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Se l’epidemia mette le ali allo smart working

L’esigenza di arginare il contagio da coronavirus induce molte aziende a consentire che i dipendenti svolgano il lavoro da casa. E spinge il governo a rimuovere alcuni vincoli inopportunamente imposti al “lavoro agile” con la legge di tre anni fa.

Risparmio di tempo e di costi

Non tutto il male vien per nuocere. Se il Covid-19 avrà l’effetto di allargare la sperimentazione del lavoro agile, o smart working, e farne conoscere i possibili vantaggi, sarà un pur piccolo contrappeso positivo ai molti e gravi danni prodotti dall’epidemia. Questa forma di organizzazione del lavoro dipendente è ancora molto meno diffusa di quel che potrebbe, anche perché è conosciuta poco o in modo troppo impreciso: sono poco comprese le enormi sue potenzialità sul terreno del risparmio dei tempi di spostamento delle persone e dei costi logistici aziendali, ma anche sul terreno della riduzione del traffico urbano e dell’inquinamento.

Col termine “lavoro agile” si indica la prestazione lavorativa che, pur svolta in regime di subordinazione, si caratterizza tuttavia per il fatto di non essere soggetta al vincolo del doversi sviluppare in un determinato luogo piuttosto che in un altro; e, nella versione più spinta, neppure al vincolo del doversi svolgere secondo un determinato orario. Il coordinamento spazio-temporale, che caratterizza da sempre il lavoro subordinato tradizionale, è sostituito dal coordinamento informatico e telematico, che consente alla persona interessata di compiere il proprio lavoro mediante pc e Internet dal luogo liberamente scelto, purché sia possibile l’interconnessione stabile, o almeno la comunicazione e lo scambio di dati in tempo reale con l’azienda.

La differenza dal tele-lavoro

L’antecedente storico del lavoro agile è il tele-lavoro, che ha avuto qualche diffusione già negli anni Ottanta ed è stato oggetto di accordi aziendali in alcune grandi imprese. Ma si tratta di una cosa molto diversa: il telelavoro era una forma di organizzazione tutt’altro che agile. Comportava infatti l’istallazione presso l’abitazione del lavoratore o in altro luogo concordato di una postazione attrezzata fissa assai ingombrante, con una consolle e un monitor, collegata con l’azienda via cavo o via radio, mediante la quale la persona interessata svolgeva a distanza, esattamente come la avrebbe svolta recandosi in azienda, un’attività di contenuto professionale per lo più modesto: mansioni di centralino, di call centre e simili. Il tele-lavoro, dunque, non consentiva affatto la libera scelta e variabilità del luogo e del tempo di svolgimento dell’attività. Implicava un ingente investimento da parte dell’impresa ed era compatibile soltanto con un novero assai ristretto di mansioni.

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Il lavoro agile, invece, non richiede un investimento rilevante, è praticabile in una gamma amplissima di mansioni, ed è particolarmente congeniale a quelle di contenuto professionale più elevato. Dalla metà degli anni Novanta accade sempre più diffusamente che un lavoratore dipendente, d’accordo con l’imprenditore, in determinati periodi nel corso della giornata, della settimana, del mese o dell’anno, svolga la prestazione da un luogo qualsiasi, liberamente scelto di volta in volta, diverso dalla sua postazione situata nei locali dell’azienda. E in alcuni casi non sono singoli segmenti, ma è l’intera prestazione di lavoro a essere svolta secondo questa modalità: il lavoratore in azienda ci va solo ogni tanto, o in alcune occasioni particolari, ma per il resto del tempo è contattabile via telefono, email o altre forme di comunicazione telematica.

Il riconoscimento legislativo

Con la legge n. 81 del 2017 la forma nuova di organizzazione del lavoro resa possibile dal pc e da Internet ha avuto anche un riconoscimento legislativo esplicito. Del quale, a rigore, non ci sarebbe stato bisogno, essendo il lavoro agile già di fatto praticato senza problemi; ma il legislatore ha voluto dare un segnale di ammodernamento del diritto del lavoro e allo stesso tempo incoraggiare la diffusione di questa buona pratica.

