Le domande di reddito di cittadinanza sono meno del previsto. A non riceverlo potrebbero essere famiglie che invece ne avrebbero grande bisogno, per lo più straniere. Perché a loro si richiede di rispettare due requisiti di dubbia legittimità.
Due condizioni per gli stranieri
Resta per ora incerto se il miliardo di avanzo sul reddito di cittadinanza prospettato dal vicepremier Luigi Di Maio esista davvero o no. Certo è che, secondo le ultime informazioni divulgate dalle fonti governative, le domande hanno raggiunto finora la cifra di 950 mila e sarebbero quindi di un terzo inferiore alle aspettative (stimate in 1.350.000). Può essere che nei prossimi mesi la situazione si modifichi, ma per il momento i dati sono questi. E portano perciò a chiedersi se alcuni paletti previsti dalla legge, in particolare quelli relativi agli stranieri, non rischino di escludere dalla misura una quota rilevante di famiglie in condizioni di povertà.
La legge prevede due limiti fondamentali in relazione allo status dei richiedenti: quello, valido per italiani e stranieri, della residenza in Italia per almeno dieci anni, di cui gli ultimi due continuativi; e quello, che rileva ovviamente per i soli stranieri, del permesso di lungo periodo. Per di più la comunicazione governativa, per esempio nella pubblicità via radio, ha aggravato la questione, parlando di “requisiti di cittadinanza” da rispettare.
Eppure, se è vero – come afferma l’Istat – che un terzo delle famiglie straniere vive sotto la soglia di povertà, i due limiti potrebbero aver svolto un ruolo molto rilevante nell’abbattimento del numero di domande. I dati finora forniti dall’Inps non ripartiscono i richiedenti per nazionalità, ma la stima iniziale avanzata dall’Istituto parlava di un 10 per cento di richiedenti stranieri. Se il dato fosse confermato, comproverebbe quanto i due requisiti abbiano danneggiato gli stranieri: sono sì quasi il 10 per cento dei residenti, ma – stante il dato sulla povertà – dovrebbero collocarsi in percentuale ben maggiore nelle fasce di reddito più basse e dunque rappresentare necessariamente una quota più elevata dei richiedenti.
I criteri dell’uguaglianza e ragionevolezza
Da più parti si sostiene che quei due requisiti siano di dubbia legittimità sia in relazione alla carta costituzionale, sia in relazione alle norme Ue. Il primo requisito perché costituisce un grave ostacolo alla mobilità, anche dei cittadini dell’Unione, in contrasto con la consolidata giurisprudenza della Corte Ue. La Corte ha infatti stabilito che se è possibile limitare gli interventi di welfare considerando il requisito della residenza, questo non può però essere sproporzionato né “troppo esclusivo” perché altrimenti rischia di favorire l’immobilità delle persone più che rispondere al loro bisogno. In altri termini, il nostro governo favorisce i poveri immobili, radicati sul territorio, a danno di quelli che si danno da fare muovendosi per cercare migliori opportunità.
Il secondo requisito appare altrettanto critico perché ripropone il circolo vizioso tra un titolo di soggiorno come il permesso di lungo periodo – che richiede (ai sensi dell’articolo 9 Testo unico immigrazione) un reddito minimo – e una prestazione che, per essere assegnata, richiede di non avere quel reddito minimo.
In numerose sentenze, la Corte Costituzionale ha censurato questo circolo vizioso ritenendolo in contrasto sia con il divieto di qualsiasi restrizione allorché la prestazione afferisca a diritti essenziali della persona, sia con il limite della “ragionevole correlabilità” (tra finalità della prestazione e limitazione) che deve presiedere a qualsiasi vincolo nell’accesso al welfare, anche quando non siano in gioco diritti essenziali. Qui il problema consiste dunque nel varare misure contro la povertà che in realtà discriminano tra poveri, tra persone che affrontano i medesimi problemi, se non più gravi. Non a caso, pochi giorni fa la Corte d’Appello di Milano ha dichiarato illegittimo il requisito di cinque anni di residenza in Lombardia per accedere al bonus bebé.
Recentemente la Corte Costituzionale – con una sentenza molto controversa, tanto da aver registrato l’opinione dissenziente del giudice relatore (sentenza 50/19) – sembra aver attenuato la critica al “circolo vizioso” ammettendo, in tema di assegno sociale per i soggetti con oltre 66 anni, che il requisito del permesso di lungo periodo possa avere un senso per coloro che nel corso della vita maturano un reddito minimo (che sarebbe sintomo di adeguato inserimento sociale) e poi in tarda età lo perdono, giustificando l’intervento dello stato. Si tratta di una tesi assai discutibile, ma che in ogni caso può essere riferita esclusivamente a prestazioni esterne al nucleo essenziale (e tale non può considerarsi il reddito di cittadinanza, finalizzato a garantire un livello di sostentamento minimo) e comunque a prestazioni che giungono al momento finale della vita lavorativa, non certo per una misura concepita soprattutto per la fase iniziale della biografia professionale, con l’intento di andare incontro proprio alle difficoltà di inserimento nel mercato del lavoro.
