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Cambio di passo per il franco Cfa

Il franco Cfa ha permesso l’afflusso di capitali esteri e il sostegno alle importazioni, ma implica forti vincoli per i paesi che aderiscono all’accordo. Vanno rimessi in discussione il cambio fisso con l’euro e i rapporti di scambio fra gli stati membri.

Come funziona il franco Cfa

Ragionare, senza strumentalizzazioni né minimizzazioni, sul franco Cfa (Communauté Financière Africaine) implica questioni tecniche e simboliche. La moneta le tocca entrambe, perché richiede decisioni sovrane: non irrazionali (si spera), ma nemmeno riconducibili alla pura applicazione di modelli.

L’attuale franco Cfa è nato dopo le indipendenze, come un accordo volontario di cambio fisso (ancoraggio e convertibilità illimitata) con il franco francese prima e con l’euro dopo, in un regime di incondizionata mobilità dei capitali. Era così anche il precedente franco Cfa, dove l’acronimo stava per Colonies Françaises d’Afrique.

Permetteva e permette di rimpatriare senza rischio di cambio proventi dell’attività in Africa di soggetti non africani, la madrepatria prima e poi le multinazionali (non solo francesi, ma anche cinesi, italiane, tedesche e così via). Non cambia nemmeno il ruolo della Francia, che si fa formalmente garante della convertibilità illimitata delle partite estere della zona Cfa.

Per il trilemma di Robert Mundell i paesi Cfa devono dunque rinunciare all’autonomia della politica monetaria. Un’espansione del credito, associata a una riduzione del tasso d’interesse, creerebbe opportunità di arbitraggio, con movimenti di capitali in uscita dal paese e conseguenti pressioni sul cambio. Il vincolo tocca anche la capacità della politica fiscale di sostenere la domanda interna con spesa in deficit.

Qui sorge la questione del livello del cambio. L’ancoraggio è a una “moneta forte”, l’euro. Vi è un consenso “washingtoniano” sul fatto che un cambio forte faccia bene anche a economie deboli. Due i vantaggi: bassa inflazione e sussidio a importazioni di beni strumentali. Un buon punto di partenza per far uscire i paesi dal sottosviluppo. È però vero che le esportazioni sono penalizzate anche verso l’area del dollaro. E che la difficoltà a finanziare gli investimenti degli imprenditori nazionali a tassi ragionevoli impedisce a costoro di investire.

Per di più, si potrebbe osservare, lo sviluppo trainato dalla globalizzazione è riuscito altrove, per esempio in Cina, sulla base di un cambio fisso ma sottovalutato e di un controllo dei movimenti di capitali. In effetti quella della Cina è a tutti gli effetti una politica “sovrana”, nel senso specifico di autonoma.

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È una servitù volontaria?

Veniamo al punto simbolico: la cessione di sovranità implicata dal franco Cfa. La Francia esercita nei confronti delle ex colonie una sorta di patronage. L’adesione è formalmente volontaria, ma ci sono voci autorevoli, e non solo di attivisti, per le quali si tratterebbe di una “servitù volontaria”. Il tema è spinoso e aperto al dibattito, giacché si lega alla più generale domanda di democratizzazione delle società africane.

Un indizio della “servitù volontaria” è da alcuni reperito nella questione delle riserve. Formalmente la Francia si impegna a una convertibilità illimitata, e dunque a sostenerne il costo in caso di esaurimento delle riserve. Ma l’unica volta in cui, nel 1994, mentre tutti i paesi erano sopravvalutati del 30 per cento, le riserve si stavano assottigliando alla soglia critica del 20 per cento, la Francia ha dato seguito alle pressioni del Fondo monetario internazionale e ha imposto una svalutazione del 50 per cento. Che, appunto, non è stata decisa dagli stati aderenti, ma da essi semplicemente ratificata. Dopo la svalutazione, e come a prevenire la possibilità di altre decisioni di quel tipo, le riserve “libere” hanno portato la copertura del franco Cfa ben oltre il 50 per cento concordato, fino a un picco del 112,9 per cento nel 2011 e senza mai scendere sotto l’80 per cento.

Ci sono dunque motivi per pensare che l’accordo attuale, pur avendo elementi di vantaggio in termini di afflusso di capitali esteri e di sostegno alle importazioni (invero più di beni di lusso che di beni di investimento), implichi forti vincoli per i paesi aderenti.

Inoltre, un recente studio mostra che la zona Cfa è sempre meno una area monetaria ottimale. A parte pochi casi di allineamento (Camerun e Gabon), lo scarto dalla parità è elevato, in positivo e in negativo, per tutti gli altri paesi. A un livello di sopravvalutazione medio ponderato rispetto all’euro del 5 per cento corrispondono livelli del 19 per cento per un paese grande come la Costa d’Avorio e quasi del 30 per cento per la Repubblica Centrafricana.

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Ridefinizione del cambio, con eventuale passaggio alla fluttuazione e ridefinizione dei rapporti di scambio fra paesi aderenti, molto bassi ma con margini di crescita, in un orizzonte di crescente specializzazione produttiva: ecco dunque i temi sul tappeto sulla base delle recenti evoluzioni del sistema e che rendono opportuna una “spolveratina”, come ha recentemente proposto su Le Monde l’economista togolese Kako Nubukpo.

