La divergenza geografica è un tratto distintivo dell’economia basata sulla conoscenza. In un paese già disomogeneo come l’Italia, ciò apre questioni che vanno affrontate subito, per creare le condizioni per garantire a tutti un’esistenza dignitosa.
Le “isole” della produzione
La ricerca più recente (come ad esempio Enrico Moretti in La nuova geografia del lavoro) ha messo in luce un fatto importante e sorprendente: l’economia globale contemporanea è anche un’economia locale. Cioè è fatta di “isole” dove si concentrano le produzioni ad alta tecnologia e valore aggiunto e dove si realizzano le innovazioni più rilevanti. Sono aree metropolitane ad alta densità di popolazione dove occupazione, reddito e crescita della produttività sono considerevolmente più alti che altrove.
Non si direbbe, ma in un mondo in cui le distanze sono in teoria azzerate dalle possibilità di comunicazione, in pratica quello che conta è potersi incontrare, di persona, nei “social” tradizionali – pub, circoli sportivi, eventi, la macchinetta per il caffè – ovunque si possa parlare e scambiarsi idee, progetti, preoccupazioni, risultati. “Knowledge quickly dies with distance” (“la conoscenza si disperde rapidamente con la distanza”), scrive Moretti.
Un aspetto ancor più sorprendente è che ognuno di questi lavori in settori ad alto valore aggiunto, che producono beni commerciabili (tradable), genera in media cinque posti di lavoro in settori tradizionali, generalmente servizi locali (non-tradable): barbieri, ristoratori, insegnanti di yoga, architetti, avvocati, pubblicitari. Le energie migliori tendono dunque ad affluire verso i “tech hubs”, in una dinamica che si autorafforza, perché lavoratori produttivi attraggono altri lavoratori produttivi. E ad avvantaggiarsene sono anche le occupazioni relativamente meno qualificate: è più conveniente essere un falegname o un ristoratore a Milano che a Campobasso.
Sono dunque le aree di agglomerazione fisica della produzione le locomotive che trainano l’economia, in un processo strutturale che tende inevitabilmente a generare divergenze territoriali. Il dato di realtà produce necessariamente un “dilemma dello sviluppo”. Per attivare la crescita di un’economia, oggi, è probabilmente vano puntare a una crescita uniforme sul territorio, come spesso si ascolta nel dibattito pubblico. È necessario puntare al buon funzionamento delle aree trainanti. In Italia questo vuol dire l’area che gravita intorno a Milano, ma anche qualunque realtà – al Sud come al Nord – concentrata sulla produzione di beni tradable a contenuto innovativo e alto valore aggiunto.
Secondo una visione tradizionale, l’Italia non cresce a causa del fatto che una parte del paese – il Mezzogiorno – cresce poco da diversi decenni. Il problema della crescita italiana sarebbe tout court il problema del mancato sviluppo del Mezzogiorno; risolto il quale, ogni problema di crescita aggregata svanirebbe. Ma se i processi di agglomerazione geografica della produzione sono il meccanismo economico centrale per la creazione di maggior reddito e lavoro (sia qualificato che non), la via per tornare a crescere potrebbe al contrario comportare che le divergenze territoriali – non solo fra Nord e Sud – si accentuino. Una sfida epocale.
Cosa si può fare
I governi non possono generare crescita nel lungo periodo, ma possono evitare di ostacolarla, agevolarne il percorso, e occuparsi delle condizioni degli ultimi. Un forte ostacolo alla crescita è sicuramente la cattiva qualità dell’amministrazione della cosa pubblica. Il Government Institute dell’università di Gothenburg, in Svezia, produce un elaborato indicatore (Eqi) della qualità del governo (basato su indici di corruzione, imparzialità e qualità dei servizi pubblici). La figura qui sotto mostra non solo che la “Quality of Government” in Italia è bassa rispetto agli altri paesi europei, ma anche che negli ultimi anni è peggiorata nel Centro-Nord: certamente un dato preoccupante. Bisognerebbe anzitutto andare avanti, non indietro, in questa direzione.
Figura 1: Eqi 2010
Figura 2: Eqi 2017
Un altro ostacolo alla crescita è costituito dalle imperfezioni di mercato che frenano il flusso di risorse, anche all’interno dello stesso settore, dalle imprese meno produttive verso quelle più produttive, dove la tecnologia sta cambiando. In uno studio recente, Sara Calligaris, Massimo Del Gatto, Fadi Hassan, Gianmarco I.P. Ottaviano e Fabiano Schivardi trovano che l’errata distribuzione di capitale e lavoro è una determinante fondamentale del ristagno di produttività in Italia, e che negli ultimi vent’anni è cresciuta nel Nord-Est e nel Centro a un tasso considerevolmente più alto che nelle altre aree. Se l’errata allocazione fosse rimasta costante al livello del 1995, la produttività aggregata dei fattori in Italia sarebbe stata nel 2013 del 18 per cento più alta. Rimuovere le imperfezioni generate dall’intervento pubblico è un’altra priorità.
Non si possono creare nuove zone di agglomerazione dal nulla; ma si può cercare di agevolare lo sviluppo di realtà che possano diventarlo, al Nord come al Sud, migliorando le competenze diffuse – e questo, sì, uniformemente sul territorio. Anche su questo versante ci sarebbe molto da fare, a cominciare dalle differenze Nord-Sud nei risultati Invalsi, che sono allarmanti e ancora non chiaramente razionalizzate. In verità, tutta l’organizzazione dell’offerta formativa andrebbe ripensata: basta fare l’esempio degli istituti tecnici superiori, che hanno più dell’80 per cento di occupabilità, ma sono scelti solo dal 2 per cento degli studenti.
