Alla guida della Fed negli anni Ottanta, Paul Volcker ha sconfitto l’inflazione. Il suo pensiero e azione erano infatti retti dalla ricerca del bene comune. Proprio quei valori che oggi la politica, non solo americana, mette sempre più in discussione.
La vittoria contro l’inflazione
È morto nei giorni scorsi Paul Volcker, uno dei più grandi civil servant che gli Stati Uniti abbiano avuto, certamente il più grande nel campo finanziario. Nominato da Jimmy Carter nel 1979 a capo della Federal Reserve, guidò le banche centrali dei principali paesi nella battaglia contro l’inflazione (con stagnazione) che aveva dominato gli anni Settanta e che molti consideravano persa in partenza. Vinse invece in breve tempo, dando inizio alla più lunga discesa dell’inflazione e dei tassi di interesse della storia. Dopo lo shock iniziale (che portò la disoccupazione oltre il 10 per cento) l’inflazione, che era giunta al 13,5 per cento nel 1981 scese al 3,2 per cento nel 1983 e l’America riprese a crescere.
Lo straordinario successo non fu sufficiente per garantirgli il sostegno di Ronald Reagan, che lo congedò bruscamente a metà del secondo mandato, sostituendolo con Alan Greenspan, colui che avrebbe cavalcato quella discesa dei tassi per favorire una grande fase di espansione dei mercati finanziari, amplificata dalla deregolamentazione galoppante, fino alla bolla speculativa azionaria di fine millennio e alla grande crisi del 2007-2008. Volcker, invece, non ha mai guardato con simpatia all’evoluzione della finanza e ne ha capito fin dall’inizio le possibili degenerazioni. In un famoso articolo per il New York Times, disse sprezzante: “L’unica vera innovazione finanziaria degli ultimi decenni è il bancomat”.
Dopo la crisi, le sue critiche alla finanza di oggi si fecero ancora più esplicite e in un rapporto del Gruppo dei 30 (che presiedeva e di cui faceva parte anche Tommaso Padoa Schioppa) propose la separazione del trading proprietario delle banche (quello che può avere carattere più chiaramente speculativo) dall’attività bancaria ordinaria. Era la cosiddetta “Volcker rule”, peraltro recepita dalla riforma americana in modo parziale e alquanto contorto. Ma è un chiaro segno di quanto il suo pensiero fosse ancora influente e quanto egli fosse indipendente dai poteri forti della finanza.
L’ultima opera di Volcker, l’autobiografia, ha come significativo sottotitolo “In cerca della moneta sana e del buon governo”. Nella sua visione, non solo i due concetti sono strettamente legati fra loro, ma non può definirsi sana la moneta di un sistema che alimenta una crisi devastante come quella scoppiata nel 2007. Con grande coraggio, Volcker dice fin dall’introduzione: “Guardando al passato, devo riconoscere che gli Stati Uniti hanno guidato la grande coalizione degli stati liberi ed emergenti, ma non sono riusciti ad evitare del tutto il peccato mortale della hubris. Ci siamo imbarcati in guerre, lunghe, non necessarie, lontane da casa e alla lunga impossibili da vincere. Non abbiamo riconosciuto i costi dei mercati liberi e delle rapide innovazioni per larghe parti dei nostri concittadini. Siamo arrivati a pensare che mercati finanziari fortemente innovativi possano autodisciplinarsi”.
Il pessimismo degli ultimi anni
Negli ultimi tempi, il suo pessimismo era aumentato, tanto che poche settimane fa, scrivendo la quarta di copertina per l’edizione economica del libro si era detto estremamente preoccupato perché le pressioni di Donald Trump sulla Fed di Jerome Powell hanno superato qualsiasi precedente dell’intero dopoguerra. È un chiaro segno che si è rotto quell’argine fondamentale della democrazia, che è l’indipendenza della banca centrale. Ed è solo l’esempio più clamoroso di tante prese di posizione contro l’amministrazione pubblica. Siamo andati ben al di là – dice Volcker – della parola d’ordine di Reagan che il governo è “il” problema; si sta minando alla base la fiducia degli americani nel settore pubblico e nelle istituzioni.
Come diceva egli stesso, il suo ottimismo di fondo era sempre guidato dalla saggezza della madre, che gli ricordava che in fin dei conti gli Stati Uniti avevano vinto due guerre, superato la grande depressione e infinite altre avversità. Ma questa volta il buon senso non basta: dopo aver ricordato che settantacinque anni fa gli Stati Uniti (e aggiungiamo noi: l’Inghilterra e la Resistenza dei vari paesi) hanno sconfitto la tirannia e difeso le nostre istituzioni democratiche, chiude con un monito che è anche il suo testamento spirituale: “La generazione di oggi affronta una prova diversa, ma ancora una volta per la sopravvivenza. Da come risponderemo dipende il futuro della nostra democrazia e, alla fine, dello stesso pianeta”.
È la prova lampante di quanto il pensiero e l’azione di Volcker fossero retti da alti valori morali e dalla ricerca del bene comune. Valori che vengono sempre più messi in discussione dalla politica di oggi, non solo americana. Per questo è importante che la sua azione possa essere proseguita da altri. Keeping at it era il titolo dell’autobiografia: si riferiva alla perseveranza dell’autore, ma si può anche estendere alla capacità dei giovani di raccoglierne l’eredità.
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Dante Cafarelli
Bell’articolo. Aggiungerei la Russia, tra quelli che hanno sconfitto Hitler.