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Quanto ci costa la Ue. E quanto ci guadagniamo

Nel 2017 il contributo netto dell’Italia al bilancio europeo è stato di poco meno di 3 miliardi di euro. Ma limitarsi a considerare questa cifra è riduttivo. Perché i benefici che arrivano dall’adesione alla Ue vanno ben al di là delle risorse ricevute.

Il bilancio europeo: quanto paghiamo?

Durante la campagna elettorale per il referendum della Brexit, il dibattito nel Regno Unito fu fortemente condizionato dal tema dei contributi che gli stati membri devono versare al bilancio europeo. Le conseguenze di quel dibattito sono ben note. È dunque importante provare a fare il punto per l’Italia in vista delle elezioni europee: quanto versiamo all’Ue e quanto riceviamo in cambio?
Secondo gli ultimi dati disponibili, del 2017, il bilancio comunitario ammonta a poco meno di 140 miliardi di euro. Poiché non può andare in deficit, a 140 miliardi di spese devono corrispondere 140 miliardi di entrate. Una parte arrivano da dazi doganali su beni provenienti da paesi extra-Ue, raccolti dagli stati membri e trasferiti successivamente alla Commissione. Il resto è finanziato dal gettito Iva e dai contributi provenienti dai singoli stati. Questi ultimi rappresentano la parte più consistente: nel 2017 ammontavano a più del 56 per cento del totale delle entrate, ossia 78 miliardi. Per fare in modo che l’onere sia equamente distribuito tra gli stati membri, si impone un’aliquota di prelievo che dipende dal reddito annuo lordo del paese in questione e che può variare di anno in anno, a seconda delle spese che devono essere coperte nel bilancio.
Dunque, quanto spetta all’Italia?
Il contributo totale italiano al bilancio europeo per il 2017 è stato di 12 miliardi, di cui poco più di 2,1 miliardi derivanti dal gettito Iva nel 2017, quasi 2 miliardi ricavati dai dazi doganali per i beni extra-Ue e 8,8 miliardi di trasferimento diretto.
Guardando la cifra in termini assoluti, l’Italia si posiziona tra i maggiori contribuenti dell’Unione, superata solo da Germania e Francia (figura 1).

È naturale, infatti, che i paesi più grandi e con maggiori capacità economiche siano anche i maggiori contribuenti. Per avere una misura più realistica della distribuzione dell’onere contributivo all’Unione tra gli stati membri è dunque opportuno tener conto dell’economia del singolo stato e misurare il trasferimento come percentuale del reddito annuale lordo. In questo modo, il contributo italiano risulta ben più moderato e proporzionato, classificandosi al tredicesimo posto (figura 2).

Quanto riceviamo?

Il nostro paese, con i suoi 9,8 miliardi di euro ricevuti nel 2017, è quarto dopo Francia, Polonia e Germania. Una cifra consistente che si articola in molte componenti, alcune più corpose di altre (figura 3).
La principale voce di spesa per l’Italia è il finanziamento all’agricoltura tramite lo European Agriculture Guarantee Fund (Aegf): più di 4 miliardi, di cui 3 miliardi e mezzo indirizzati al pagamento diretto agli agricoltori. Più limitato, ma comunque sostanzioso, è l’investimento per la coesione territoriale (1,6 miliardi), che si traduce, tra le altre cose, in investimenti per le regioni meno sviluppate del Mezzogiorno per poco meno di un miliardo (963 milioni contro i 590 milioni destinati alle regioni del Centro e del Nord). Infine, troviamo gli investimenti per la competitività, la crescita e il lavoro (1,4 miliardi) che si suddividono a loro volta in 310 milioni investiti in grandi progetti infrastrutturali, poco più di 200 milioni per il programma Erasmus e più di 800 milioni per la ricerca.
Va notato che una porzione significativa delle risorse che l’Ue mette a disposizione viene stanziata in base a criteri competitivi, dunque le risorse effettivamente disponibili all’Italia potrebbero aumentare con una maggiore capacità di spesa e una programmazione più puntuale.

Dunque, numeri alla mano, al netto di quanto riceviamo, contribuiamo al bilancio Ue per poco meno di 3 miliardi di euro, secondo i dati della Commissione europea sul 2017, preceduti solo da Germania e Francia (figura 4). Va tuttavia considerato che qui si misurano solo le risorse effettivamente versate all’Italia e non quelle complessivamente stanziate. Queste ultime costituiscono il bacino totale delle risorse disponibili per un paese, il quale può accedervi per finanziare specifici progetti. Per quanto riguarda l’Italia, nel quadro programmatico 2014-2020, ammonta a 73 miliardi e, dunque, a fine 2017 solo il 13 per cento delle risorse complessivamente stanziate era stato effettivamente utilizzato.

