Probabilmente, la Ue raggiungerà gli obiettivi di politica ambientale che si è data per il 2020. Preoccupano però le scelte di paesi come Germania e Polonia. E per raggiungere i nuovi target al 2030 occorrerà un cambio di passo. L’esempio della Svezia.

Obiettivi ambiziosi

L’Ue si è data obiettivi ambiziosi in tema di ambiente ed è una delle poche realtà che è riuscita a conciliare crescita del Pil e riduzione delle emissioni. Ma quali sono le politiche europee di mitigazione dei cambiamenti climatici? E come si comportano i vari paesi?

La politica europea di riduzione delle emissioni di gas serra si divide in due ambiti: i settori Ets (Emission trading system) e i settori non-Ets. I primi riguardano le grandi industrie energivore e la produzione di energia elettrica, sottoposti a un “cap and trade” (limiti e scambio) unico a livello europeo, noto appunto come EU Emissions Trading System. Il mercato dei diritti di emissione copre circa il 45 per cento delle emissioni europee e, avendo un tetto ai permessi in circolazione che diminuisce gradualmente, ne garantisce un calo nel medio-lungo periodo.

I settori non-Ets – in sintesi, trasporti, agricoltura, residenziale e terziario – sono invece sottoposti a obiettivi di riduzione delle emissioni stabiliti per ogni nazione dalla Effort Sharing Decision.

L’obiettivo di riduzione delle emissioni complessive del 20 per cento rispetto al 1990 è suddiviso in modo diverso tra i settori Ets e non-Ets. L’obiettivo nel suo complesso è stato già raggiunto nel 2016 con una riduzione del 22 per cento delle emissioni. Nel 2017 sono tornate a crescere dello 0,6 per cento, ma le proiezioni dell’European Environment Agency prevedono che l’obiettivo al 2020 venga centrato. Il maggior contributo alla decarbonizzazione proviene dal settore elettrico, da quello residenziale e dai rifiuti, mentre le emissioni dovute ai trasporti, dopo un calo negli anni della crisi, hanno ripreso a crescere. Preoccupa poi il fatto che dal 2015 le emissioni assorbite dall’uso del suolo e dalla forestazione (Lulucf) sono in diminuzione, una tendenza che si prevede continuare anche nei prossimi anni. Secondo le previsioni, ci sono poi otto stati che non raggiungeranno l’obiettivo di riduzione delle emissioni al 2020, e tra di loro ci sono Germania e Polonia (figura 1).

Figura 1

Fonte: Eurostat

In termini di produzione da fonti rinnovabili il raggiungimento del target del 20 per cento sui consumi finali di energia (che includono elettricità, calore e trasporti) entro il 2020 è in forte dubbio, nonostante il trend di crescita: la quota è stata pari al 17,4 per cento nel 2017. I paesi più virtuosi sono quelli scandinavi (figura 2), ma anche l’Italia si posiziona bene e ha già raggiunto il suo target nel 2014. Tra i grandi paesi ancora lontani dal rispettare il proprio obiettivo vi sono invece la Francia e la Germania. La prima ha comunque un mix di generazione elettrica a bassa intensità di CO2 grazie al grande contributo del nucleare (che non figura tra le fonti rinnovabili). La Germania ha invece ridotto le centrali nucleari in funzione dopo il disastro di Fukushima, ma il vuoto è stato colmato solo in parte dalle rinnovabili o dal gas, con la produzione di elettricità dal carbone che è così tornata a crescere nel periodo 2010-2015. Nonostante il piano di transizione energetica Energiewinde, la Germania è insieme alla Polonia uno dei paesi che vorrebbe posporre l’abbandono delle centrali a carbone previsto dall’UE entro il 2030 e ciò non stupisce dato che metà degli impianti a carbone si trova nei due paesi.

