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Uno spettro si aggira per il mondo: la de-globalizzazione

Ristagna il peso dell’export e scendono i flussi globali di capitali. Eppure, con l’economia digitale i paesi sono sempre più interconnessi tra loro. Insieme a nuovi dazi, sale alla ribalta la “Slowbalisation”: andiamo davvero verso un mondo più chiuso?

Cos’è la slowbalisation?

Dopo lo slow-food, lo slow-cooking e lo slow-living ecco spuntare anche la “slowbalisation”, termine che allude al processo di rallentamento della globalizzazione cui stiamo andando incontro. Almeno così sostiene The Economist.
In effetti, considerando alcune variabili che normalmente vengono usate per misurare l’intensità del fenomeno, si nota una stagnazione relativa ad almeno due macrocategorie: il commercio internazionale e la globalizzazione finanziaria. Dalla crisi del 2007-2008 in poi, il peso dell’export rispetto al Pil globale è rimasto più o meno stabile, ad eccezione del grande balzo del 2017 (figura 1). È addirittura diminuito il peso sul Pil degli investimenti diretti esteri. È curioso notare, dalla figura 1, come la loro impetuosa crescita e l’altrettanto rapido calo siano coincisi con le due crisi finanziarie del 2000 e del 2007.
La natura del commercio e degli investimenti diretti esteri è poi profondamente cambiata. Negli anni Novanta, il forte calo dei costi del commercio ha incoraggiato la creazione delle catene globali del valore, ovvero la suddivisione delle diverse fasi della filiera produttiva di un bene tra varie nazioni. Di conseguenza, la specializzazione dei paesi non è più settoriale, ma basata sui vantaggi comparati che i singoli paesi hanno nelle fasi produttive e il commercio è composto sempre più da prodotti intermedi e non da prodotti finiti. Proprio riguardo alle catene globali del valore, tuttavia, qualcosa sta cambiando: le multinazionali tendono a investire in un numero minore di nazioni, privilegiando quelle a più basso rischio paese. E si rafforza il commercio regionale, cioè quello tra paesi appartenenti a una stessa realtà come l’UE o il Mercosur, a discapito di quello globale.

Anche il flusso di capitali nel suo complesso si è ridotto del 65 per cento dal 2007 al 2016 (figura 2). L’aggregato, che comprende investimenti in strumenti di debito, azioni, prestiti bancari, riserve e investimenti diretti è diminuito dai 12,4 trilioni di dollari del 2007 ai 4,3 trilioni di dollari del 2016, tornando ad assumere un peso sul Pil simile a quello degli anni Novanta.

Figura 2 – Flussi globali di capitali (1)

(1) Flussi di capitali lordi, inclusi investimenti diretti, strumenti di debito, azioni, prestiti e altri investimenti.

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Fonte: Elaborazione McKinsey su dati Fondo monetario internazionale

Il peso degli investimenti diretti, come la costituzione di una filiale all’estero o l’acquisizione di una partecipazione durevole in un’impresa estera, sul totale degli investimenti esteri è aumentato rispetto al 2007 ed è una buona notizia perché sono meno volatili e più legati all’economia reale.

È comunque improbabile che il rallentamento della globalizzazione segua l’andamento lineare che ha caratterizzato l’ascesa dei nazionalismi e del protezionismo nel ventennio tra le due guerre mondiali. Inoltre, altre variabili associate alla globalizzazione – come i passeggeri dei voli aerei internazionali o l’integrazione digitale – non hanno smesso di crescere. In poche parole: non si possono trarre facili conclusioni, ma la realtà va analizzata nella sua complessità senza abusare del termine globalizzazione che viene spesso utilizzato in modo troppo generico, riferendosi a fenomeni tra di loro eterogenei.

Tante cause, un mondo che cambia

È proprio il cambiamento di alcuni paradigmi sociali ed economici che può fare da spunto per capire meglio il fenomeno e immaginarne il futuro. La prima causa (soprattutto adesso) che viene alla mente quando pensiamo al rallentamento del commercio globale sono i dazi. Tra il 1994 e il 2006 si sono in media ridotti di oltre tre volte, rimanendo poi stabili fino al 2017. Un aumento effettivo potrà essere rilevato nel 2018 (e più in là), vista la Brexit e l’attuale guerra commerciale Usa-Cina. Ma si tratta di un fenomeno ancora troppo recente.

