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Effetto Brexit nel bilancio Ue

Il Consiglio europeo straordinario si è riunito giovedì 20 febbraio 2020 per discutere il Multiannual financial framework 2021-2027 dell’Unione Europea, a cui i futuri bilanci europei dovranno fare riferimento. Il dibattito si preannuncia ostico, tra l’addio del Regno Unito, la pressione per destinare più risorse alla sostenibilità ambientale e l’eterna tensione tra contribuenti e beneficiari netti.

Il Consiglio europeo si è riunito il 20 febbraio per discutere il quadro finanziario pluriennale (o Multiannual financial framework – Mff) dell’Unione per il periodo 2021-2027 con cui si stabilisce il tetto di spesa sia nel suo insieme che relativamente ai singoli programmi. Il nodo più spinoso riguarda la dimensione del budget: i paesi del Nord non vorrebbero vederlo salire oltre il valore attuale dell’1 per cento del Pil europeo, nonostante Parlamento e Commissione abbiano già nel 2018 proposto rispettivamente un budget dell’1,1 per cento e dell’1,34 per cento. La base di partenza dei negoziati è l’1,074 per cento messo sul tavolo dal presidente del Consiglio europeo.

Ma come vengono finanziati e successivamente impiegati i bilanci europei?

Chi contribuisce al bilancio europeo, e quanto?

Il bilancio europeo, che nel 2018 ammontava a 156,672 miliardi di euro, è essenzialmente finanziato dai dazi doganali sulle importazioni extra-Ue, dal gettito Iva e dai contributi versati annualmente dai singoli stati membri in proporzione al proprio reddito annuo lordo. Questi ultimi rappresentano la voce principale delle entrate comunitarie, contribuendo nel 2018 al 67 per cento del totale (105,78 miliardi). Se a questo si aggiunge il gettito Iva, gli stati membri hanno contributo al bilancio con poco più di 122 miliardi, pari al 77 per cento delle entrate. La restante parte delle risorse deriva dai dazi agricoli e doganali e dai surplus registrati negli anni passati.

Il principale “azionista” dell’Unione è la Germania, seguito da Francia e Italia. Il nostro paese ha contribuito con poco più di 15 miliardi, di cui quasi 12 sotto forma di trasferimento diretto.

Dato che i contributi sono proporzionali al reddito nazionale, non deve sorprendere che i paesi più ricchi siano anche, in termini assoluti, i principali finanziatori del bilancio. Per avere una misura più realistica dalla distribuzione dell’onere contributivo fra i paesi è dunque opportuno esprimere i trasferimenti come percentuale del prodotto lordo annuale. In questo caso il quadro cambia: Germania, Italia e Francia non compaiono più fra i primi tre finanziatori e le differenze fra Paesi risultano assottigliate.

Chi sono i “perdenti” e chi i “vincenti”?

Il principale beneficiario dei fondi europei risulta essere la Polonia, seguita da Francia, Spagna e Germania. L’Italia è “solo” al quinto posto: dei circa 10 miliardi ricevuti, il nostro Paese ne ha spesi quasi 4 per finanziare l’agricoltura tramite l’European agriculture guarantee fund (Aegf), mentre ha destinato 3,2 miliardi per la coesione territoriale, utilizzati per sostenere l’economia delle regioni meno sviluppate. Per la competitività e il lavoro sono stati invece investiti quasi 1,6 miliardi di cui 909 milioni in ricerca e sviluppo attraverso il programma Common strategic framework (Csf), 212 per il progetto Erasmus+ e circa 260 per le grandi infrastrutture. Infine per la sicurezza sono stati destinati 312 milioni, circa il 3 per cento del totale. Facendo un paragone tra la quota dei fondi impiegata in ricerca e innovazione dai vari Paesi membri, l’Italia non ne esce bene: l’8,8 per cento delle risorse disponibili sono investite nell’area Research and innovation, contro il 12,3 della Germania, il 16 della Danimarca e addirittura il 38,5 dei Paesi Bassi.

Il saldo con la Ue risulta positivo per 18 paesi, fra i quali figurano Grecia, Spagna e Portogallo, mentre è negativo per Francia, Germania e Italia. Curiosamente, nel 2018 il secondo contribuente netto è stato il Regno Unito. Ciò rende ancora più evidenti le ragioni della partita molto accesa che si sta giocando in sede europea per coprire il buco generato dalla Brexit: da un lato i paesi beneficiari netti non vogliono che le allocazioni vengano ridotte, dall’altro gli Stati contribuenti netti vogliono evitare che i propri versamenti aumentino.

Restare all’interno della Ue è solamente un costo?

Per valutare i pro e contro dell’Unione non ci si può basare su un mero calcolo fra quanto si versa e quanto si riceve, ma è necessario prendere in considerazione anche altri elementi. Innanzitutto, gli effetti che i fondi europei, i quali sono quasi esclusivamente indirizzati verso investimenti pro-crescita, hanno sui singoli paesi. In secondo luogo, non si può trascurare il vantaggio di operare nel contesto del mercato unico e in un quadro di stabilità e pace mai registrati prima.