La divergenza geografica è un tratto distintivo dell’economia moderna basata sulla conoscenza. Piaccia o no, è l’unica via per riprendere un sentiero di crescita. Il dato di realtà è di particolare rilevanza per un paese già disomogeneo come l’Italia e pone dilemmi di diversa specie (istituzionale, politica, economica). Questi dilemmi vanno affrontati, e al più presto, cercando di creare le condizioni per garantire a tutti una esistenza dignitosa. Il che implica sia servizi essenziali e istruzione di qualità, sia meccanismi di redistribuzione tra le diverse aree da ripensare completamente.
Lavoce è di tutti: sostienila!
Lavoce.info non ospita pubblicità e, a differenza di molti altri siti di informazione, l’accesso ai nostri articoli è completamente gratuito. L’impegno dei redattori è volontario, ma le donazioni sono fondamentali per sostenere i costi del nostro sito. Il tuo contributo rafforzerebbe la nostra indipendenza e ci aiuterebbe a migliorare la nostra offerta di informazione libera, professionale e gratuita. Grazie del tuo aiuto!
Savino
Un ostacolo alla crescita sono le imperfezioni decisionali di politica industriale. La divergenza geografica spacca definitivamente l’Italia ed è una soluzione molto provvisoria e precaria.
Dizzy Spells
Esprimo alcune perplessità che emergono dalla lettura del Vostro contributo.
La prima è che se esistono città in forte sviluppo (Milano) esistono anche città in forte crisi (Roma, Napoli) e – d’altra parte – esistono aree non metropolitane in forte sviluppo (la dorsale lombarda prealpina, la città infinita secondo A. Bonomi) e in forte difficoltà (le aree rurali del Sud): se il contributo medio delle città è complessivamente positivo, ciò sembra indicare che non dipenda dall’essere o meno una città.
La seconda è che si postula che lo Stato non possa avere impatto sulla crescita delle aree arretrate, ipotizzo che lo sviluppo sia considerato un dato esogeno che può solo essere ridotto da fallimenti del mercato: ciò si scontra, a mio avviso, con l’esperienza di successo molti paesi in sviluppo (cfr. l’esperienza delle FTZ asiatiche, per contro la negativa esperienza dei poli di sviluppo nel Mezzogiorno… però l’ILVA è ancora lì e sembra un asset importante); da un punto di vista teorico, si ipotizza che le esternalità abbiano effetti esclusivamente negativi e non anche positivi, che è un po’ il postulato di tutti gli economisti dello sviluppo dal dopoguerra ad oggi… nella vostra interpretazione, almeno mi sembra (ma forse sbaglio), non c’è spazio per dinamiche di sviluppo che siano determinate dai comportamenti economici degli attori e dalle loro interazioni. Per sintetizzare, credo che non dobbiamo aver paura di spendere, ma di spendere male.
Savino
I comportamenti degli attori sono troppo fossilizzati su dinamiche arcaiche, corporative e lobbistiche, con barriere all’entrata e ascensore sociale rotto, sistema di cui certamente è parte integrante una p.a. mai svecchiata e mai snellita. I più giovani e più preparati hanno le idee chiare e ben stanno facendo ad orientare la bussola verso l’estero.
Dizzy Spells
Scusi, non volevo rispondere a Lei ma agli Autori (devo aver sbagliato qualcosa), speriamo che leggano. Quanto al suo commento, Lei ha certamente ragione ma il mio invito è guardare anche oltre all’Italia, sennò costruiamo profezie che si auto-avverano: come dicevo, il mio problema non è spendere ma spendere male. Gli stessi Autori, che ne sanno più di noi, potrebbero forse farsi promotori di studi che valutino l’impatto della spesa pubblica sul PIL pro capite, una valutazione che dovrebbe andare oltre l’ammontare della spesa (che attualmente mi sembra l’unico criterio utilizzato): se lo fanno le imprese perché non può farlo lo stato?
Scusi di nuovo, scrivo a Lei per comunicare con gli Autori dell’articolo… mi sa che sbaglio qualcosa.
bob
la divergenza geografica nell’economia e come la divergenza tra la realtà quotidiana e la realtà di numeri, dati statistiche.
Roberto
Non è chiaro il passaggio dove si dice che un altro ostacolo alla crescita è costituito dalle impefezioni di mercato che frenano il flusso di risorse da aziende meno produttive a quelle più produttive. Non è una imperfezione del mercato, è un fallimento dello Stato. Infatti subito dopo si dice che rimuovere le imperfezioni generate dall’intervento pubblico è un’altra priorità. Se quindi è l’intervento pubblico a essere fallimentare, come si puo’ pensare di richiedere ulteriori interventi pubblici che correggono precedenti interventi pubblici, in un’avvitamento senza fine?
Dizzy Spells
Mi scusi, sono un pasticcione, non era una risposta al Suo commento ma un commento al contributo di Modica & Monacelli, speriamo lo leggano. Detto questo, il senso del commento era di allargare un po’ l’orizzonte oltre al caso specifico dell’Italia, sennò le profezie si auto-avverano. Perché ci sono criteri per valutare l’opportunità/bontà di un’investimento privato e non ce ne sono per valutare l’opportunità/bontà di un’investimento pubblico? Quando dicevo che non bisogna aver paura di spendere ma di spendere male intendevo questo e credo che una riflessione sul tema i due Autori (che sono ovviamente molto più bravi di noi) potrebbero farla