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Le rinnovabili hanno comunque fornito il 32,3 per cento dell’elettricità europea nel 2018 (più del nucleare o del carbone). È nel settore elettrico che la loro quota è cresciuta maggiormente negli ultimi anni: nella produzione di calore sono al 19,8 per cento, mentre nei trasporti ancora arrancano al 7,2 per cento. Del resto, la quota di mercato dei veicoli elettrici oggi è superiore al 5 per cento solo in Svezia, benché ci si aspetti un forte impulso nei prossimi anni per gli incentivi presenti in 24 paesi su 28.

Figura 2

Fonte: Eurostat

L’ultimo target tra quelli individuati dal Pacchetto 20/20/20 riguarda l’efficientamento energetico: l’obiettivo è ridurre del 20 per cento i consumi di energia primaria rispetto allo scenario business-as-usual. Tuttavia, difficilmente sarà rispettato a livello europeo, sia che si considerino i consumi finali di energia (quelli degli utilizzatori finali) che quelli primari (consumi finali più consumo del settore energetico stesso e perdite nella trasformazione e distribuzione dell’energia). I consumi di energia hanno ripreso ad aumentare dal 2015, a un ritmo che non consentirà di centrare l’obiettivo fissato (figura 3). La responsabilità principale dell’aumento dei consumi ricade ancora una volta sul settore dei trasporti.

Va però detto che l’obiettivo di efficientamento energetico al 2030 è stato comunque rivisto al rialzo (-32,5 per cento rispetto al precedente -27 per cento). Ciò fa sperare che vi sia una maggior ambizione in futuro. Del resto ogni anno l’UE spende circa 266 miliardi di euro nell’importazione di combustibili fossili da paesi extra-UE e quindi incentivare il risparmio energetico, quanto meno rispetto a tali fonti, produrrebbe un notevole beneficio economico e geopolitico, oltre che ambientale.

Figura 3 – Consumi primari e finali di energia

Fonte: European Environment Agency (Eea)

Roadmap al 2030

Se guardiamo agli obiettivi di più lungo termine, le proiezioni dell’Eea ci dicono che sulla base delle politiche attuali e di quelle già pianificate dagli stati membri, gli obiettivi al 2030 (-40 per cento di emissioni e una quota del 32 per cento di rinnovabili) non verranno raggiunti. La Commissione ha stimato che per avere un’economia a zero emissioni al 2050 sarà necessario investire nelle infrastrutture energetiche il 2,8 per cento del Pil (ora vi si investe il 2 per cento). L’obiettivo di zero emissioni nette al 2050 è stato per ora bloccato dal Consiglio UE: tra chi ha votato contro ci sono Germania, Polonia e Ungheria.

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Chi invece è un esempio per gli altri è la Svezia. Unico paese europeo a produrre più di metà della propria energia da fonti rinnovabili, è riuscita a ridurre del 24 per cento le sue emissioni rispetto al 1990 e mira a diventare carbon-neutral entro il 2045. Il segreto sta anche nell’efficienza della tassazione energetica, che applica il principio “chi inquina paga”: accise tra le più basse in Europa e la più alta carbon tax al mondo (€120/tonCO2e), introdotta gradualmente già dal 1991. Per anni le imprese energivore hanno beneficiato di una tassa inferiore, prima di entrare nel sistema Ets, così da evitare la delocalizzazione della produzione. Grazie alla carbon tax e all’uso del suo gettito si è incentivato l’isolamento termico degli edifici, l’adozione di combustibili più puliti per il teleriscaldamento e di pompe di calore, con emissioni del settore residenziale ridotte dell’80 per cento rispetto al 1990.

L’esempio svedese spiega anche quali sono due elementi fondamentali per il successo delle politiche ambientali: da un lato, una classe politica lungimirante, dall’altro cittadini che abbiano a cuore la questione ambientale. Infatti è tra gli svedesi che si registra la più alta percentuale di chi considera i cambiamenti climatici il principale problema globale; e gli svedesi sono anche mediamente più propensi ad agire nel loro quotidiano con azioni concrete, quali preferire alternative non inquinanti all’auto privata o cercare di acquistare elettrodomestici a basso consumo.

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