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Politica estera gialloverde: flop su tutta la linea

Il contratto del “governo del cambiamento” aveva obiettivi ambiziosi in politica estera. Un anno dopo, non ne è stato raggiunto alcuno. I risultati migliori li ha ottenuti il ministro dell’Economia. E ora c’è da affrontare il rinnovo della Commissione Ue.

Il ruolo internazionale dell’Italia

Il contratto del “governo del cambiamento” aveva obiettivi ambiziosi in politica estera: una nuova governance europea, la rinegoziazione del Protocollo di Dublino, il ritorno agli obiettivi stabiliti dal Trattato di Maastricht nel 1992 e la fine delle sanzioni contro la Russia. Un anno dopo nessuno è stato raggiunto.

La crisi dei migranti ha reso necessario una rivisitazione del Sistema europeo di asilo e in generale delle regole di Dublino. Nel 2016, la Commissione europea ha suggerito alcuni meccanismi correttivi che entrerebbero in vigore laddove uno stato membro si trovi a far fronte a un numero spropositato di immigranti. La proposta, discussa in commissione dal Parlamento europeo, è in attesa di passare alla fase negoziale detta del Trilogo. Se l’Italia vuole influirvi, il ministro dell’Interno, Matteo Salvini, deve cominciare a partecipare ai consigli dei ministri Ue di settore, dove finora si è sempre fatto rappresentare dal sottosegretario Nicola Molteni. E sì che avrebbe anche motivo di vanto: nella seconda parte del 2018 è continuato il trend di riduzione degli sbarchi.

La questione dell’immigrazione è strettamente legata a quella del Mediterraneo e della Libia. Qui, l’Italia ha continuato a subire il ruolo della Francia, con una tensione che ricorda i tempi dell’infausta guerra del 2011. La conferenza di Palermo dell’11 e 12 novembre 2018 non è stata il successo che il governo sperava, a cominciare dal fatto che né Vladimir Putin né Donald Trump vi hanno partecipato.

Il che ci porta alle relazioni con gli Stati Uniti e la Russia. Salvini è stato rapido nel ricordare come sia stato uno dei pochi a sostenere Trump, come se questo bastasse ad assicurare un rapporto privilegiato con il mercuriale leader americano. A differenza di Giuseppe Conte, Giovanni Tria e Luigi Di Maio, poi, non si è ancora recato a Washington, nonostante le attese per una sua visita siano alte. Conte, a parte la pacca sulla spalla al G7 in Canada (giugno 2018), ha incassato ben poco dall’amministrazione Usa.

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Né l’Italia è riuscita a giocare quel ruolo di pontiere tra Washington e Mosca che auspicava. La bilaterale Conte-Putin a Mosca il 24 ottobre 2018 è stata preceduta dalle visite del ministro degli Esteri, Enzo Moavero, e del ministro degli Interni, Matteo Salvini, seguiti dal ministro delle Finanze, Giovanni Tria, a gennaio 2019. Chiaramente non è bastato. Già Silvio Berlusconi ai tempi di George W. Bush aveva invano provato a ricoprire quel ruolo. Né l’Italia è riuscita a bloccare il rinnovo delle sanzioni alla Russia, spina nel fianco del Nord-Est caro alla Lega, promesso dal contratto di governo, “la Russia rappresenta un partner economico e commerciale […] è necessario eliminare le sanzioni […] e collaborare con il presidente Vladimir Putin per la risoluzione di crisi regionali”. Nonostante la forte opposizione verbale del governo italiano, il 5 luglio 2018 e poi il 21 dicembre 2018, le sanzioni Ue sono state prolungate per ulteriori sei mesi.

I risultati ottenuti da Tria

La questione più spinosa è stata quella economica e in particolare la gestione del debito. Nel contratto, Lega–M5s affermavano che il governo avrebbe chiesto la piena attuazione degli obiettivi stabiliti nel 1992 con il Trattato di Maastricht: tornare al deficit al 3 per cento, abbandonando il successivo Fiscal compact e l’obiettivo del pareggio di bilancio. Tuttavia, essendo il Fiscal compact un accordo internazionale sottoscritto e ratificato nel 2013 da 25 paesi, ogni rinegoziazione andrebbe fatta a 25. Al povero Giovanni Tria non è rimasto che gestire un complesso gioco delle parti di annunci e di smentite su deficit e crescita, oltre che di bastoni e carote, sia domestiche che europee. Contro ogni previsione, è forse stato colui che più di ogni altro nel governo è riuscito a ottenere risultati dalla Ue. A differenza del ministro degli Esteri Moavero, la cui presenza è passata totalmente inosservata sullo scacchiere Ue internazionale, il ministro dell’Economia è riuscito a proiettare una voce di ragionevolezza.

E sempre a Tria – la cui prima missione da ministro è stata una settimana in Cina a fine agosto 2018 – si deve lo slancio iniziale per la firma del Memorandum di intesa sulla Road Belt Initiative, che tanto clamore ha causato a livello internazionale. Senza Ttp (Trans-Pacific Partnership) e senza Ttip (Transatlantic Trade and Investment Partnership) – affondati dai Repubblicani e da Trump – è tuttavia plausibile ipotizzare che qualunque altro governo italiano, con la possibile esclusione di Berlusconi, avrebbe peraltro firmato quell’accordo.