Cos’altro c’è, quindi? I commentatori hanno dato spazio a varie interpretazioni: dalle più stringenti regolamentazioni antitrust al cambiamento delle scelte di produzione, oggi maggiormente basate sulla qualità del capitale umano e della ricerca e sviluppo (e meno sul costo del lavoro, che allargava le catene di produzione globali a un più ampio spettro di paesi, ma che adesso è più automatizzabile).

Ci sono però altri due punti su cui è interessante soffermarsi. Innanzitutto, sta cambiando il paradigma di scambio commerciale? Guardando la composizione dell’export globale (figura 3), possiamo subito notare che la crescita di scambi di beni si è arrestata al 2008, per poi ristagnare (tra alti e bassi) fino a oggi. Per i servizi la storia è diversa: la crescita è esponenziale, per arrestarsi durante la crisi e poi riprendere il proprio ritmo. E questo forse è il caso della “servitization”, che negli ultimi anni ha visto le imprese affiancare una serie servizi alla vendita dei prodotti. A ciò dobbiamo aggiungere la digitalizzazione, i big data, il cloud computing e l’internet delle cose che, favorendo l’utilizzo di beni e servizi immateriali, stanno rivoluzionando consumi e produzione.

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C’è poi il ruolo della Cina (e in parte succede anche in India). Mentre l’Unione europea, con annessi stati dell’Est Europa e Asia centrale, hanno visto salire di molto la propria quota, il colosso asiatico ha diminuito le proprie esportazioni dal 2007 a oggi del 15 per cento rispetto al Pil, dopo decenni di crescita esponenziale. La nascita di una vera e propria classe media ha spinto fortemente i consumi interni, rilanciando il mercato domestico a discapito delle esportazioni. Inoltre, il rialzo dei salari e l’automazione hanno di recente portato alla crescita di un’industria più avanzata, tecnologica e diversificata rispetto alla Cina “a basso valore aggiunto” di cui ci ricordiamo. A ciò va poi aggiunto il rallentamento della crescita e degli investimenti cinesi (in parte dovuto all’alto livello di indebitamento delle imprese).

Insomma, più che a un mondo più chiuso sembrerebbe di assistere alla nascita di un mondo di relazioni meno tangibili, nel quale gli equilibri globali cambiano. Il decennio precedente alla crisi ha visto una crescita così esponenziale di commerci e integrazione (dovuti a una massiccia liberalizzazione e al progresso tecnologico) che a livello politico ed economico qualcosa doveva cambiare. E il 2007 ha rappresentato una svolta.

Per certi versi, la slowbalisation potrebbe non essere un male, ma un assestamento. Almeno è quanto sostiene il premio Nobel Michael Spence, secondo cui il mondo dev’essere riconfigurato per evitarne alcuni eccessi (e squilibri). Nel lungo termine, tuttavia, il percorso della “globalizzazione” dovrebbe tranquillamente procedere, a ritmi più sostenibili e in modi diversi. Ma si vedrà.

Figura 3 – Boom dell’esportazioni servizi

Fonte: Wto

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  1. Davidino

    La de-globalizzazione è un processo necessario per una più equa redistribuzione della ricchezza a scopo di aumentare la coesione sociale. Sono necessarie politiche che ribaltino il trend di arricchiemento delle classi liberal-progressiste a scapito del rimanente 90%. I primi devono diventare gli ultimi. In questo senso bisogna eliminare la libera circolazione di capitali, espropriare beni a chiunque faccia uso di paradisi fiscali e ridurre drasticamente l’immigrazione onde evitare la guerra tra i poveri. In breve la libertà di movimento dei fattori di produzione (K e L) è alla radice dei problemi del mondo occidentale, e come tale va estirpata.

    • Max Grimandi

      “…il mondo dev’essere riconfigurato per evitarne alcuni eccessi (e squilibri)”. Il mondo oggi è già un tripudio di eccessi e squilibri: se non si capisce che una totale libertà di movimento per capitali e merci porterebbe la società al totale collasso, significa non osservare la realtà. Bisogna rilocalizzare il lavoro (leggi la produzione di beni), bisogna porre limiti al movimento dei capitali, soprattutto bisogna de-finanziarizzare l’economia (e la società nel suo insieme). Non si tratta di essere dei dinosauri o dei luddisti, le disuguaglianze all’interno dei paesi stanno distruggendo il tessuto sociale senza cui non può esserci non dico sviluppo, ma vita. La tecnologia in futuro distruggerà molti più posti di lavori di quanti non ne possa creare, andranno trovate nuove forme di organizzazione del lavoro ma non solo… in una certa misura dovremo inserire alcuni elementi dell’idea comunista all’interno della società liberale (e seppellire il politicamente corretto) perchè possa trovare nuovo slancio.

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