Lavoce.info

Smart working anche nel dopo-emergenza

Con l’espandersi del coronavirus a molti lavoratori è stato chiesto di lavorare da casa. Una ricerca condotta prima dell’emergenza sanitaria mostra i vantaggi dello smart working. E suggerisce che sarebbe positivo per tutti mantenerlo anche in futuro.

Una parola tutta italiana

“Smart working “è diventata una parola chiave in queste settimane di emergenza coronavirus. Sono ormai pochi gli italiani che non l’abbiano sentita o utilizzata. Per mantenere la sicurezza, ridurre il contagio e continuare a lavorare, tutti stanno lavorando “smart”, per lo più da casa. Non era così prima del coronavirus, nonostante lo smart working sia stato regolamentato dalla legge 81 del 2017 e nonostante i progressi degli ultimi anni. Stiamo vivendo l’esplosione del lavoro “smart” e cioè il lavoro flessibile che prevede flessibilità di luogo (lavorare da casa, ma anche da un’altra sede diversa dal luogo di lavoro) e tempo (lavorare in orari flessibili, e non nell’orario fisso, tipicamente 8-16 o 9-17) di lavoro, grazie all’uso della tecnologia.

Ma cosa sappiamo dello smart working in situazioni normali, fuori dall’emergenza?

Quando, qualche anno fa, con Marta Angelici abbiamo iniziato a occuparci del tema non abbiamo trovato molto. Nonostante la parola sia inglese, fuori dall’Italia nessuno usava questo termine: “smart working” non esiste in nessun documento non italiano, in nessun paper accademico, in nessuna indagine giornalistica. Niente. Si parla semmai di “flexible work arrangements”, flessibilità di tempo, di luogo, lo stesso concetto, ma da nessuna parte si trova la parola “smart working”. Sembra che la parola sia stata introdotta da noi italiani, prima del coronavirus. Proprio da noi, a cui ora è così utile…

Al di là delle parole con cui viene indicata, la flessibilità nei tempi e luoghi di lavoro è sempre più apprezzata dai lavoratori in tutto il mondo: secondo una recente indagine Gallup su lavoratori americani, il 37 per cento è disposto a cambiare lavoro per avere flessibilità di luogo e il 54 per cento per avere orari flessibili, percentuali che salgono rispettivamente al 50 e al 63 per cento se consideriamo le risposte dei millenials.

Nonostante l’interesse e la diffusione, non abbiamo trovato studi rigorosi sugli effetti economici dello smart working. La letteratura economica sembrava ferma al telelavoro (si veda in particolare Nicholas Bloom, James Liang, John Roberts, and Zhichun Jenny Ying, 2014), di cui lo smart working è l’evoluzione e da cui si distingue per caratteristiche proprie ben precise. Non mancano indagini di tipo qualitativo, interviste ai lavoratori e varie analisi svolte su campioni di lavoratori che hanno utilizzato questa modalità di lavoro. Questo tipo di indagini non è molto informativa, poiché soffre di endogeneità (come facciamo a dire, per esempio, che lavorare smart rende più produttivi o più felici se non possiamo escludere che siano i lavoratori più produttivi o i più felici a lavorare smart?) e non ci permette di identificare i rapporti causa-effetto tra l’utilizzo dello smart working e le sue conseguenze sui risultati economici.

Leggi anche:  Un primo maggio dai bersagli sbagliati

I risultati di una ricerca

Nel paper “Smart working: work flexibility without constraints” con Marta Angelici abbiamo cercato di colmare il gap della ricerca e capire quali effetti ha lo smart-working sulla produttività dei lavoratori, sul loro benessere e sulla conciliazione tra vita lavorativa e personale.

Lo studio, iniziato nell’ambito del progetto Elena sviluppato dal dipartimento Pari opportunità con il Centro Dondena dell’Università Bocconi, ha previsto il disegno di un esperimento in cui un gruppo di lavoratori di una grande azienda è stato selezionato in modo casuale per lavorare smart per nove mesi (gruppo trattato) mentre un altro gruppo (di controllo) ha continuato a lavorare in modo tradizionale. Confrontando i risultati dei lavoratori del gruppo trattato e di quello di controllo abbiamo ottenuto una stima degli effetti causali dello smart working sugli indicatori rilevanti: produttività, benessere individuale e bilanciamento tra vita lavorativa e vita personale.

