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Corsi e ricorsi dell’economia, la “scienza inutile”

Il libro di Saraceno analizza con pragmatismo le varie “ondate” del pensiero economico rispetto al ruolo più o meno ampio dello stato nello stimolare produzione, occupazione e reddito. Per esempio, durante la grande depressione e la grande recessione.

“Ondate” di pensiero economico

Un economista che crede all’economia come scienza sociale, cioè come disciplina che analizza le interazioni degli esseri umani e che riesce comunque a progredire attraverso la verifica empirica delle teorie, si mette istintivamente sull’avviso davanti a un libro sulla storia del pensiero economico che si intitola La scienza inutile. Ci si aspetta, infatti, una posizione molto critica su quanto forti siano i punti fermi dell’economia politica. Ma una volta letto il testo di Francesco Saraceno, il nostro economista si accorgerà che la posizione dell’autore è molto più “intermedia”, essenzialmente pragmatica.

La scienza inutile parte dall’idea – elaborata negli anni Sessanta dal filosofo della scienza Thomas Kuhn – secondo cui le scienze, comprese quelle naturali, funzionano a ondate: viene elaborata una certa teoria rivoluzionaria che spiega un insieme ampio di fenomeni, inizialmente fatica a imporsi ma in seguito diventa il modo di pensare dominante, suffragato da verifiche empiriche favorevoli. Successivamente la teoria comincia a ricevere colpi da verifiche empiriche che la contraddicono e che sono invece coerenti con una nuova macro-teoria. E così il ciclo ricomincia.

Saraceno applica lo schema all’economia politica, come scienza o disciplina nata nel 1700 (è facile partire dal 1776, anno di pubblicazione de La Ricchezza delle Nazioni di Adam Smith) e contraddistinta da ondate che riguardano essenzialmente il ruolo più o meno ampio dello stato nel migliorare gli esiti ottenuti dai “mercati”, cioè dal capitalismo. Quanto più una certa ondata di pensiero si basa sull’idea che i mercati producano un esito efficiente (non c’è alcun modo per migliorare le condizioni di qualcuno senza far stare peggio qualcun altro) e non troppo diseguale dal punto di vista della distribuzione di reddito e ricchezza, tanto meno ampio viene ritenuto lo spazio che l’intervento pubblico deve occupare, al fine di stimolare la produzione, l’occupazione e il reddito, e di cambiare la distribuzione delle risorse.

In particolare, il tema di cui più si occupa Saraceno – in coerenza con la parte macroeconomica della disciplina – è quello della gestione della domanda aggregata da parte dello stato, appunto con il fine di aumentare produzione, occupazione e reddito, quando la domanda privata per consumi, investimenti ed esportazioni (al netto delle importazioni) è insufficiente, cioè il sistema dei mercati privati non domanda abbastanza produzione e lascia inoccupata una parte importante della forza lavoro.

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Teoria neoclassica e rivoluzione keynesiana

La prima vera ondata teorica che pone al centro l’importanza – se non la necessità – di un intervento pubblico per risollevare un’economia depressa attraverso la spesa in deficit (maggiore domanda aggregata) è naturalmente rappresentata dalla rivoluzione keynesiana, la quale trae spunto empirico dalla grande depressione degli anni Trenta.

Il modello neoclassico precedente, molto più concentrato sul funzionamento microeconomico dei mercati (domanda e offerta di beni, servizi e fattori produttivi), sembra incapace di incorporare un evento come la grande depressione, cioè un evento in cui dal lato dell’offerta – ovvero dal lato della produzione di beni e servizi – non si crea abbastanza domanda per quegli stessi beni e servizi prodotti e per il lavoro necessario a produrli occupando quasi pienamente la forza lavoro disponibile. Ciò costituisce una smentita della cosiddetta legge di Say, che è il punto centrale della teoria neoclassica sotto il profilo macroeconomico. Ed è qui che John M. Keynes lancia il suo attacco finalizzato a sostituire alla teoria neoclassica la propria, incentrata sul ruolo attivo dello stato (spesa pubblica, tassazione, politica monetaria) per compensare l’insufficienza della domanda aggregata privata.

Saraceno passa poi a discutere la fase intermedia della “sintesi neoclassica”: rispetto al pensiero originario di Keynes, dava più importanza alla politica monetaria che alla politica fiscale e cominciava a evidenziare i limiti della politica discrezionale di stimolo della domanda aggregata: per esempio, quanta inflazione aggiuntiva siamo disposti ad accettare per avere meno disoccupazione? Siamo sicuri che l’inflazione non cominci ad accelerare? Alla fase intermedia segue l’ondata della “nuova macroeconomia classica” e delle aspettative razionali, che riporta il pendolo nella direzione dei mercati efficienti che non hanno bisogno di cure macroeconomiche esterne da parte dello stato. Questa fase inizia alla fine degli anni Settanta e – passando ancora una volta attraverso l’ondata intermedia di un ripensamento neo-keynesiano – si conclude alla fine degli anni Duemila con la grande recessione partita dalla crisi dei mutui subprime negli Usa (2007) e sfociata nella crisi dei debiti sovrani europei, di poco successiva. A questo punto, secondo Saraceno, si ritorna a un paradigma di carattere keynesiano, che si preoccupa in particolar modo del modo in cui una crisi finanziaria possa innescare una crisi economica da curarsi con una politica fiscale pesantemente espansiva. Il punto di vista di Saraceno è che l’Unione monetaria europea sia stata l’area del mondo che, colpevolmente, ha avuto meno coraggio nel prendere questa direzione.

