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La politica monetaria lascia la scena alla politica fiscale

Di fronte a una nuova probabile recessione mondiale l’arma monetaria è spuntata perché manca lo spazio per ridurre i tassi di interesse, già molto bassi. Dunque, non resta che una svolta nella politica fiscale, con o senza un bilancio federale unico.

Prossime mosse delle banche centrali

Nel clima di guerra commerciale, la cui prima vittima è stata la crescita dell’economia mondiale, i banchieri centrali si accingono a un nuovo allentamento della politica monetaria.

La Federal Reserve, dopo aver tentato di “normalizzare” i tassi d’interesse, deve adesso fare i conti (oltre che con un’invadente Casa Bianca) con l’inversione della curva dei rendimenti. Il ragionamento dei mercati è semplice: se è vero che una recessione è alle porte, rivedremo probabilmente azzerarsi di nuovo il tasso ufficiale della Fed. Questa aspettativa innesca il calo dei rendimenti dei titoli federali a 10 anni, che oggi navigano attorno all’1,5 per cento e, al netto dell’inflazione, attorno allo zero.

Dal canto suo, l’area euro ha già sofferto una lunga stagnazione, ora aggravata dal calo del Pil della vulnerabile Germania, troppo esposta al ciclo estero. A fronteggiare la difficile congiuntura europea c’è sempre e soltanto la Banca centrale europea, che potrebbe presto decidere una nuova accelerazione del pacchetto di allentamento creditizio.

Di quel grappolo di provvedimenti avviato nel giugno 2014, la Bce potrebbe riproporne o rafforzarne qualcuno: far ripartire il programma di acquisiti (Qe), abbassare ulteriormente il tasso negativo sulla liquidità bancaria (che più che un tasso è una tassa), o migliorare le condizioni (tassi negativi?) sui prestiti mirati (Tltro).

Cosa ci possiamo dunque aspettare da questa convergenza “espansiva” di Fed e Bce?

Il modo principale in cui tassi di interesse più bassi influenzano l’economia reale resta quello ben noto: lo stimolo al credito bancario e quindi alla domanda aggregata, soprattutto per investimenti. Ed è altrettanto ben noto che l’efficacia del meccanismo di trasmissione è teoricamente ed empiricamente controversa. Oggi, tuttavia, potremmo essere di fronte a un passaggio, forse storico, nel ricorso alle politiche anti-cicliche, dopo che l’inflazione degli anni Settanta lanciò l’onda lunga della centralità della politica monetaria.

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Da allora, ha dominato la convinzione che lo strumento principale di stabilizzazione macroeconomica fosse in mano ai banchieri centrali. Pochi dubitavano del loro potere di guardiani dei prezzi, in grado di contenere o provocare l’inflazione. Nel mondo dopo-Lehman, questa convinzione è meno salda che mai, vittima di un fuoco incrociato di critiche che denotano anche un’imprevista convergenza tra visioni dell’economia molto differenti.

È l’ora della politica fiscale

Proviamo a mettere in fila le critiche principali, partendo da quella che segnala che l’arma monetaria è spuntata perché manca lo spazio per ridurre i tassi. Effettivamente, se la recessione colpirà quando i tassi sono ancora così bassi, non c’è evidentemente spazio per un abbassamento del costo del denaro in grado di modificare sostanzialmente il costo del finanziamento delle posizioni finanziarie e degli investimenti reali.

Ma c’è di più. Larry Summers ha recentemente riconosciuto la validità di un argomento coltivato nei modelli postkeynesiani in polemica coi modelli keynesiani classici, e cioè che per spiegare il ciclo occorre prestare molta più attenzione alle dinamiche della domanda e all’obiettivo che famiglie e imprese si pongono circa i propri risparmi. Secondo questo ragionamento, il calo dei tassi di interesse fa diminuire il reddito percepito dalle attività finanziarie al punto da indurre le famiglie a risparmiare di più, con effetti controproducenti sulla spesa privata. Secondo questa logica, la politica monetaria non solo non basta più, ma tassi sempre più bassi finiscono per avere un effetto restrittivo e, quindi, opposto alle intenzioni del banchiere centrale. È un punto sul quale convergono anche gli economisti della Modern Money Theory (Mmt) che evidenziano l’importanza che la politica economica agevoli il raggiungimento degli obiettivi di risparmio del settore privato, affermando che solo la politica fiscale può svolgere il compito in maniera efficace.

