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La crescita italiana passa per le aggregazioni di imprese

La frammentazione dell’industria italiana, un tempo considerata come un fattore positivo di flessibilità, costituisce un ostacolo strutturale alla crescita. L’aggregazione d’imprese complementari è dunque una “medicina” necessaria per il sistema produttivo.

Perché l’Italia non cresce

L’economia italiana è in stallo da oltre dieci anni, con una crescita sistematicamente inferiore a quella degli altri paesi europei. Le previsioni mostrano una continuazione di questa tendenza.

Figura 1

L’industria italiana è caratterizzata da un livello di frammentazione tra i più alti d’Europa: il 50 per cento del valore aggiunto deriva da imprese con meno di 50 addetti. Il peso preponderante delle piccole aziende, pur rappresentando un segno di spirito imprenditoriale, costituisce una barriera strutturale alla loro crescita e quindi a quella dell’intera economia. Vediamo perché.

Figura 2

 

L’azienda più grande può investire maggiormente nei fattori che generano crescita: ricerca e sviluppo, sistemi di produzione, logistica, presenza all’estero, marketing, risorse qualificate e così via. La crescita, a sua volta, potrà aumentare i margini, spostare il break-even e creare la capacità di investire ulteriormente, innescando una “spirale” di crescita continua. Al contrario, le aziende più piccole possono investire in maniera ridotta e possono quindi crescere solo marginalmente.

I dati comparati dell’economia italiana rispetto agli altri paesi industriali riflettono a livello aggregato questo fenomeno, in termini di minore spesa rispetto al Pil negli elementi essenziali per la crescita. Per esempio, l’Italia in proporzione al Pil investe in R&S nettamente meno degli altri paesi industriali, con conseguenze negative per l’“high-tech” italiano, come già verificatosi nei settori aerospaziale, treni, nucleare, elettronica, farmaceutica, robotica, chimica avanzata.

Figura 3

La frammentazione dell’industria costituisce anche un limite all’internazionalizzazione. Le piccole aziende generalmente non possono permettersi una presenza diretta all’estero. La stessa logica vale anche per le spese di marketing e pubblicità.

Gli interventi dei recenti governi per aiutare le Pmi – contributi a ricerca e investimenti produttivi, sgravi fiscali, fondi per lo sviluppo – non mutano la situazione strutturale.

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Le aggregazioni necessarie

L’analisi microeconomica indica dunque che la crescita della nostra economia può essere innescata soltanto da meccanismi di aggregazione delle imprese nei settori dominati dalle Pmi, creando la massa critica necessaria per la crescita. In particolare, tra le diverse tipologie di aggregazione, la fusione e acquisizione (“M&A”) orizzontale (cioè tra aziende simili) è, per definizione, il miglior metodo per creare massa critica (sinergie di mercato, prodotto e processo).

Figura 4

Il “M&A verticale”, cioè tra clienti e fornitori, non crea economie di scala, ma può fornire riduzioni dei costi o sbocchi commerciali, mentre le acquisizioni puramente “finanziarie” da parte di conglomerati diversificati non offrono sinergie operative immediate.

Esempi illustri di fusioni e acquisizioni orizzontali sono il gruppo Lvmh nel settore della moda, Siemens-Bosch negli elettrodomestici, Fiat-Chrysler, Cooper-Bmw e Porsche-VW nell’auto, il gruppo Banca Intesa e molti altri.

Ultimamente gli istituti di private equity sono diventati importanti attori nel realizzare operazioni di M&A orizzontali, con la strategia del “Buy & Build” (“compra e costruisci”). Questa consiste nell’acquisire una prima azienda (chiamata “piattaforma”), cui vengono aggregate aziende con caratteristiche complementari del medesimo settore (“Add-Ons”), creando sinergie, massa critica, crescita e quindi valore.

Figura 5

In Italia negli ultimi anni il numero delle operazioni di M&A è cresciuto notevolmente, ma è ancora marginale rispetto al numero delle Pmi. La “mano invisibile” di Adam Smith non basta. Per uscire dall’impasse della stagnazione cronica dell’economia, l’Italia deve accelerare drasticamente il ritmo di aggregazione delle Pmi, tramite incentivi fiscali, finanza agevolata, informazione, supporto tecnico, legale e contabile associati alle transazioni.

In una prospettiva più ampia, la frammentazione dell’industria è un problema anche in ambito europeo in relazione alla concorrenza internazionale del Nord America, della Cina e in certa misura anche del Giappone e Corea. La sfida è quella di creare gruppi di aziende integrate a livello europeo con il supporto delle istituzioni di Bruxelles. L’Unione Europea è stata creata anche per questo.

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13 commenti

  1. Alessandro

    Un articolo che è come una goccia nel deserto. Continua invece inarrestabile la propaganda su quanto sia più bello “il piccolo”, nostra fonte di flessibilità (mi pare di averlo letto ieri da qualche parte).
    Alessandro

  2. sabrina fantauzzi

    molto interessante la ricerca. tuttavia credo che le piccole e medie imprese italiane, proprio per la loro dimensione, siano quelle che più delle altre rispondono ai criteri di unicità creativa che contraddistingue il made in italy, declinato in tutti i modi. Poi un’osservazione metodologica: parlare della necessità di fusione delle pmi e poi citare casi come quelli della FCA – Chrysler è un controsenso logico.

