Lavoce.info

Dal reddito di cittadinanza un secondo spread per l’Italia*

Il reddito di cittadinanza provoca un aumento strutturale del tasso di disoccupazione, perché induce una partecipazione virtuale al mercato del lavoro. Questo ulteriore difetto della misura è a tutti gli effetti un secondo spread a carico del nostro paese.

Perché aumentano i disoccupati

A chi sa interpretarla, la tavola I.2 del Documento di economia e finanza 2019, deliberato dal governo il 9 aprile e commentato da Francesco Daveri, annuncia una importante novità: oltre a quello sul tasso d’interesse (rispetto alla Germania), a partire da quest’anno l’Italia ha un secondo spread a suo carico, quello sul tasso di disoccupazione (rispetto a un paese con un normale reddito minimo).

Infatti, la tavola, che illustra le principali variabili del “quadro macroeconomico programmatico”, indica un differenziale imputabile al reddito di cittadinanza pari a mezzo punto percentuale in più quest’anno e addirittura a un punto e mezzo e oltre nel triennio successivo. Di conseguenza, per tutto il triennio 2019-2021 il tasso di disoccupazione è programmato a livelli più alti rispetto a quello dell’anno scorso (quando era al 10,6 per cento, dopo quattro anni consecutivi di riduzione), nonostante la crescita del Pil indicata allo 0,8 per cento sia per il 2020 sia per il 2021. Al netto di questo “effetto dell’attivazione di nuove forze di lavoro” (così lo definisce il Def) causato dal reddito di cittadinanza, il tasso di disoccupazione sarebbe già in calo a partire da quest’anno e per la prima volta dal 2012 scenderebbe sotto il 9 per cento nel 2022: per quell’anno è prevista invece una minuscola riduzione di 0,2 punti percentuali del tasso di disoccupazione al lordo dello spread.

Gli obblighi del patto per il lavoro

Il nuovo spread è probabilmente frutto dell’obbligo di sottoscrivere il “patto per il lavoro”, che riguarda non solo il titolare del reddito di cittadinanza, ma tutti i componenti maggiorenni del nucleo familiare (esclusi ovviamente anziani e pensionati) che non hanno un lavoro e non frequentano corsi di studio o di formazione. Per fare un esempio concreto, in seguito al reddito di cittadinanza una famiglia tipo di tre persone in difficoltà (marito disoccupato, moglie casalinga e figlio maggiorenne “Neet” – cioè appunto non impegnato nello studio, né nel lavoro né nella formazione) passerebbe da un tasso di attività del 33 per cento (il marito alla ricerca di un lavoro) a uno del 100 per cento, se oltre a cercare attivamente lavoro nelle ultime quattro settimane (primo requisito statistico, soddisfatto per definizione da chi stipula il patto), tutti i componenti si dichiarano disponibili a iniziare un lavoro entro due settimane (secondo requisito).

Leggi anche:  Quanto incide il contratto di lavoro nelle scelte di fecondità

È utile ricordare che nelle stime presentate dall’Istat a marzo in sede di audizione i futuri sottoscrittori del patto con qualifica “casalinga” (373 mila), che potenzialmente passerebbero tutti dallo status di inattivi a quello di attivi, sono al secondo posto dopo quelli che si autodefiniscono “disoccupato” in sede di intervista (492 mila, su un totale di individui beneficiari pari a 2,7 milioni circa, previsione che appare realistica alla luce delle domande pervenute a oggi).

Uno spread così elevato e costante per il triennio 2020-2022 equivale a un’ammissione implicita che nella maggior parte dei casi il complicato congegno del reddito di cittadinanza non servirà a scovare un lavoro, che in molte situazioni semplicemente non c’è, ma solo a ricevere un sussidio in cambio di una partecipazione virtuale al mercato del lavoro.

La logica di “due obiettivi e uno strumento” (parole del presidente Inps Pasquale Tridico), dove i due obiettivi sono contrasto alla povertà e attivazione nel mercato del lavoro, si rivela quindi fallimentare: oltre a produrre uno spreco di risorse investite improduttivamente sul secondo obiettivo, genererà la “disgrazia statistica” di un tasso di disoccupazione più alto di ben un punto e mezzo (il nuovo spread).

È il risultato dell’ennesimo tentativo di reinventare le regole del gioco ignorando i meccanismi che garantiscono il funzionamento dell’economia e della politica economica: risale al 1952 la regola di Jan Tinbergen (premio Nobel nel 1969), secondo cui la condizione necessaria perché un problema di politica economica abbia soluzione univoca è che il numero delle variabili obiettivo sia uguale al numero delle variabili strumento. Spetterà verosimilmente al prossimo governo modificare il provvedimento in modo da ricondurlo a un normale e sperimentato reddito minimo, dedicato in prima istanza a contrastare efficacemente la povertà.

* Le opinioni espresse in questo articolo non coinvolgono l’istituzione di appartenenza.

