L’azione di classe può essere un efficace strumento non solo di tutela di consumatori e investitori, ma anche per la regolazione delle attività economiche. Ma le nuove regole italiane rischiano di essere poco efficaci perché creano profonde incertezze.

Perché negli Usa funziona

Il Parlamento ha appena approvato una profonda riforma della cosiddetta “azione di classe”, ossia la possibilità, per un gruppo di soggetti che si ritengano danneggiati da un terzo, di promuovere un giudizio collettivo. Le modifiche introdotte vorrebbero offrire uno strumento di tutela più incisivo rispetto alla precedente legge, del 2010, che si è dimostrata un flop, a causa del limitato ambito di applicazione e di una serie di difetti tecnici. A circa dieci anni dalla sua introduzione, i dati dicono che solo una causa su due è ammessa al giudizio e il risarcimento arriva in meno di due casi su dieci ed è comunque in media molto basso, individualmente sotto i 100 euro. Anche le nuove regole rischiano però di creare profonde incertezze. La materia è tecnica e complessa, ma proviamo a esaminare pochi punti rilevanti.

Abbiamo tutti imparato a conoscere le “class action” statunitensi, quantomeno da film e romanzi che raccontano di eroici avvocati di provincia che si ergono a campioni di soggetti deboli contro grandi e potenti imprese responsabili di danni ambientali, truffe finanziarie e altre nefandezze. L’azione di classe è, in effetti, un potenziale strumento di giustizia sociale: consente di unire le forze a una collettività di persone similmente danneggiate, ma che individualmente non avrebbero la convenienza o le risorse per agire a protezione dei propri diritti. Il sistema Usa funziona però perché inserito in un ecosistema giuridico (ma anche economico e sociale) molto diverso dal nostro. Ad esempio, è consentito il “patto di quota lite”, un accordo in base al quale l’avvocato (spesso uno studio specializzato) anticipa le ingenti spese del giudizio, ma in caso di vittoria ottiene un’importante fetta dei danni (non di rado sopra il 30 per cento). E, in molti casi, c’è la possibilità di chiedere “danni punitivi” che superano il mero danno vivo subito dagli attori, allargando così la torta da dividere con l’avvocato e l’effetto deterrente per i convenuti.

In Italia si è lontani dalla disciplina e dalle prassi americane, benché negli ultimi anni vi siano state aperture verso accordi simili al patto di quota lite e i danni punitivi. Né si deve dimenticare che, proprio negli Stati Uniti, non mancano gli abusi, con azioni pretestuose e ricattatorie oppure promosse più su stimolo di rapaci studi legali che nel vero interesse dei singoli danneggiati.

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I dubbi sulla nuova disciplina

La riforma appena approvata sposta la disciplina dal Codice del consumo a quello di procedura civile (articolo 840-bis e seguenti), rendendola di applicazione generalizzata: ne risultano ampliati i legittimati ad agire e i presupposti dell’azione. Se prima l’azione era consentita solo ai consumatori in limitati casi, oggi possono attivarsi soggetti titolari di diritti omogenei, individualmente o tramite comitati e associazioni, contro imprese o gestori di servizi pubblici per sostanzialmente qualunque illecito dannoso. Ad esempio, gli acquirenti di un prodotto difettoso, di un medicinale risultato insicuro o chi ha investito in base a informazioni false potrebbero aggregarsi per cercare un rimedio comune.

Fino a qui, in teoria, tutto bene: il diavolo, però, è nei dettagli, che sono davvero molti. Limitiamoci a due punti.

Perché l’azione collettiva funzioni è molto importante poter determinare con relativa sicurezza la composizione della classe e i legittimati a partecipare al giudizio o a goderne o subirne le conseguenze. In Italia non sarà così. Oltre alla ambigua nozione di “diritti individuali omogenei”, che la giurisprudenza potrebbe parzialmente chiarire, per ragioni sistematiche si adotta il sistema “opt-in”: una volta ammessa l’azione, i soggetti potenzialmente lesi possono scegliere se promuovere azioni individuali, ovvero aderire a quella collettiva e beneficiare dell’eventuale risarcimento, pur non essendo formalmente “parte” del processo. Anzi, con la riforma si potrà aderire al ristoro anche dopo la sentenza. Negli Usa, invece, una volta “certificata” la classe (ad esempio, chi ha usato un certo medicinale negli ultimi tre anni), il processo vincola tutti coloro che si trovano in quella situazione, a prescindere da una loro espressa adesione. Le azioni individuali non sono consentite salvo che il singolo si chiami espressamente fuori (opt-out).

L’approccio italiano rischia di rendere inefficace lo strumento per la semplice ragione che le parti non saranno in grado di quantificare precisamente il rischio del contenzioso. Inoltre, eventuali accordi transattivi vincoleranno solo chi, individualmente, vi aderisce e non l’intera classe. Sarà quindi molto difficile raggiungerli, mentre negli Usa è proprio con gli accordi transattivi che si chiude la quasi totalità delle class action. L’incentivo dei convenuti, inoltre, sarà di resistere a ogni costo alla soccombenza, perché in caso di condanna potrebbero trovarsi a pagare numerosi soggetti che non hanno partecipato al giudizio, né avranno alcuna garanzia che le conseguenze dei fatti contestati siano state definite una volta per tutte.

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La legge non prevede poi un meccanismo per l’individuazione di un rappresentante della classe che abbia i corretti incentivi per tenere conto dell’interesse di tutti, o almeno della maggioranza dei potenziali membri. Semplicemente, in molti casi, chi prima si muove diventerà il campione della classe e deciderà unilateralmente come condurre la lite, ivi incluse eventuali transazioni (sebbene sia previsto un controllo del giudice). È un problema ed è solo in parte mitigato dal fatto che l’inclusione nella classe non è automatica e che i singoli possono decidere di agire individualmente. Il pericolo, naturalmente, è che associazioni poco serie e avvocati poco scrupolosi promuovano iniziative ispirate da interessi personali e conducano il contenzioso senza davvero tener conto del comune interesse della maggioranza dei danneggiati, scatenando “corse al tribunale” mosse da fini ben poco nobili.

L’azione di classe può essere un efficace strumento non solo di tutela di consumatori e investitori, ma anche per la regolazione delle attività economiche. Per questo, in altri sistemi giuridici affianca – a fini di deterrenza e sanzionatori – la responsabilità penale e quella amministrativa. I trapianti giuridici, però, spesso non funzionano e sono davvero molti i dubbi sull’efficacia e la desiderabilità della nuova disciplina italiana, che pare scritta in modo affrettato e da “manine” poco competenti.

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