Il nostro obiettivo è stato esplorare attraverso l’analisi empirica dell’esperimento gli effetti dello smart working che, in linea teorica, ha potenziali effetti positivi e negativi. Da un lato infatti può ridurre i costi di spostamento per i lavoratori, alcuni costi aziendali (come riscaldamento, condizionamento, mense), migliorare la possibilità di conciliare lavoro e famiglia, aumentare l’utilità dei lavoratori che traggono beneficio da orari flessibili (perché, per esempio, hanno bisogno di una pausa per ragioni personali o familiari) e da luoghi flessibili (perché, per esempio, abitano lontano dalla sede di lavoro o hanno bambini piccoli oppure anziani che non possono lasciare soli) e in questo modo migliorare la loro produttività e anche il loro attaccamento all’impresa. Dall’altro lato, però, lo smart working può ridurre l’impegno, creare fenomeni di isolamento che potrebbero avere effetti negativi sulla produttività di alcuni lavori che richiedono elevata interazione e, riducendo il confine tra lavoro e casa, potrebbe anche creare il rischio di lavoro eccessivo e di stress per il lavoratore. Quale dei due effetti prevalga dipende dalla tipologia di lavoro (in particolare lavori di routine o non), dal contesto lavorativo e dalla durata del periodo flessibile durante la settimana lavorativa.

Nel caso che abbiamo analizzato il trade-off si è risolto a favore degli effetti positivi. I nostri risultati mostrano che lo smart working, utilizzato un giorno alla settimana per nove mesi, ha aumentato la produttività dei lavoratori, migliorato il loro benessere e il bilanciamento tra lavoro e famiglia.

Abbiamo misurato la produttività con un indicatore oggettivo, costruito sulla base dei risultati di ogni lavoratore nella sua mansione (numero di pratiche processate, numero di compiti portati a termine, numero di contratti elaborati e così via) e dal numero di giorni di assenza. L’indicatore è stato integrato con il giudizio dei lavoratori stessi e del loro supervisore secondo alcune dimensioni standard (efficienza, rispetto delle scadenze, pro-attività). I nostri risultati mostrano che i lavoratori smart hanno fatto mediamente 5-6 giorni di assenza in meno degli altri sul totale dei nove mesi di sperimentazione. Inoltre, hanno aumentato il rispetto delle scadenze di circa il 4 per cento (addirittura il 4,5 per cento quando l’indicatore è misurato sulle dichiarazioni del supervisore). Nessuna dimensione ha segnalato una riduzione significativa della produttività a causa dello smart working.

Leggi anche:  Jobs act: cancellarlo non risolve i problemi del lavoro

Anche il benessere dei lavoratori è aumentato: i lavoratori smart sono più soddisfatti della loro vita sociale, del loro tempo libero, sono più concentrati, apprezzano di più le loro attività quotidiane, riescono a risolvere meglio i problemi e a prendere decisioni, diminuisce lo stress e la mancanza di sonno. Lo scetticismo, anche legittimo, in base al quale ridurre il controllo sui lavoratori può far scendere il loro impegno, non ha riscontro nella nostra evidenza: anzi, i lavoratori smart si sentono più impegnati nel loro lavoro.

Tutti i lavoratori smart dichiarano di riuscire a bilanciare meglio lavoro e famiglia rispetto agli altri. L’effetto è più forte per le donne, come ci si aspettava, date le loro maggiori esigenze di bilanciamento tra lavoro e famiglia, in particolare nella società italiana. Ma è interessante notare che, nel nostro esperimento, gli uomini in smart working hanno aumentato il tempo dedicato alla cura e alle attività domestiche. Si tratta quindi di uno strumento in grado di ridurre le differenze di ruolo tra uomini e donne all’interno della famiglia, che hanno un peso fondamentale nel divario di genere sul mercato del lavoro. In altri termini, lo smart working aiuta anche la parità di genere.

Maggiore produttività, benessere, equilibrio tra vita lavorativa e familiare, minori disuguaglianze tra uomini e donne. Non sappiamo se lo smart working produrrà gli stessi effetti anche nell’attuale contesto di sperimentazione massiccia durante l’emergenza sanitaria. Sicuramente, i risultati della nostra ricerca suggeriscono che sarebbe positivo per i lavoratori, le imprese e per l’economia se questa nuova forma di organizzazione del lavoro restasse, almeno in qualche misura, anche dopo la fine dell’epidemia di coronavirus.

Lavoce è di tutti: sostienila!

Lavoce.info non ospita pubblicità e, a differenza di molti altri siti di informazione, l’accesso ai nostri articoli è completamente gratuito. L’impegno dei redattori è volontario, ma le donazioni sono fondamentali per sostenere i costi del nostro sito. Il tuo contributo rafforzerebbe la nostra indipendenza e ci aiuterebbe a migliorare la nostra offerta di informazione libera, professionale e gratuita. Grazie del tuo aiuto!