Lavoce è di tutti: sostienila!

Lavoce.info non ospita pubblicità e, a differenza di molti altri siti di informazione, l’accesso ai nostri articoli è completamente gratuito. L’impegno dei redattori è volontario, ma le donazioni sono fondamentali per sostenere i costi del nostro sito. Il tuo contributo rafforzerebbe la nostra indipendenza e ci aiuterebbe a migliorare la nostra offerta di informazione libera, professionale e gratuita. Grazie del tuo aiuto!

Leggi anche:  L'affaire produttività*

Precedente

End of waste: e dai rifiuti nascono beni

Successivo

Un anno di scuola con Lega e M5s in cattedra

10 commenti

  1. Savino

    Vi è di più! Col reddito di cittadinanza non si può più parlare, nel medio periodo, di “scoraggiati che non cercano più lavoro”, in quanto, queste persone, potrebbero essere state soddisfatte dall’accesso al reddito come alternativa al lavoro o le loro pratiche potrebbero essere considerate smaltite dai CPI una volta assodato dai navigator che il lavoro non c’è ad alcuna latitudine a livello nazionale e che sussiste, invece, la necessità del sussidio.

  2. Fernando Di Nicola

    Concordo sul fatto che della seconda parte (ed obiettivo) del reddito di cittadinanza – il workfare – si poteva fare a meno. Tuttavia è mia opinione che le numerose e forti critiche di segno opposto giunte in fase di costruzione dell’intervento abbiano spinto il Governo ad ampliare a dismisura questa componente, con meccanismi farraginosi e temo inefficaci. Probabilmente sarebbe bastato essere meno generosi con l’assegno (e più attenti alle elevate aliquote marginali implicite, con scoraggiamento di offerta di lavoro ed emersione) per liberarsi di molti meccanismi di controllo amministrativo, riservando le strategie di workfare ad altri strumenti.

  3. Norbert

    Vedo un altro paradosso. Che cosa sarà di coloro che non hanno i requisiti per il RDC ma disoccupati anche da tempo e seriamente in cerca di lavoro? Chi e perchè si dovrebbe interessarsi d’ufficio di loro? I nuovi navigatori ?

  4. Caro Gaetano, sollevi un punto interessante ma dimentichi di dire che un aumento del tasso di disoccupazione dopo una lunga recessione come quella che c’e’ stata in Italia, dovrebbe essere letto come fenomeno positivo se risultasse da una riduzione dell’inattivita’. Ben venga il reddito di cittadinanza se in grado di far riattivare un po’ di quelle forze di lavoro potenziali che nel nostro paese hanno toccato livelli del tutto anomali rispetto a qualsiasi altro paese sviluppato! Purtroppo, come certo avrai notato, di questo effetto ancora non vi e’ traccia nel dato della disoccupazione di aprile, mentre in Italia continuiamo ad avere un numero allarmante di persone in eta’ lavorativa che vorrebbero lavorare ma che neppure cercano lavoro: piu’ di 2.8 milioni nell’ultimo trimestre dell’anno scorso! La riattivazione delle forze di lavoro potenziali nel nostro paese merita di occupare il primo posto nell’agenda economica del governo e meccanismi analoghi a quello introdotto con il reddito di cittadinanza sono presenti da tempo nei principali paesi europei, Germania per prima, dove non a caso spesso si confonde il concetto di unemployment rate (3.2% per la Germania) con quello di unemployment claims rate ( 5.0%).

    • Gaetano Proto

      Dopo una lunga recessione, in genere prevale l’effetto della riduzione del tasso di disoccupazione, non del suo aumento. E’ esattamente quello che è successo in Italia, dove alla crescita di 2,3 milioni di disoccupati e inattivi del periodo di crisi 2008-2014, dovuta soprattutto ai primi, ha fatto seguito una riduzione di 655 mila durante la ripresa 2015-2017, dovuta a entrambe le componenti (fonte: “Il mercato del lavoro 2018. Verso una lettura integrata”, pag. 24). Quello che si desume dalla tavola del Def è che la riattivazione degli inattivi è virtuale e corrisponde all’obbligo formale di sottoscrivere il “patto per il lavoro” introdotto dal Rdc, per cui si traduce in un aumento del tasso di disoccupazione. Mi sembra curioso invertire la priorità degli obiettivi delle politiche del lavoro: la disoccupazione resta al primo posto, anche perché se non cala non è possibile motivare gli inattivi a cercare attivamente lavoro, al netto degli obblighi formali.