Oggi, sono gli stessi banchieri centrali ad ammettere di non poter essere più considerati al centro della scena. Mario Draghi ha ripetuto più volte che l’Europa ha bisogno di una politica fiscale e che la Bce non può fare tutto. Christine Lagarde – che a novembre succederà a Draghi – ha già fatto sapere che la politica monetaria non può essere l’unica risorsa in funzione anti-ciclica e ha perorato la causa di una riforma della politica fiscale europea. Anche Olivier Blanchard si è pronunciato a favore di un ruolo maggiore della politica fiscale nella stabilizzazione del ciclo. A ciò si aggiungano le proposte sul tavolo della nuova Commissione e le analisi pubblicate dalla Bce che mostrano come l’attuale configurazione della politica fiscale nell’area euro sia inadeguata a contrastare la prossima recessione.

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La netta impressione è che nello stesso modo in cui, nel 2012, non c’era alternativa alla scelta della Bce di rompere il tabù dell’acquisto dei titoli di stato, così oggi non vi è alternativa a una svolta nella politica fiscale, con o senza un bilancio federale unico.

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12 commenti

  1. Cicci Capucci

    Mi pare che dati e buon senso contraddicono l’ affermazione che “, il calo dei tassi di interesse fa diminuire il reddito percepito dalle attività finanziarie al punto da indurre le famiglie a risparmiare di più”. Anzi, vale il contrario. Se i miei risparmi non producono interessi, non vale proprio la pena di accumulare denaro destinato ad essere eroso dall” inflazione.

    • Andrea Terzi

      Lei si riferisce esclusivamente a quello che gli economisti chiamano “effetto sostituzione”. Ma c’è anche un “effetto reddito”. A me il buon senso dice un’altra cosa: che se ho un capitale di 100mila euro, vi attingo più volentieri per finanziare qualche consumo extra se mi rende il 6%. Se il rendimento va a zero, quei consumi extra non me li permetto più (= risparmio di più).

      • Paolo Sacco

        Se ho un capitale di 100mila euro investito in btp con la cedola, poniamo, al 4% percepiro’ il 4% annuo sul valore nominale dell’investimento indipendentemente dal prezzo di mercato e dal rendimento effettivo che da questo e’ determinato. Se il prezzo di mercato del titolo sale il mio rendimento effettivo diminuisce ma non per questo mi sento piu’ povero. Se il prezzo del titolo aumenta del 20% il mio capitale aumenta nella stessa misura facendomi sentire piu’ ricco. E’ l'”effetto ricchezza”.

        • Andrea Terzi

          La sua è un’obiezione differente da quella a cui ho risposto qui.
          Lei fa notare che, a tassi più bassi, chi possiede attività si sente più ricco (ed è il ben noto effetto ricchezza). D’altra parte, i risparmi prodotti dai suoi nuovi flussi di cassa li potrà investire soltanto a tassi più bassi (ed è l’effetto reddito di cui parlavo nell’articolo).
          Il fatto è che la teoria della trasmissione della politica monetaria comprende molti canali e le conclusioni empiriche a proposito dell’efficacia dei tassi sulla domanda aggregata non sono affatto robuste.
          Per un’eccellente rassegna si veda qui: http://doc.rero.ch/record/308730/files/DianovaV.pdf.