Leggi anche:  Quali sono i lavori minacciati dalle tecnologie digitali?

Precedente

Quando al governo destra e sinistra fanno la differenza

Successivo

La stabilità finanziaria richiede solidarietà in Europa

12 commenti

  1. bob

    io penso che in un Paese civile e progredito una dibattito del genere non dovrebbe neanche essere accennato. Lo smart working con l’emergenza non c’entra nulla, non è cosa attinente. E’ solo uno strumento che viene utilizzato in una emergenza come la mascherina, come l’autoambulanza. Mettiamo in dubbio di utilizzare un autoambulanza per portare un malato in ospedale? Lo portiamo con la carriola? Lo smart working è solo l’utilizzo della tecnologia per migliorare la qualità della vita in tutti i sensi. Oggi ci sono persone che a fronte di uno stipendio di 1400 euro mensili pagano oltre 400 euro di costi trasferta per raggiungere il posto di lavoro, tralasciando i disagi familiari di salute etc. Nel 2020 è odioso sentir dire ” ma il dipendente non può essere controllato”. Ma perché? E da chi? Il frutto di questa mentalità di controllare nasce da un Paese dove la stragrande maggioranza degli impiegati non sa cosa sia un CV dove ancora il lavoro si cerca per conoscenze familiari, per il prete , per il sindacalista e politicucchio di turno . Se da questa emergenza da questa guerra non capiamo che dobbiamo cambiare in fretta ( in fretta vuol dire domani) il virus lascerà solo macerie. Se ci domandiamo ancora ” … sarebbe positivo per tutti mantenerlo anche in futuro..” veramente siamo messi male.

    • Vercingetorige

      d’accordo, però: (i) il remote-working non è per tutti, quindi quando se ne parla sarebbe bene evitare di farlo passare come il futuro del lavoro (una grossa fetta di servizi richiederà comunque che per 1400 euro al mese si affrontino i costi di spostamento: è così per chi lavora negli ospedali con i malati, per chi taglia il prosciutto nei supermercati, chi apre e chiude le porte dei cinema, ….; per primario e secondario, ovviamente, valgono a maggior ragione le considerazioni qui sopra); (ii) una volta che ci siamo chiariti quali sono i lavori che potranno essere fatti da remoto, forse scopriremo che molti rientrano nell’ambito della PA e che la domanda sul controllo della produttività non è così peregrina. La giro in altro modo: non è che il ritardo nell’adozione di remote-working è una barriera per evitare che si discuta di produttività di certi uffici e certi lavoratori? Lavorare da remoto rende tutto tracciabile e tracciato (quante pratiche devi assolvere in una settimana per guadagnare quello che ti paghiamo?).

      • bob

        il problema è diverso. E’ un messaggio culturale che in questo Paese deve passare. Non devo controllarti se hai preso un impegno di lavoro per cui sei pagato. Credo, per esperienza diretta, che chi mentalmente accetta lo smart working ha una maturità tale. C’è un dato che nessuno dibatte molto significativo: nell’edilizia, nella ristorazione e in agricoltura la presenza di italiani è ormai quasi nulla. Di rimando siamo il Paese con maggiori abbandoni a scuola , con minori diplomati e laureati. Allora mi chiedo cosa fa l’Italiano? Viene da pensare a tanti inutili lavori burocratici che non solo non servono a nulla ma creano un ostacolo insormontabile alla modernizzazione di questo Paese. Le guerre, questa è una guerra in atto…fa ricominciare sempre da capo la storia lo insegna.

  2. Paola Profeta

    Lo studio mostra infatti che lo smart-working è positivo e benefico, come riportato nell’articolo. Non capisco la sua obiezione.

  3. Antonio

    Smart-working è una locuzione sbagliata, quello che intendiamo noi in inglese si dice “home working” o “remote working”. Altre info qui: http://blog.terminologiaetc.it/2016/09/19/significato-lavoro-agile-differenza-smart-working/

    http://blog.terminologiaetc.it/2020/03/09/significato-smartworking/

    • Paola Profeta

      Mi dispiace ma non è come dice lei. Home-working, o Remote working o Telecommuting è il lavoro da casa. E’ come il nostro telelavoro, che prevede lavorare da casa (con postazione fissa). Come spiegato nell’articolo, smart-working significa lavorare da una sede diversa dall’ufficio (propria abitazione O ALTRO) e con TEMPI flessibili. Può darsi che in alcune aziende si sia attivato il telelavoro, ma quello che stiamo vedendo è l’esplosione dello smart-working (lavorare da casa o da altra sede senza necessità di comunicare dove ci si trova, con flessibilità di scelta, e con orari flessibili). In inglese si parla di flexible work arrangements. A mio avviso la parola “smart-working” rende molto meglio il concetto. Ma al di là della parola, l’importante è capire il concetto: smart-working non è equivalente a lavorare da casa!