Il budget europeo del 2018, per esempio, ha destinato alla crescita inclusiva e smart metà del totale, e più di un terzo è andato alla crescita sostenibile.

In particolare è stato il programma di coesione economica, sociale e territoriale ad avere ottenuto la quota più ingente di risorse, ben 54,46 miliardi, seguito dal fondo per l’agricoltura a cui sono stati destinati 44,3 miliardi.

L’ingente somma investita negli ultimi anni per ricucire i divari territoriali, se da un lato può essere vista come l’inevitabile conseguenza della polarizzazione centro-periferia e dell’emergere del populismo, dall’altro lato pare in netta contraddizione con il fenomeno economico della concentrazione geografica della produzione e della conoscenza.

Per quanto riguarda invece la politica agricola europea, questa attrae ancora moltissime risorse. Se è vero che tale programma non solo sostiene la produzione agricola, ma preserva anche le zone rurali, il suo peso sul bilancio appare spropositato soprattutto se lo si confronta con gli 11,6 miliardi destinati al Csf (ossia alla ricerca e all’ innovazione) e con i soli 3 miliardi per la sicurezza e l’immigrazione.

I vertici europei sembrano però decisi a modificare l’allocazione della spesa per il prossimo budget: sulla spinta dell’effetto Greta e della sempre maggiore sensibilità dei cittadini europei nei confronti dell’ambiente, la Commissione si è più volte dichiarata pronta a destinare una quota significativa del nuovo bilancio programmatico ad attività legate alla lotta ai cambiamenti climatici. Inoltre dovrebbero essere posti in primo piano anche misure a favore dell’innovazione e della digitalizzazione. Il condizionale è d’obbligo: in presenza di interesse nazionali contrastanti i conflitti su come ripartire una torta, nemmeno così ricca, sono inevitabili.

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  1. Raffaele Piria

    Ottimo contributo perché conoscere i fatti è condizione necessaria per un dibattito
    sensato.
    Potrebbe esserci un errore nel secondo grafico “Contributi al bilancio europeo in percentuale del reddito nazionale”? Il testo “Germania, Italia e Francia non compaiono più fra i primi tre finanziatori” non corrisponde al grafico, in cui essi sono ai primi tre posti, il Regno Unito dovrebbe risultare a un livello molto più basso dato che il suo contributo netto era inferiore a quello italiano e il reddito nazionale è maggiore.
    Più sotto: “nel 2018 il secondo contribuente netto è stato il Regno Unito” non corrisponde al grafico.

    Andrebbe non solo spiegato che “non ci si può basare su un mero calcolo fra quanto si versa e quanto si riceve”, verissimo. Ma anche cosa si intende esattamente con “contributi netti”. Tali conti si riferiscono spesso solo a una parte del bilancio UE, e/o a una considerazione superficiale basata sull’indirizzo dell’entità giuridica che svolge un progetto, magari solo del coordinatore.
    Ci sono entrate e spese UE “fuori bilancio” come per esempio l’Innovation Fund finanziato coi proventi delle aste EU ETS, con cui si finanziano dimostrazioni di tecnologie innovative. Un progetto in Olanda potrebbe consistere in parte di componenti Made in Italy o viceversa…

    • alessio

      Si era verificato un problema nel caricamento dei grafici, che è stato prontamente coretto.
      Come può vedere ora tutti i grafici sono giusti, cioè coerenti con il testo e con i dati ufficiali della Commissione.

  2. emilio

    I numeri chiariscono almeno che tra le ragioni della brexit c’era anche la “contribuzione netta” dell’UK che ora deve pesare sugli altri. Ciò a contrastare la caterva di fake news spese da tutte e due le idee pro-brexit e contro brexit che si leggono da tutte le parti.

    • Antonio Carbone

      6 miliardi all’anno come “ragione della brexit”!?
      6 miliardi all’anno sono una goccia nel mare, se questo è il “costo” per garantirsi il libero accesso per merci, capitali, servizi e persone, a un mercato che registra un PIL di 15 miliardi di miliardi di euro!!
      Tra le varie bufale spacciate da Johnson per sostenere le sue campagne politiche, c’era l’affermazione secondo la quale ogni settimana il Regno Unito inviava 350 milioni di sterline a Bruxelles. L’equivalente annuo di circa 22 miliardi di euro a fronte dei circa 6 miliardi netti reali (cioè veri).
      Il vero affare l’ha fatto Johnson. Con qualche bufala ben piazzata, ha conquistato il potere in uno dei paesi più avanzati al mondo. Molti dimenticano che il “mercato” della politica è questo! Un mercato in cui, sempre più, la moneta cattiva scaccia quella buona.

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