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Infine, la riforma della governance europea. La saga Brexit ha spinto il sostegno per l’integrazione europea al suo picco massimo dagli anni Novanta. Nessuno dei leader europei – inclusi Lega e Cinque stelle – che un tempo minacciavano uscite da euro e Unione Europea, ha oggi il coraggio di pronunciare idee simili. Brexit ha chiaramente mostrato come un’uscita dalla Ue sia una “missione impossibile”. E se lo è per il Regno Unito, che pur gode della rete di protezione del Commonwealth e del rapporto privilegiato con gli Usa, figuriamoci per gli altri. Che Londra esca dalla Ue o meno, vi è un’opportunità per gli altri paesi di guadagnare qualcosa in più. Tuttavia, l’influenza nella Ue non è direttamente collegata alla “grandezza” del paese, bensì alle coalizioni che si è in grado di forgiare. La grande lezione che Silvio Berlusconi apprese dopo la breve avventura del suo primo governo, fu la necessità di far parte di una famiglia politica europea di rilievo: i cinque anni di opposizione furono così dedicati a entrare nel Partito popolare europeo, operazione riuscita grazie alla paziente tessitura di Antonio Tajani.

L’eterogeneo gruppo cui si riferisce il governo Conte, formato da leader più estremisti di quelli al governo, non ha alcun valore aggiunto. Il rischio per il secondo anno dell’esecutivo gialloverde non è tanto non riuscire a cambiare la governance europea, quanto ottenere solo misere briciole al valzer delle poltrone europee che si aprirà con la cena informale dei capi di stato e di governo il prossimo 28 maggio.

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Tre passi verso l’Europa sociale

  1. Savino

    L’articolo non mi pare che citi la più colossale di tutte le gaffes commessa dall’esecutivo in carica in politica estera. Mi riferisco alla vicenda del Venezuela. Nel caos di una nazione in cui sono presenti almeno due milioni di connazionali di fatto (li facciamo anche votare), dapprima si pone un veto sul riconoscimento di Guaidò che imballa l’intera politica occidentale, con Di Battista e Di Stefano che si schierano apertamente per Maduro, per, poi, effettuare una silenziosa retromarcia, affermando che vogliamo pacifiche elezioni in area (poichè non possiamo dire altro). Sulla citata in articolo vicenda Brexit, manca ogni difesa sempre dell’interesse di migliaia di nostri connazionali in quel territorio. Per i rapporti con l’UE c’è solo da tenere in ordine i conti pubblici, anzichè festeggiare dal balcone il deficit. Sui migranti, lo Stato italiano deve passare dall’eterna emergenza ad una pianificazione dell’accoglienza e dell’integrazione, finanziata a livello comunitario.

    • Federiga

      Ho pensato se includere il Venezuela o meno poi ho deciso di limitarmi al confronto con quanto promesso sul contratto e quanto fatto.

    • oscar

      L’alleanza della Mogherini con Trump sul Venezuela invece la consideri la cosa giusta? Un altro Iraq, Afganistan, Vietnam, Corea del nord, con i rispettivi profughi, migliaia di morti? Ho trovato l’atteggiamento del nostro governo sul Venezuela encomiabile ed equilibrato, certamente per chi legge solo la repubblica ….

      • Henri Schmit

        Fa bene “Oscar” a ricordare l’altra faccia della medaglia, ma sbaglia a definire la posizione del governo italiano come equilibrata. Se per me la politica di appoggio del governo populista giallo verde al governo populista di Maduro è sbagliata, questo non mi fa chiudere gli occhi davanti alle provocazioni interessate, avide e prepotenti degli USA di Trump. Alla fine nuoce a uno come Guaidò che da eroe della liberal-democrazia rischia di diventare un burattino dell’imperialismo più grezzo. E l’Europa (non solo la Mogherini) si allinea ciecamente, senz’altro per fare blocco contro l’ingerenza (imperialista) della Russia. L’ideale di un ordine internazionale governato dai diritti e non solo dalla forza cruda si sta sgretolando. E l’Italia che dal 1949 segue opportunisticamente la politica del più forte, questo cambia poco.

  2. francesco

    E’ evidente che nuova governance europea, rinegoziazione del Protocollo di Dublino, il ritorno a obiettivi stabiliti dal Trattato del 1992 si debba aspettare il DOPO le elezioni europee, dato che mi sembra difficile pensare che tutto questo potessa avvenire prima un un parlamento europeo che cristallizza le elezioni di5 anni fa. Per la fine delle sanzioni contro la Russia stesso discorso: mi pare che l’atlantismo senza se e senza ma di questo parlamento non potesse generare nulla in tal senso. La stessa autrice parla dei risultati del governo in termini di riduzione degli sbarchi. A livello europeo tutto quel che potrà cambiare cambierà DOPO queste elezioni dato che è impossibile cambiasse prima. Insomma: quest’articolo di cosa parla???

  3. Henri Schmit

    Sono d’accordo con l’analisi. Sulla Libia il problema non è però un conflitto per interessi obiettivi con la F, ma il doppio gioco dell’Italia che ritiene che le conviene gestire gli interessi propri (legittimi) nel ruolo di proconsole degli Stati Uniti, ignorando gli sforzi immensi della F nel Sahel. Per quanto riguarda il ruolo ambito da pontiere fra USA e Russia (come Conte fra M5S e Lega), al rischio di irritare i partner europei, faccio notare che è una costante della politica estera del paese (…), ma clamorosamente fallimentare per l’Italia di cui in Europa più nessuno si fida. I progetti per riformare l’UE hanno lo stesso difetto: nessuno li condivide; su alcuni punti coincidono con le idee dei peggiori avversari dell’Italia (gli stati nazionalisti dell’est). Su altri punti è stata la F a promuovere riforme favorevoli agli interessi italiani, ma temo che i propositi entusiastici di Macron all’inizio del suo mandato siano ormai il lontano ricordo di un errore di valutazione che il presidente francese eviterà di ripetere. Quindi l’analisi è giusta ma la politica criticata è molto più in linea con il pregresso di quanto si vorrebbe ammettere.

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