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Brexit, ultima chiamata per evitare il “no deal”

Boris Johnson è il favorito per la leadership del partito conservatore. Dopo cosa succederà? Difficile che si arrivi a elezioni generali perché tory e laburisti ne uscirebbero sconfitti. E la Brexit si farà sulla base dell’accordo siglato da Theresa May.

Più brexitisti di Farage

Con l’umiliante fine della residenza di Theresa May al numero 10 di Downing Street, si è aperta la gara per succederle. I deputati tory hanno scelto due candidati: l’ex-sindaco di Londra ed ex-ministro degli Esteri Boris Johnson, un irriducibile bugiardo, capace quanto Donald Trump e Matteo Salvini nel far leva sui sentimenti più beceri e vili di una parte sostanziale della popolazione, e Jeremy Hunt, detestato ministro della Sanità e poi grigio successore di Johnson al ministero degli Esteri. La scelta finale spetta ora agli iscritti al partito. Sono 160 mila, di età mediana vicina ai 60, ferocemente anti-europei, anche per le infiltrazioni coordinate da gruppi anti-europei, al punto che il 59 per cento ha votato per il Brexit party alle recenti elezioni europee. Vogliono la Brexit a ogni costo: disoccupazione, seri danni economici, la fine del Regno Unito, con l’annessione dell’Irlanda del Nord all’Eire e l’indipendenza scozzese, e perfino la distruzione del loro stesso partito non contano nulla di fronte all’uscita dall’odiata Ue.

Oltre a far promesse che sanno di non poter mantenere – come riduzioni delle tasse e aumento della spesa finanziate, si suppone, dall’albero degli zecchini d’oro, cose a cui nemmeno Madam May faceva finta di credere – i due candidati sono impegnati in una furiosa corsa verso un populismo ogni giorno più fanatico. Il favorito è Johnson, in parte perché molti iscritti non perdonano a Hunt la campagna anti-Brexit nel referendum del 2016. Così, oggi l’ex ministro della Sanità, è ridotto a promettere churchilliane “lacrime, sudore e sangue”, necessarie non per salvare il paese dal giogo del nazismo, ma per liberarlo dall’oppressione di Bruxelles: “sì”, ha dichiarato, “guarderei negli occhi chi ha perso il posto di lavoro perché la Nissan ha chiuso la fabbrica o un imprenditore la cui impresa è fallita a causa delle tariffe e dei ritardi imposti dalla Brexit, e con la morte nel cuore direi loro che il sacrificio è giustificato”. Johnson può permettersi di essere più sintetico e meno diplomatico: “fuck business”, ha risposto a chi gli ha fatto notare che, oltre al Financial Times, anche le omologhe britanniche di Confindustria, Confcommercio e Confagricoltura sono unanimi nell’opposizione alla Brexit.

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Cosa succederà? Sembra certo che Boris Johnson vincerà la gara per diventare leader dei tory. Anche se qualche costituzionalista sostiene il contrario, verrà anche incaricato di formare il governo. La costituzione inglese non prevede un voto formale di fiducia ed entrambi i candidati non hanno escluso di prorogare (non convocare) il parlamento oltre il 31 ottobre, facendo così scattare automaticamente la Brexit. Giurata fedeltà alla regina, i ministri comincerebbero a lavorare in agosto, il parlamento si riunirebbe solo in novembre, con la Brexit (senza accordo) un fatto ormai compiuto. Teoricamente è possibile, ma ciò creerebbe un terremoto costituzionale, e deputati ed ex-ministri giurano che convocherebbero il parlamento fuori dalla Camera. Nel caso più probabile che la Camera dei comuni sia regolarmente convocata dopo la pausa estiva, il percorso diventa mostruosamente complicato. Ho cercato di semplificarlo in una figura che indica vari scenari, tutti possibili per quanto tortuosi e convoluti. Lo spessore della freccia misura la mia opinione sulla probabilità delle possibili decisioni in ogni punto del percorso: più sottile la freccia, più improbabile la scelta. Ho tralasciato altre possibilità ancor più inverosimili.

Nota: lo spessore delle frecce indica la probabilità che l’evento indicato si verifichi.

Elezioni lontane

Difficile che si vada a elezioni prima della Brexit. Nei sondaggi, il partito laburista è molto debole: con un misero 18 per cento arranca dietro ai tory, primi con il 24 per cento, al Brexit party e ai liberal-democratici. Per questo, nonostante continui a chiedere il ritorno alle urne, non credo proprio che Jeremy Corbyn voglia davvero un voto che quasi certamente condurrebbe a una catastrofica perdita di parlamentari. E solo il leader dell’opposizione può chiedere un voto di sfiducia.

Il motivo della debolezza dei laburisti, evidente sia nei sondaggi sia nelle elezioni provinciali ed europee di maggio, è il rifiuto di Corbyn di prendere una posizione chiara sulla Brexit: i suoi elettori pro-europei preferiscono i lib-dem che denunciano la Brexit in linguaggio elegante e forbito, e i laburisti anti-europei, che non voterebbero mai il partito di Margaret Thatcher, hanno meno remore a scegliere il Brexit party di Nigel Farage. Oggi, al contrario di un tempo, è molto difficile tradurre percentuali di voti in seggi, sia per la comparsa del partito della Brexit, sia per la crescita dei lib-dem che avviene in collegi diversi da quelli dove avevano avuto successo in passato. Se il patto elettorale tra i lib-dem, i verdi e i nazionalisti gallesi per un seggio in Galles (si voterà il 1° agosto) venisse ripetuto a livello nazionale, i partiti anti-Brexit potrebbero ottenere un gran numero di seggi, diventando indispensabili alla formazione di qualunque governo, al quale imporrebbero certo la condizione della revoca dell’articolo 50 o, quantomeno, un nuovo referendum.

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Questa eventualità e la sicura trasmigrazione dei fanatici brexitisti dai tory al Brexit party – una certezza nel caso di elezioni generali con il Regno Unito ancora nell’Ue – porta a escludere che, insediatosi a Downing Street, Johnson voglia rischiare un voto anticipato che molto probabilmente gli imporrebbe un trasloco immediato.

Non certo per la prima volta, la sua smisurata ambizione farà dunque sì che Johnson accantoni le promesse fatte agli elettori, per riproporre ai Comuni l’accordo stipulato da May, magari con qualche modifica cosmetica accettabile alla Ue, sperando che i laburisti pro-Brexit siano sufficienti a compensare le defezioni del suo partito. Il fatto che la maggioranza della coalizione tory-irlandesi sia di soli tre deputati la rende però una strategia estremamente rischiosa.

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