Temi che consigliano di prendere in considerazione altri schemi. Una moneta unica africana è stata annunciata per il 2020, ma voci sempre più insistenti ne spostano in là l’attuazione. Nelle more della quale sarebbe forse possibile pensare ad altre opzioni, come l’adozione di una moneta comune rispetto alla quale fissare peg (ancoraggi) a monete nazionali. Schema simile a quello dell’Unione europea dei pagamenti, che fra 1950 e 1958 ha sostenuto lo sviluppo delle economie nazionali e l’integrazione europea senza che l’Europa si chiudesse al commercio internazionale.

In quale contesto sovrano dovrebbe svolgersi il percorso di cambiamento? In uno in cui la negoziazione dei paesi africani avviene non con la Francia, ma con l’Unione europea. La decisione del Consiglio europeo del 23 novembre 1998, vincolante per la Francia, stabilisce infatti che Parigi deve sottoporre “alla Commissione, alla Banca centrale europea e al comitato economico e finanziario ogni progetto mirante a modificare la portata o la natura di tali accordi”.

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  1. Henri Schmit

    L’articolo invece di spiegare tenta in modo maldestro di giustificare e correggere affermazioni precedenti dell’autore per lo meno discutibili. Ogni sistema di cambi fissi prima o poi deve fare i conti con la realtà ed accettare un aggiustamento. Il consenso è libero solo nella misura in cui il consenziente cura la propria autonomia; servitù volontaria è sinonimo di incapacità ed inefficienza; l’Italia ne è un buon esempio proprio nel campo monetario e fiscale. Non vedo che cosa rimane dello sfruttamento denunciato o non contraddetto in precedenti interventi (La7). L’ultima osservazione circa la condivisione con le autorità europee non ha alcun significato, a meno di insinuare che la Francia finora Si sia rifiutata di farlo. Probabilmente finora è andata a tutti bene così come la Francia gestiva, alla luce del sole. Se l’Italia pretende (legittimamente) di avere più poteri di codecisione, tutta la critica alla Francia diviene assurda e mostra la sua vera faccia: una campagna per infangare, metodo in cui il paese può insegnare al mondo.

    • emilio sacerdoti

      Non e’ chiaro quali vincoli l’autore ritiene che la moneta comune delle due Unioni Monetarie dell’ Africa occidentale e central impongono ai paesi membri. La tendenza in Africa e’ verso unioni monetarie regionali per promuovere integrazione commerciale fra piccoli paesi e facilitare investmenti esteri di natura regionali. Cosi’ i 5 paesi della Comunita’ dell’ Africa Orientale (Kenya Tanzania Uganda Ruanda e Burundi) si sono impegnati a istituire una unione monetaria nell’ arco di 5 anni, e paesi dell’ Africa Occidentale fuori dalla zona FCFA ( Nigeria, Ghana, Liberia, S Leone, Guinea) ) anch’ essi hanno come obbiettivo una unione monetaria, e creato allo scopo un Istituto Monetario West Africano. Il franco CFA, ancorato all’ euro, ha assicurato bassa inflazione, e non pare, secondo analisi sofisticate, divergere da un tasso di equilibrio che mantenga il deficit corrente della bilancia dei pagamenti nei limiti della normalita’ per paesi a stesso livello di sviluppo. Una fissazione del cambio sulla base di un paniere di monete, anche se fattibile, creerebbe problemi di gestione. Inoltre la fissita’ del cambio agevola il calcolo degli investitori esteri, il che non accade in paesi come Kenya o Ghana, a inflazione piu’ elevata e tasso fluttuante. Il tasso di crescita nei 7 paesi con franco CFA in Africa Occid. e’ stato negli ultimi 5 anni piu’ elevato che nella media dei paesi africani . Non si vede quindi l’ utilita’ di un salto nel buio, con mutamento del regime di cambio.

  2. Massimo Amato

    C’è materia per dibattere! I vincoli derivano dal trilemma di Mundell Fleming. Tenere cambi fissi e libertà di movimenti di capitale può indubbiamente avere effetti positivi sulle performance macroeconomiche, ma risponde anche alla necessità di rendere “sostenibile” il debito estero di questi paesi. Il prezzo che si paga è però una severa limitazione alle politiche di bilancio, il che vuol dire per esempio anche compressione delle spese per la sanità. Questa limitazione corrisponde a un orientamento invalso in sede di istituzioni internazionali sin dagli anni novanta, a fronte delle crisi del debito. Ne ho scritto in Fine della finanza. La limitazione non sembra essere inoltre favorevole al passaggio da un paradigma di crescita basato sulla esportazione di raw matierials, compatibile anche con forti polarizzazioni nella distribuzione del reddito (rendite per elites), e l’istanza di uno sviluppo fondato anche sulla domanda interna, capace di assorbire un’offerta di lavoro che non farà che crescere nei prossimi anni, garantendo la stabilità sociale. “Una fissazione del cambio sulla base di un paniere di monete, anche se fattibile, creerebbe problemi di gestione”, certo ma proteggerebbe queste economie esportatrici da rialzi del cambio euro dollaro che le penalizzerebbero. Resta per di più la questione, che accenno, della forma ottimale di una unione monetaria, con moneta unica o moneta comune. È legata alle divergenze rispetto al RER di equilibrio a cui accenno nell’articolo.

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