo della scala mobile – all’adeguamento del costo della vita.
Lo scenario economico non era come quello di oggi. Al fine di recuperare il potere di acquisto dei salari, sindacati e Confindustria affrontarono la soluzione di questo problema. Infatti, la stessa scala mobile fu abrogata tra il 1984 e il 1992. Qualcuno si era accorto che era nato un circolo vizioso che aveva prodotto la crescita dell’inflazione.
Chiedo ancora un piccolo sforzo di memoria. Molti ricorderanno che, prima di abolire la scala mobile, si pensò di congelarla, per le cause esposte in precedenza. Per non provocare danni ai lavoratori, i vari governi in carica decisero di sostituire il mancato adeguamento dei salari. Trasformarono l’importo maturato e non riconosciuto in speciali emissioni di BTP.
Erano titoli al portatore con scadenza quinquennale e decennale e tassi a due cifre. Lo Stato in tal modo difendeva i percettori di salari e stipendi. Riconosceva loro – a fronte degli aumenti del costo della vita – importi che producevano interessi semestrali e il capitale riscuotibile alla loro scadenza.
Veniamo ai giorni nostri. Lo scenario è simile, ma non uguale. Il momento è comunque difficile, per tanti motivi. Le cause sono note un po’ a tutti. Soffriamo di disoccupazione alta, chiusura di aziende, PMI che non riescono ad incassare i crediti nei confronti dello Stato.
Sono sotto gli occhi di tutti anche le iniziative che lo Stato ha provato a realizzare e i risultati ottenuti. Mi riferisco ai provvedimenti nei confronti dei “pensionati d’oro”. Tutte persone benestanti, che vivono di rendita, con case di lusso ai Caraibi e Jet privati. Questo è il quadro dell’immaginario collettivo che suggerisce soluzioni inopportune e non si sofferma sulla loro incostituzionalità. E nemmeno sulle tante cause, dall’esito incerto per lo Stato, che si produrranno per effetto di certe velleità egualitarie. Costi e benefici andrebbero più attentamente misurati, in base anche alle esperienze passate.
Ciò premesso, consiglio di valutare la possibilità di riconoscere un ristoro ai pensionati colpiti dall’obbligo di versare il “contributo di solidarietà” e subire il blocco della perequazioni.
In particolare, resterebbe il prelievo del contributo, nelle forme e nelle percentuali previste. Sarebbe, tuttavia, interessante considerare questo prelievo una forma di “prestito forzato”. Per questo motivo, lo Stato, si impegnerebbe – con l’emissione di titoli – a restituire a scadenza le somme trattenute.
Gli obiettivi sarebbero interessanti. I pensionati oggi svolgono il ruolo di ammortizzatori sociali. Grazie a costoro molti giovani (figli e nipoti) possono permettersi di sopravvivere alle difficoltà del momento. Inoltre si garantirebbe il recupero a distanza di anni, forse in un momento migliore per le nostre finanze, di somme di cui sarebbe certamente comodo disporre.
Lancio l’idea, sempre in forma provocatoria. La speranza è che siano tanti altri a sostenere la causa e a proporsi come sostenitori della soluzione di un problema, che come altri scatena demagogie a non finire. Il riequilibrio nella distribuzione del reddito riposa sull’aumento delle risorse, non su trasferimenti che a medio termine non aggiustano nessuno dei problemi che abbiamo di fronte.