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Turchia, ombre sul futuro di Erdogan

Indicata come esempio da seguire per crescita e sviluppo economico, la Turchia si è avvitata in poco tempo in una grave crisi economica e finanziaria dalla quale fatica a sollevarsi. Ma la situazione può cambiare se Erdogan si dimostrerà più pragmatico.

L’economia turca dagli anni Ottanta al 2018

Come è possibile che in pochissimo tempo la Turchia, da tutti indicata quale esempio da seguire in termini di crescita e sviluppo economico, sia entrata in una violenta crisi economica e finanziaria dalla quale fatica a sollevarsi? Quali sono le ragioni dell’involuzione? E il paese riuscirà a tirarsi fuori rapidamente da questa situazione?

A partire dalla liberalizzazione dell’economia negli anni Ottanta, la Turchia ha conosciuto un’enorme crescita e una maggior stabilità politica, che è culminata nell’adesione all’Unione doganale europea, nel 1994. L’ascesa al potere di Recep Erdoğan e del partito da lui fondato, l’Akp (Partito dello sviluppo e della giustizia), all’inizio degli anni Duemila, ha portato un grosso cambiamento di natura culturale, ma una forte continuità dal punto di vista della politica economica. La piccola imprenditoria, oltre alle masse musulmane dell’Anatolia centrale, erano e rimangono i grandi elettori dell’Akp. Fino al 2016 la Turchia è cresciuta mediamente di oltre il 5 per cento all’anno in termini reali, milioni di posti di lavoro sono stati creati, mentre l’inflazione è rimasta sotto controllo, attorno al 10 per cento. Certamente, i conti con l’estero presentavano un importante deficit, ma questo è risultato facilmente finanziabile grazie agli afflussi di investimenti reali e finanziari dall’estero.

Il fallito colpo di stato del 15 luglio del 2016, messo in atto da una parte delle forze armate turche per rovesciare il regime, e la violenta repressione che ne è seguita, hanno segnato una svolta importante. Erdoğan, oltre a incarcerare migliaia di oppositori e imbavagliare la stampa, ha voluto a tutti i costi la fine della repubblica parlamentare, con la conseguente abolizione della carica di primo ministro e la nascita della repubblica presidenziale. Per ottenere il risultato, Erdoğan doveva assolutamente vincere il referendum, che si è svolto nell’aprile del 2017, e le successive elezioni presidenziali indette del giugno dell’anno successivo.

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È in quel periodo che le autorità turche hanno adottato una serie di provvedimenti espansivi, inclusi forti aumenti della spesa sociale, un ambizioso programma di garanzie pubbliche sui prestiti privati alle imprese e una costante pressione sulla banca centrale turca affinché tenesse bassi i tassi di interesse, nonostante livelli di inflazione relativamente elevati.

Le politiche espansive hanno portato a un surriscaldamento dell’economia e alla creazione di forti sbilanciamenti commerciali. Tra il 2016 e il 2017, la crescita reale è stata più del doppio (da circa il 3 per cento a più del 7 per cento), il credito bancario è aumentato esponenzialmente e il deficit della bilancia delle partite correnti è passato dal 4 per cento del Pil a quasi il 6 per cento.

La crescita delle tensioni politiche con gli Stati Uniti, oltre al rialzo dei tassi americani e al conseguente rafforzamento del dollaro, hanno determinato forti flussi in uscita da tutti i paesi emergenti, specialmente da quelli più vulnerabili. Così ad agosto 2018 la crisi è scoppiata: la lira turca ha perso quasi il 40 per cento del suo valore e nei mesi successivi l’inflazione si è impennata a oltre il 20 per cento. La banca centrale è stata costretta, seppure con ritardo, ad aumentare pesantemente i tassi d’interesse, il credito si è contratto e il Pil si è ridotto al -3 per cento su base annuale. Così oggi la Turchia, assieme all’Argentina e forse all’Italia, è uno dei pochi grandi paesi in recessione, grazie agli stimoli provocati dal ciclo politico.

Ripresa possibile

Ci sono ragioni per essere ottimisti sulla Turchia? In un certo senso, sì. La crescita potenziale del paese rimane alta e maggiore di quella di gran parte dei paesi emergenti (e avanzati), il debito pubblico è basso e offre spazi per combattere il rallentamento, mentre il forte deprezzamento della valuta ha riequilibrato la bilancia commerciale. La chiave del problema rimane tuttavia nelle politiche che Erdoğan vorrà seguire nei prossimi anni, tenendo conto che fino al 2023 non dovrà affrontare nessuna sfida elettorale.

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Nell’ultimo anno, la quota di debito turco detenuta all’estero è diminuita, mentre la domanda di depositi in dollari in Turchia aumentata. In altre parole, è calata la fiducia sia da parte degli investitori internazionali che dei cittadini turchi. I risultati delle recenti elezioni locali, dove il partito di Erdoğan ha preso decisamente meno del previsto, puntano nella stessa direzione. Tuttavia, se abbandonerà le sue ambizioni egemoniche e avrà un atteggiamento più pragmatico e più favorevole al mercato, il presidente turco può ancora cambiare le cose. All’inizio del 2019, i tassi di interesse internazionali sono scesi nuovamente e le prossime elezioni saranno tra quattro anni. Un cambiamento di direzione in questo momento avrebbe un piccolo costo, ma un grande beneficio.

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  1. LUCIANO PONTIROLI

    A big “if”… sarà Erdohan in grado di abbandonare le ambizioni egemoniche che già prima del fallito colpo di stato dell’estate 2016 stava tentando di soddisfare? se fosse una persona equilibrata, probabilmente sì: ma quale persona equilibrata persegue cotali ambizioni?

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