      • Dopo una lunga recessione, i cosiddetti inoccupati scoraggiati, ovvero quelli che smettono di cercare un lavoro in quanto hanno perso la speranza di trovarne uno, escono dalle forze di lavoro. La rilevanza che questo fenomeno ha assunto in Italia porta a sottovalutare il tasso effettivo di inutilizzo della capacita’ lavorativa presente, quello che andrebbe invece misurato utilizzando il tasso che negli USA viene chiamato U-6 o “underemployment rate” e che include a numeratore e a denominatore del rapporto le cosiddette forze di lavoro potenziali. U-6 in Italia ha superato il 26% nel 2015 e si attesta attualmente sopra il 22%! Questo significa che l’Italia utilizza solo quattro quinti della sua capacita’ lavorativa. In Germania U-6 e’ invece solo il 7.6%. Al riprendere dell’attivita’ economica si assiste spesso al fenomeno della crescita contemporanea di occupazione e disoccupazione, in quanto i disoccupati scoraggiati, vedendo nuove opportunita’ di lavoro sul mercato, riprendono a cercare lavoro. La scommessa del reddito di cittadinanza nelle intenzioni del governo mi sembra sia stata anche questa. Tentare di innescare un nuovo interesse da parte degli inattivi (ed in particolare dei disoccupati scoraggiati) nel mercato del lavoro, nella speranza che in base al principio “chi cerca trova” o dell'”aiutati che il governo ti aiuta” si possa contribuire ad una ripresa del lavoro e dell’economia. Tutto sommato non mi sembra un’intenzione cosi’ astrusa!

        • Gaetano Proto

          Si ha infatti l’impressione che questo governo abbia avuto forti difficoltà a identificare correttamente la fase ciclica in cui si trovava e si sarebbe trovato il paese. Dopo avere dipinto nella campagna elettorale per le elezioni dell’anno scorso un paese in crisi che aveva bisogno dell’intervento salvifico di un nuovo governo, mentre in realtà il paese era uscito da anni dalla recessione (con le abituali luci e ombre), si è trovato dopo pochi mesi a gestire un rallentamento dell’attività economica che si sarebbe potuto prevedere e contrastare meglio. La reazione iniziale è stata quella di attribuire il rallentamento a una non meglio specificata “onda lunga” del precedente governo, prevedendo “magnifiche sorti” per il 2020 (ci ricordiamo una previsione di crescita all’1.5% che solo l’Europa ci ha impedito di mettere nero su bianco). Da qualche mese a questa parte, almeno nella parte più attrezzata del governo, si è invece preso atto che la crescita sarà bassa, anche se per ovvie ragioni si evita di dire quanta parte di mancata ripresa dipenda dall’avere dato la priorità a provvedimenti con un moltiplicatore basso (reddito di cittadinanza) o addirittura nullo (quota 100). Riguardo alla Germania, il tentativo di prendere ispirazione da un paese così diverso in materie come il mercato del lavoro e le politiche attive del lavoro è tanto fuorviante quanto frequente.

  5. Mauro

    Sono confuso, per anni il problema era che la disoccupazione ufficiale era falsata dagli scoraggiati e dalla bassa partecipazione delle donne al mercato del lavoro, ora che i dati rappresentano meglio la realtà, il dati sono falsati?

    • Gaetano Proto

      Le interazioni tra tasso di attività e tasso di disoccupazione non sono univoche, ma in generale si osserva che i fenomeni di bassa partecipazione e di scoraggiamento colpiscono soprattutto i segmenti più deboli della forza lavoro (giovani, donne, residenti nel Meridione) che soffrono tassi di disoccupazione più alti. Che un’alta disoccupazione possa indurre bassa partecipazione fa parte del gioco, e se si leggono insieme i due fenomeni diventa superfluo, se non fuorviante, parlare di tasso di disoccupazione “falsato”. Detto questo, l’aumento artificiale del tasso di attività dovuto agli obblighi connessi con il Rdc, che si traduce pari pari in un aumento del tasso di disoccupazione dell’ordine di un punto e mezzo per gli anni a venire, non è un’operazione di verità, ma l’ammissione che lo strumento è stato caricato di obiettivi impropri. Un’ammissione ufficiale, visto che è stata messa nero su bianco in un documento presentato dal governo come il Def.

  6. Riccardo

    Altro fenomeno non voluto del cosiddetto RdC è lo scoraggiamento del risparmio per le fasce deboli della popolazione.
    Il requisito di 5000€ max nel conto corrente di fatto porterà le persone che hanno lavori precari a non risparmiare neanche un euro per non rischiare di restare escluse dall’RdC in caso di disoccupazione.
    In questo modo si arriva all’effetto paradossale che per una persona con 10.000€ in banca e che sa di perdere il lavoro alla fine del mese sarebbe ottimale spendere 5000€ dei suoi risparmi per una crociera ai caraibi.

Lascia un commento

Non vengono pubblicati i commenti che contengono volgarità, termini offensivi, espressioni diffamatorie, espressioni razziste, sessiste, omofobiche o violente. Non vengono pubblicati gli indirizzi web inseriti a scopo promozionale. Invitiamo inoltre i lettori a firmare i propri commenti con nome e cognome.

Powered by WordPress & Theme by Anders Norén