Nei paesi dove hanno dato risultati positivi in termini di crescita, le politiche di bilancio restrittive sono state accompagnate da una politica monetaria accomodante. Una strada preclusa all’Italia da quando è entrata nell’euro. Il nostro paese avrebbe dovuto seguire un’altra direzione.
EFFETTI DELLE POLITICHE RESTRITTIVE
Nelle tradizioni delle teorie e dell’analisi economica gli effetti attesi da politiche di bilancio restrittive, in via generale, erano recessivi (ottica keynesiana) o neutrali (equivalenza ricardiana).
Alcuni studi, al contrario, sembrano mettere in evidenza inaspettate conseguenze espansive e segnali di crescita economica, a seguito di simili politiche di bilancio. Forse Mario Monti ha preso in prestito queste conclusioni, e ha adottato politiche di bilancio (fiscali) restrittive, con la speranza che si ripetessero anche in Italia i segnali di ripresa economica.
L’analisi parte dall’esperienza di tre paesi, Danimarca, Irlanda e Svezia, dove, a seguito dell’adozione congiunta di una politica di bilancio restrittiva (aumento delle imposte e taglio delle spese), negli anni Ottanta si è verificato un effetto espansivo attraverso un aumento dei consumi e degli investimenti.
In tutti i tre casi di contrazione di bilancio, la riduzione del deficit pubblico è stata forte, rapida e durevole, e la crescita non si è indebolita, anzi è accelerata.
Ora se ci fermassimo a quest’analisi superficiale, lo stupore sarebbe tanto, poiché avremmo dovuto assistere a un effetto fortemente recessivo dovuto alla contrazione della spesa pubblica, dopotutto era questo il fenomeno riscontrato nelle economie a forte disoccupazione keynesiana. Ma andiamo più a fondo.
POLITICA MONETARIA, LA CHIAVE DEL SUCCESSO
Le logiche d’azione del policy-mix in tutti i tre casi portano a precisare i rispettivi ruoli delle politiche fiscali e delle politiche monetarie.
Le politiche fiscali hanno coniugato lo strumento fiscale e la riduzione delle spese. Mentre Monti ha utilizzato solo lo strumento fiscale (aumento delle tasse) e, sostanzialmente, ha lasciato invariata la spesa.
Le politiche monetarie sono state accomodanti nei confronti delle contrazioni di bilancio. Mentre noi abbiamo la Banca centrale europea, indipendente, che per statuto si deve interessare solo di tenere basso il tasso di inflazione. Ma se facciamo un passo indietro il potere-diritto di battere moneta è legato alla “Storia”, se non all’essenza stessa, del potere politico. La creazione di una moneta internazionale, in verità, cozza con uno degli attributi essenziali della sovranità nazionale.
E a complicare le cose ha pensato un sistema bancario che invece di elargire denaro alle imprese gioca “all’allegro speculatore”.
Nel caso irlandese, la moneta locale è stata svalutata dell’8 per cento; in Svezia la moneta è stata svalutata del 16 per cento; per la corona danese vi è stata una svalutazione del 3 per cento. Processi di svalutazione che hanno avuto luogo prima dell’adozione di politiche di bilancio restrittive. Con l’introduzione dell’euro abbiamo un tasso di cambio fisso e, quindi, non è possibile attuare le svalutazioni competitive della moneta, tanto care all’Italia nei momenti di difficoltà.
Quindi, l’esperienza di Danimarca, Irlanda e Svezia ci indica che le politiche restrittive non avrebbero potuto avere effetti positivi sui moltiplicatori di bilancio se nel contempo non ci fosse stata una politica monetaria accomodante: è stata questa la chiave del successo del programma di contrazione di bilancio in quei paesi.
Ecco perché la cura proposta dal Governo dei tecnici non è stata efficace. La manovra doveva prevedere tagli alla spesa pubblica superflua e non aumenti della pressione fiscale. E se proprio questo non era sufficiente, la parte rilevante della manovra doveva contenere tagli alla spesa. E, soprattutto, la stretta di bilancio doveva essere accompagnata da un’espansione monetaria.
Se poi ci mettiamo dentro l’approvazione del Fiscal compact la “cura diventa più dannosa della malattia da curare”. Per l’Italia vuol dire portare il debito pubblico al 60 per cento del Pil entro venti anni. Un obiettivo inverosimile per chi attualmente viaggia con un rapporto debito pubblico/Pil intorno al 126 per cento: significa adottare manovre da 45 miliardi ogni anno fino al 2032.
La cura proposta che ci avrebbe salvati dal baratro ha portato questi risultati: un aumento del debito pubblico dello 0,2 per cento (2 mila miliardi); aumento della disoccupazione dell’1,5 per cento (disoccupazione al 10,5 per cento); aumento dell’inflazione dello 0,5 per cento; meno crescita del Pil del 2,1 per cento (la produzione industriale è diminuita del 7 per cento). Fare l’esatto contrario, ovvero ridurre le tasse attraverso il taglio della spesa e lasciare più soldi nelle tasche dei cittadini, accompagnando il tutto con una politica monetaria più accomodante, almeno non avrebbe peggiorato le condizioni del “malato”.
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