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Il libro divulgativo di Saraceno è da apprezzare per il fatto che – pur non facendo mistero delle proprie simpatie keynesiane o neo-keynesiane – mostra un atteggiamento schiettamente pragmatico: le teorie economiche servono per descrivere e fare predizioni sulla realtà e in diversi momenti storici diverse teorie possono avere una capacità diversa di ottenere questo scopo scientifico: sotto questo profilo, la teoria delle rivoluzioni scientifiche di Kuhn sembra ancora più adatta a descrivere gli andamenti di una scienza sociale, che – a differenza di quelle naturali – deve strutturalmente affrontare fenomeni ed equilibri che non sono stabili, oppure lo sono soltanto per qualche decennio (o secolo).

Un altro aspetto molto godibile del testo di Saraceno è la presenza costante di inserti di attualità, all’interno dei quali si analizzano eventi contemporanei (come la nascita dell’Unione monetaria europea e il dibattito sulla revisione del Patto di stabilità e sviluppo che la governa) alla luce delle teorie economiche affrontate nel libro.

Francesco Saraceno (2018), La scienza inutile: Tutto quello che non abbiamo voluto imparare dall’economia, Roma, Luiss University Press, 176 pagine, 16 euro.

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  1. Henri Schmit

    Secondo Kuhn sono le scienze naturali che evolvono per scatti rivoluzionari e cambiamenti di paradigma. L’esempio tipico è Copernico, Galileo, Newton, poi Einstein. Sarebbe interessante indagare sulle scienze esatte e provare a teorizzare l’evoluzione della matematica e della logica diciamo da Russell e Whitehead in avanti. Che cosa pensare delle “scienze” sociali? Bisognerebbe prima distinguere la parte scientifica, logica e matematica, da quella umana e in quest’ultima la parte descrittiva da quella prudenziale (quasi normativa). Servirebbe prima un rivoluzione nella teoria della “scienza” economica per poter applicare i concetti di Kuhn all’evoluzione delle idee, teorie descrittive sorrette da modelli matematici, opinioni e ricette economiche, perché altro non sono. Temo che siano le necessità subite e le priorità scelte che cambiano i paradigmi economici, non rivoluzioni epistemiche.

  2. Marcomassimo

    Ottimo libro ed ottima tematica, però c’è sempre un aspetto fondamentale che gli economisti “tecnici” e “scientifici” tendono a dimenticare e che rendono intrinsecamente impossibile trattare l’economia come fosse la dinamica dei fluidi non newtoniani; si tratta del punto di vista dei rapporti di classe e degli interessi dei vari gruppi sociali che possono essere ovviamente non coincidenti; per esempio quando la UE impone “un determinato grado di disoccupazione” ad ogni paese europeo volto a bloccare l’inflazione e salvaguardare il valore della moneta, è evidente che beneficia soprattutto chi i soldi ce li ha e non chi non li ha; e beneficia i redditi fissi rispetto ai redditi da prestazione d’opera; e maleficia sicuramente le fasce lavorative più marginali e meno qualificate, destinate inesorabilmente a lavori di sottobosco;
    Idem con patate quando una banca centrale col quantitative easing compra dei titoli non di stato come dovrebbbe fare, ma titoli privati; alzando il valore di titoli privati si fa “assistenza sociale ai ricchi” che sono quelli che i titoli si presume li abbiano; quindi la economia si deve sempre vedere come rimaneggia redditi e patrimoni nei vari casi e quali punti di vista ed interessi privilegia; quindi pragmatismo si, ma per chi?

  3. Di Fabrizio Aldo

    La Teoria dell’Equilibrio che ha condotto verso i modelli DSGE dove la colloca prof. Puglisi? Tale teoria è stata ambiziosa ed ha permesso di uscire dalla logica del reddito creato dalla domanda (keynesiana) e del reddito creato dall’offerta (classica)

  4. Carlo

    In realtà “scienze sociali” è un ossimoro, perché le discipline così definite non fanno pienamente uso del metodo scientifico galileiano. Ciò è particolarmente vero a proposito dell’economia: quand’è l’ultima volta che avete visto una rivista economica rifiutare un articolo perché non spiega la realtà dei fatti??

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