Ci guadagniamo più di quanto riceviamo

La nostra posizione di grandi contributori può far sorgere domande legittime sull’utilizzo delle risorse che versiamo. La risposta è che la maggior parte sono investite sul territorio.
Nel 2017, infatti, le spese complessive delle istituzioni europee si attestano a 137 miliardi di cui la quasi interezza indirizzata a investimenti e solo il 7 per cento destinato a spesa corrente per i costi di amministrazione. Il totale delle spese riportato nel bilancio italiano per il 2017 ammontava a più di 800 miliardi, comprese le risorse per i servizi pubblici come scuola e sanità, ma solo poco più di 50 miliardi erano destinati a spesa capitale, ossia investimenti.
La disparità emerge ancora più chiaramente quando si parla del Mezzogiorno. Come mostra il rapporto del 2018 dell’Agenzia nazionale per la coesione, i finanziamenti europei sono arrivati a rappresentare i due terzi di quelli complessivi che raggiungono il Sud Italia. Dunque, i fondi dell’Ue, che in teoria servirebbero a compensare e a recuperare il divario territoriale delle regioni più svantaggiate, hanno finito col sostituire i fondi ordinari della politica italiana che, sgravata così da un peso, arriva a spendere in conto capitale solo 239 euro per ogni cittadino meridionale, contro i 509 per gli abitanti delle regioni del Centro-Nord.
Allo stesso modo, i bassi investimenti dello stato italiano in istruzione, inferiori di quasi la metà rispetto agli altri paesi dell’Unione europea, beneficiano enormemente di quelli europei in istruzione e ricerca.
È dunque con uno sguardo più attento che emerge il reale contributo che riceviamo dall’Unione europea. Il fatto che le risorse siano destinate a investimenti implica crescita e benessere per il futuro, che sono difficilmente computabili in un mero calcolo di trasferimenti dall’Unione all’Italia. A questo punto una domanda spontanea che può sorgere è perché non bypassare l’Ue e investire queste risorse direttamente. Va dunque precisato che le decisioni europee di stanziamento delle risorse rientrano in piani pluriennali in cui una parte sostanziale di fondi è destinata ad attività i cui risultati si manifesteranno nel lungo periodo (per esempio, coesione territoriale, ambiente o istruzione). Queste risorse sono non disponibili per decisioni opportunistiche o di breve termine che molti politici nazionali potrebbero prendere nel tentativo di essere rieletti.
A tutto ciò, infine, si aggiungono le raccomandazioni Ue all’Italia e la partecipazione al mercato comune. Sebbene infatti non rientrino nelle risorse che l’Europa versa all’Italia, queste permettono lo sviluppo del nostro paese spingendo i governi a riforme profonde e strutturali e consentono alle nostre imprese di esportare, crescere e offrire lavoro.
In altre parole, quanto riceviamo (in termini di trasferimenti) non misura il reale valore di quanto ci guadagniamo.

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Il Punto

  1. Henri Schmit

    Bell’articolo! Si potrebbe togliere l’UK dai grafici, metterla fra parentesi, non solo perché esce, ma perché gode dai tempi della Thatcher di un regime di favore, rinegoziato da Cameron appena prima del referendum finito male malgrado i privilegi strappati all’UE troppo debole per dire no. Si potrebbe precisare che l’Italia è contributore netto solo dal quarto allargamento del 2004 (circa) in avanti. All’ultima frase dell’articolo aggiungerei l’enorme vantaggio dell’euro che ha procurato tassi bassi all’economia italiana, purtroppo non onorati – contrariamente ad altri paesi – con le dovute riforme a favore della produttività e della competitività, e parzialmente vanficati con l’ormai quasi correttamente compreso spread, riflesso delle politiche (fiscali e di riforma strutturale) domestiche.

  2. Massimo GIANNINI

    L’autore non considera che per potere spendere buona parte di quei fondi l’Italia deve allocare la propria parte (30-40%) di co-finanziamento degli enti locali. Inoltre il moltiplicatore di quella spesa e il raggiungimento degli obiettivi dei progetti co-finanziati è basso. Insomma è una partita di giro ovvero diamo soldi per riceverne meno e spenderli male dovendocene aggiungere altri.

  3. Jorge

    Tutto interessante, ma rimane da spiegare perché l’Italia, che ha ormai un PIL pro capite inferiore alla media UE, debba essere ancora un contributore netto, peraltro per un importo molto significativo.

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