    • Henri Schmit

      Aggiungerei che normalmente quando gli interessi sul debito (pubblico e quindi privato) sono bassi i rendimenti sugli investimenti (aziende, azioni, immobili) aumentano, perché il TIR aumenta per merito della leva, gli investimenti crescono, il PIL cresce, l’occupazione, i salari e quindi i consumi aumentano; normalmente è così, ma ora no. Perché i mercati devono fare i conti con la forza: eserciti e dazi. Alcuni paesi crescono però nonostante la crisi di 10 anni fa e i dazi di adesso, mentre altri soffrono di più. Perché? E se fosse almeno in parte colpa dell’inefficienza strutturale di questi paesi? In quel caso la soluzione di politica fiscale non sarebbe di un budget europeo più consistente e l’uniformità delle aliquote fiscali fra paesi membri, ma solo la convergenza delle politiche fiscali nazionali verso obiettivi comuni, una strategia perseguita da decenni dai paesi più performanti. Temo che la speranza in contributi massicci da un budget comune alle economie meno performanti sia un’illusione, che non si materializzerà e che se diventasse realtà sarebbe un grave errore. Non sono un economista, non credo nel liberismo né mi convincono i liberali alla Hayek o i sedicenti liberali italiani. In altre parole penso che tanti progressisti in Europa la pensino più o meno come me. È l’Italia che nonostante i continui cambiamenti di maggioranza continua a perseguire imperterrita la chimera dell’UE insieme colpevole e salvatrice per non dover assumere le proprie responsabilità.

  2. Samuele Anese

    Buongiorno,
    ho letto l’articolo del professore, al quale volevo chiedere, e scuso la ancata comprensione, per politiche fiscali in funzioni anticiclica cosa si intende? Cosa dovrebbero mettere in atto i governi se ascoltassero il consiglio dei banchieri centrali dal punto di vista fiscale?
    Grazie
    Samuele

    • Andrea Terzi

      Le soluzioni sono molteplici. In sintesi, la politica fiscale anti-ciclica incoraggia maggiore domanda per consumi e investimenti quando la crescita è troppo bassa (e viceversa).

  3. MB

    Ma non manca qualche pezzo nel ragionamento? I colossali debiti pubblici che spazio di azione fiscale lascerebbero? Il loro incremento non aumenterebbe il livello dei tassi sul debito sovrano contrastando l’effetto espansivo monetario? Infine, l’argomento di Blanchard è debolissimo ed è già stato confutato anche su questo sito: https://www.lavoce.info/archives/59731/un-economista-nel-paese-delle-meraviglie/

    • Andrea Terzi

      Mi limito a considerare che gli Stati Uniti sono usciti dalla Grande Recessione con deficit/PIL superiori al 5% dal 2008 (Q1) al 2014 (Q4) e con un picco al 13,9% deficit/PIl (2009, Q2).
      Fonte: US BEA.

  4. Vittorio Stiassi

    Quindi, Professore, propone la stessa medicina che pratica da anni il Giappone: tassi d’interesse sottoterra e ampio deficit. Però il Giappone negli ultimi decenni è sceso dal terzo posto per PIL pro capite attorno al ventottesimo e continua a perdere posizioni. Non è stato solo sorpassato dagli altri: il reddito pro capite reale nipponico è sceso del 10-15%. Non mi sembra un grande risultato. Sembra che drogare l’economia funzioni come per gli esseri umani: non è fornendogli altro vino che l’ubriaco diventa sobrio. L’economia non riparte, mentre si distrugge ricchezza. Anche il nostro Paese ha alle spalle decenni di politiche espansive: l’ultimo bilancio in pareggio o avanzo risale ai tempi di Giolitti, credo. Esattamente, quanti decenni di deficit servono perché la domanda venga stimolata? Non le sembra che, anziché drogare l’economia con flussi di liquidità a pioggia, bisognerebbe fare politiche mirate per migliorare la competitività del Paese?

    • Andrea Terzi

      Lungi dall’essere una droga, il disavanzo pubblico è fonte di circolazione monetaria. Le banche centrali possono solo fare operazioni di portafoglio immettendo moneta a fronte di acquisti di attività finanziarie, e così influenzando i tassi d’interesse nel tentativo di incoraggiare più debito privato.
      Il problema (per il quale non esiste una soluzione univoca e una regola condivisa) è come evitare sia l’uso politico / clientelare del disavanzo, che la fissazione di un tetto artificiale e deflazionistico al disavanzo pubblico.

  5. Stefano Sylos Labini

    Giusto e come facciamo stando in Europa ? Noi abbiamo proposto la Moneta Fiscale che consente di guadagnare due anni di crescita prima di avere un impatto sul bilancio pubblico degli sconti fiscali e che permette di finanziare la manovra senza chiedere soldi in prestito sui mercati finanziari

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