      • Federico Leva

        Il telelavoro è quasi sempre anche flessibile, quindi la distinzione fra telelavoro e “smart working” è scarsamente concreta. In ogni caso non vedo nessun problema a usare la traduzione “lavoro agile”…

      • LUCA D

        Professoressa, cosa ne pensa dell’applicazione in ambito bancario vista la presenza di dati sensibili? A mio avviso anche in questo ambito avrà uno sviluppo ampio, ma mi si contrappongono esigenze di sicurezza die dati trattati. Grazie.

  4. Lay

    Lo spero davvero che continui anche dopo l’emergenza, anche se non necessariamente per tutta la settimana.
    Lavorare da casa mi piace molto, è più facile gestire i momenti morti ed è più facile concentrarsi quando serve darci dentro, si lavora più comodi e senza sentirsi il fiato sul collo del capo/responsabile o chi per lui, è molto meno stressante e si lavora meglio… rispettando comunque le normali scadenze (si lavora più o meno uguale ma con meno stress e quindi meglio).
    Sacrificherei solo un giorno alla settimana per vedere colleghi/amici e far pausa pranzo insieme (ma anche solo quest’ultima sarebbe una buona cosa per tenere i contatti), per il resto mi sento più energico e meno stressato.

    È solo un peccato non potersi godere il tutto al 100%. In pausa pranzo è sconsigliato uscire e bisogna usare la mascherina. Non ci si può trovare a far pausa pranzo neanche con i colleghi vicini, ma più di tutto è il fattore “l’azienda non si fida di te, è costretta a fidarsi di te” che incide molto insieme alla situazione attuale sulla serenità dello smart working.
    Io sono contento di lavorare da casa ma non sono contento del fatto che l’azienda non si fidi di me e mandi mail per ricordarmi che lo smart working è una misura emergenziale, né sono contento del fatto che mentre io lavoro da casa tanti muoiano, altri siano costretti a casa senza certezze e che in generale tutti siano in uno stato negativo.
    Lo smart working sarà una bella cosa quando e se sarà applicato nel dopo-corona

  5. Renato Fioretti

    Nell’articolo si afferma:”fuori dall’Italia nessuno usava questo termine (Smart working), non esiste in nessun documento non italiano, in nessun paper accademico, in nessuna indagine giornalistica. A me risulta, invece, che i primi riferimenti disponibili a proposito di SmartWorking risalgono al 2008 e sono del CIPD (Chartered Institute of Personnel and Development). In due documenti si parla di “Smart working: the impact of work organisation and job design” e di “Smart working: how smart is UK PLC? Findings from organisational practice”. Le risulta? Cordialità.

  6. Stefano

    Penso di essere uno dei precursori dello smart working, visto che, grazie al lavoro che facevo (e faccio), riesco a operare in questo modo da quasi 20 aani. La mia esperienza è positiva, e condivido i vantaggi che elencate nel libro.
    Maggiore prodittività, sicuramente: se si trova un posto e un tempo tranquillo si lavora meglio e di più.
    Maggior flessibilità: che si creda o no, c’è più tempo e si possono quindi svolgere anche altre attività (ma non tinteggiare…)
    Maggior attenzione: meno rumori, più riservatezza giocano a favore di questo fatto.
    Fra i problemi, due che voi avete evidenziato oggi in un intervento ripreso da regione Lombardia.
    Scarsa iterazione con i colleghi: non c’è niente da fare, dal caffè alla riunione dopo qualche giorno scopriamo che ci mancano. E non per parlare di calcio….
    Difficoltà a separare pubblico e privato, lavoro e famiglia (anche da singoli).

    Io, a parte la situazione attuale, non ho mai lavorato da casa per più di 2-3 giorni di seguito: anche quando ero manager europeo, ed avevo i miei riporti in giro per il mondo, e quindi era inutile andassi in ufficio, dopo 2-3 giorni prendevo la macchina ed andavo.

  7. Elisa

    Salve, ci sono studi sugli eventuali impatti ambientali in termini di minori spostamenti? Grazie

Lascia un commento

Non vengono pubblicati i commenti che contengono volgarità, termini offensivi, espressioni diffamatorie, espressioni razziste, sessiste, omofobiche o violente. Non vengono pubblicati gli indirizzi web inseriti a scopo promozionale. Invitiamo inoltre i lettori a firmare i propri commenti con nome e cognome.

Powered by WordPress & Theme by Anders Norén