Sullo sfondo resta il tema di una Costituzione “lavorista”, che ha scelto di tutelare il povero in quanto lavoratore (articolo 36) o in quanto inabile (articolo 38) e che sembra non contenere una norma sul contrasto alla povertà in quanto tale. Ma che certamente è sensibile e vincolante nel riconoscere uno ius existentiae in termini di uguaglianza (articoli 2 e 3) indipendentemente dalla nazionalità e dalla mobilità delle persone. Di conseguenza, qualsiasi intervento di welfare deve soggiacere ai canoni di uguaglianza e di ragionevolezza. I due requisiti dell’anzianità di residenza e del permesso di lungo soggiorno non sembrano davvero in grado di superare questo vaglio.
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Giacomo
La costituzione (articolo 3) dice che tutti i cittadini sono uguali di fronte alla legge, non che tutti gli uomini sono uguali di fronte alla legge. Possono esserci casi in cui gli stranieri non residenti vengono equiparati ai cittadini, ma non possiamo estendere troppo il principo di uguaglianza. Altrimenti lo stato italiano dovrebbe riconoscere i suoi diritti a tutti gli uomini del pianeta, cosa che sarebbe bella ma è ampiamente irrealizzabile.
Roberto Bellei
A mio parere quando s’invoca la Costituzione per evidenziare eventuali disparità di trattamento si compie un errore basilare. Quello di considerare “cittadini” tutti quelli che si trovano per un periodo più o meno breve nel nostro Paese mentre le norme si riferiscono implicitamente ai Cittadini Italiani cui è rivolta la Costituzione varata da cittadini italiani eletti da cittadini italiani.
Henri Schmit
Sono d’accordo. È legittimo ostacolare abusi da parte di stranieri che fanno “wellfare-shopping”, ma per il resto le condizioni dovrebbero essere uguali a quelle dei Cittadini. L’Italia rischia meno di altri paesi che qualcuno faccia il viaggio dall’Africa PER GODERE dell’assistenza sociali. Nell’UE la FRA (Vienna) monitora il rispetto dei diritti fondamentali negli stati membri. Per due ragioni il Lussemburgo può servire da modello: le garanzie sociali vi sono fra le più generose e la quota degli stranieri è ormai al 50%, un vero laboratorio del futuro. Esistono movimenti politici di difesa dei privilegi dei locali, ma le direttive UE e i pareri del Consiglio d’Europa vi sono presi sul serio. Chiunque lavora regolarmente al Lussemburgo è automaticamente coperto da tutte le garanzie sociali, senza condizioni di tempo. I rifugiati (senza lavoro) godono di ulteriori garanzie. Le condizioni discusse nell’articolo sono “salvinate”, o “porcherie” come si diceva una volta. In numerose materie la legislazione italiana è piena di forzature e trucchetti del genere. Quello che però mi spaventa più di tutto è il rinvio ossequioso alla Corte costituzionale. Il culto del giuridico formale è la confessione di un paese dove non c’è più nessuno che sia credibile per dare giudizi completi, coerenti, politici e morali. Tutto viene formalizzato al massimo, con il risultato che i giudici supremi sono il vero Leviatano che tiene in pugno le altre istituzioni, screditate, e l’intero paese.
Mariia
Buona sera, mi è piaciuto il suo articolo ma, ha dimenticato altri due requisiti:
Dichiarazione redditi del proprio paese.
(Hanno detto vrebbero pubblicato la lista dei paesi esonerati)… non se sa che fine ha fatto sta lista.
2. Stato di famiglia del proprio paese.
Io sono anadata al consolato e ho speso 100 euro però, loro fanno solo autodichiarazione firmata da ambasciata e notaio… solo che poi ho letto che non accettano autodichiarazioni. 🙁
Io sono 21 anni che sono in italia ne avevo 10 quando sono arrivata, tornata 2 volte per 30 giorni a v. E mai più tornata, secondo lei cosa posso avere io li? Che tristezza!!!
Gaetano Proto
Aggiornamento al 9 luglio: non solo il decreto attuativo sui Paesi i cui cittadini sono esonerati dalla presentazione della documentazione integrativa non è uscito, ma “nelle more dell’emanazione” l’INPS ha sospeso l’istruttoria di tutte le domande presentate a partire dal mese di aprile 2019 da parte di richiedenti extracomunitari (circolare n. 100/2019 del 5 luglio). Dato che la circolare non dice diversamente, si deve intendere che il blocco coinvolge anche i rifugiati politici, nonostante questi per ovvie ragioni siano esentati dall’obbligo di richiedere la documentazione integrativa al Paese da cui sono fuggiti (art. 2, comma 1-ter, della Legge 26/2019).