    • Luca Valerio

      Gentile sig.ra Fantauzzi, gli esempi di fusioni fra grandi imprese nell’articolo non invalidano la tesi. Primo, l’articolo non parla solo di PMI ma di dimensione media delle imprese in generale (e la FIAT fra i produttori automobilistici è davvero piccola); solo nella seconda metà dell’articolo si inizia a citare le PMI che, sicuramente, sono una parte essenziale del problema italiano. Secondo, gli esempi citati sono chiaramente scelti per essere comprensibili al lettore: in quella parte dell’articolo non si stanno facendo esempi di imprese troppo piccole, ma si cerca di spiegare la differenza fra merger verticali e orizzontali, e poiché il lettore non conoscerà piccole imprese locali si fanno esempi “illustri” (non a caso si usa questa parola) che saranno chiaramente di imprese grandi e note e non solo italiane.

      • sabrina fantauzzi

        grazie della Sua risposta, professore.

      • giorgio moise

        Dottor Valerio, la Sua risposta è migliore di quella che avrebbe mai potuto formulare l’autore dell’articolo!! Giorgio Moise

  3. Emilio Roncoroni

    Pienamente d’accordo sulla necessità di superare il nanismo delle imprese italiane. Attenzione ai dati forniti ed alle correlazioni. Polonia a UK sono i paesi con la quota di PIL più bassa prodotta dalle PMI ma sono anche colocati attorno a Italia rispetto al rapporto Spese R&D e PIL. Quindi non emergerebbe una correlazione molto forte tra dimensione delle imprese e spese R&D. Queste ultime mi pare che sia più correlate alla specializzazione settoriale

  4. Henri Schmit

    Non dubito della fondatezza della tesi sostenuta, ampiamente condivisa. La questione riguarda quindi la leva per realizzare l’obiettivo dell’aggregazione. Incentivi come quelli del penultimo comma non nuocciono, ma non sono, temo, sufficienti. La modello imprenditoriale frammentato è dovuto alle difficoltà di prevedere il futuro, all’incertezza e alla mutabilità delle condizioni giuridiche e fiscali (…). Il più grande progresso compiuto negli ultimi 30 anni è quello di una maggiore stabilità delle condizioni finanziarie, dei tassi d’interesse peraltro bassi e del cambio fisso nell’eurozona, senza sbalzi eccessivo con l’esterno. Ma c’è chi vorrebbe rinunciare anche a questo importante vantaggio procurato dall’adesione all’euro per tornare non si capisce a quale autarchia confusionale, illusoria, ingannevole e autolesiva.

  5. Maria Cristina Migliore

    Continuo il ragionamento di Sabrina, che ha lasciato un commento prima di me. E se fosse che la frammentazione del nostro sistema economico fosse connesso al made in Italy e al nostro stile di vita e di consumo più orientato alla qualità? In fondo non tutte le imprese devono esportare beni o servizi. Esiste anche la domanda interna. Credo che avremmo bisogno di fare più ricerca economica che sappia collegare anche i temi sociali, antropologici, culturali e storici per spiegare la frammentazione aziendale italiana e per cercare una via italiana allo sviluppo per stare meglio tutte e tutti.

    • sabrina fantauzzi

      Grazie Cristina, trovo la Sua tesi molto convincente. Credo che ciò che gli altri giudicano ‘nanismo’, ovvero le dimensioni ridotte del nostro tessuto industriale rispetto al gigantismo di Paesi di dimensioni molto più grandi di noi, sia in realtà la nostra forza in termini di qualità. Il made in italy non sarebbe tale e non lo sarebbe mai diventato se il tessuto imprenditoriale avesse puntato sulle macrodimensioni.

  6. Giulio Mulas

    Sono sempre stato convinto di questaver necessità di avere in Italia un tessuto di prima che crescano. Già alla fine degli anni ’70 si teorizzava la necessità di favorire le aggregazioni di imprese complementari o anche dello stesso distretto affinché inizialmente condividessero servizi in comune (io ho diretto un Consorzio Export per diversi anni) e poi si arrivasse ad una crescita che consentisse economie di scala, ma i limiti per la crescita spesso sono anche culturali (una generazione e di imprenditori poco scolarizzata e “padronale e familiare” nella quale il capo non si fida nemmeno dei propri figli), e finanziaria (un sistema bancario asfittico, pigro, protetto e clientelare che non fa crescere le aziende e non comprende le esigenze di marketing, non riconosce come garanzia altro che immobili e macchine e per niente gli investimenti in R&D, logistica, distribuzione).

  7. mauro zannarini

    Forse se le varie Associazioni ( PMI, CNA, Confartigianato ) si decidessero di fare impresa, riunendo in federazione le varie Aziende similari, si potrebbero creare i grandi numeri per affrontare i mercati, e volendo mantenere la creatività del piccolo e bello.

  8. Lukas

    Non dimentichiamo la quotazione in Borsa che permette di raccogliere le risorse per la crescita per linee esterne mantenendo l’indipendenza dell’impresa.

  9. I 5 stelle lo predicano da sempre. Serve un unico soggetto giuridico per i commercianti del centro cittadino, ad esempio. Tutti gli altri, invece, farebbero bene a studiare il marketing. L’Italia è in crisi perché le aziende vogliono vendere come 30 anni fa. Vergogna.

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