Senonché la legge ha, semmai, messo un po’ di piombo nelle ali del lavoro agile. I sette lunghi articoli dedicati a regolare la materia avrebbero ben potuto essere sostituiti da due righe che dicessero: “Il lavoro agile è soggetto alla disciplina propria del lavoro subordinato, a eccezione delle norme in materia di collocazione ed estensione temporale della prestazione”. Invece la nuova legge ha introdotto alcune bardature burocratiche, delle quali si sarebbe potuto benissimo fare a meno: la necessità, innanzitutto, di una pattuizione scritta (articolo 19), della sua comunicazione agli organi amministrativi competenti (articolo 23), nonché della consegna al lavoratore e al rappresentante aziendale per la sicurezza di una “informativa almeno annuale” sui “rischi specifici connessi alla particolare modalità di esecuzione” della prestazione (articolo 22). Nessuno è stato in grado di chiarire quale possa essere l’oggetto di questa informativa, dal momento che nel lavoro agile il datore è, per definizione, non responsabile e neppure necessariamente informato del luogo dove la prestazione si svolge.

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Fatto sta che il governo, di fronte al rischio di diffusione del nuovo coronavirus, volendo incoraggiare il ricorso al lavoro agile da parte delle aziende delle regioni interessate dal contagio, ha dovuto emanare una norma apposita – nel decreto del presidente del Consiglio dei ministri n. 6/2020 – per esentarle temporaneamente dalla pattuizione scritta e per autorizzare la consegna dell’informativa sui rischi specifici (ma quali?) per via telematica.

Un mutamento profondo nella struttura del rapporto di lavoro

Il vero problema per la diffusione del lavoro agile sta nel fatto che esso comporta un mutamento profondo nella struttura del rapporto contrattuale. Viene meno, infatti, la possibilità di misurare la quantità del lavoro sulla base della sua estensione temporale: il creditore della prestazione può osservarne solo il risultato immediato e di questo tenere responsabile il lavoratore. Donde una piccola rivoluzione nei sistemi di gestione del personale, per la quale molte imprese non sono preparate. Ma chissà che proprio il coronavirus non le costringa a fare di necessità virtù, accelerando un’evoluzione che altrimenti sarebbe stata più lenta.

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  1. Savino

    Allora non era necessario licenziare, in questi 20 anni, malati oncologici, diabetici e cardiopatici? E, poi, non è che il lavoro da casa è così facile perchè, nei fatti non si produce nulla?

  2. Enrico

    Sono perfettamente d’accordo con il prof. Inchino: una maggiore diffusione del lavoro agile sarà uno dei pochi effetti positivi di questa emergenza sanitaria (assieme all’auspicabile miglioramento dell’igiene e allo sviluppo di nuovi antivirali come per l’AIDS). Temo tuttavia che questa forma di lavoro si scontrerà con almeno due ostacoli: 1) l’ossessione burocratica per la misurazione del tempo di lavoro, piuttosto che dei suoi risultati, che accomuna i sindacati e molti “riformatori” della PA (la cultura del cartellino, con eventuali pittoreschi controlli biometrici, e degli straordinari); 2) il costo di riorganizzare completamente la produzione, che supera ampiamente quello delle infrastrutture necessarie al lavoro agile (qualche portatile, una VPN, internet veloce quasi ovunque, banche dati condivise in modo sicuro, ecc.). Credo che gli stati, invece di sprecare risorse in indennizzi a pioggia per l’epidemia, debbano promuovere questa trasformazione organizzativa con investimenti massicci in infrastrutture, formazione e consulenza alle imprese. I sindacati, a loro volta, dovrebbero cogliere l’opportunità di rafforzare la posizione contrattuale di un lavoratore, rendendolo finalmente libero di lavorare per chi vuole e quando vuole. In caso contrario, passata l’emergenza, temo che si tornerà ai vecchi metodi di lavoro.

  3. Marco De Antoni Ratti

    io mi preoccuperei della leggerezza con la quale il governo ha messo sotto i piedi la Costituzione, sfruttando l’emergenza sanitaria per militarizzare lo Stato e abituare gli italiani a convivere con i militari per strada, partendo dal “progetto pilota” di Lodi e Codogno.
    https://www.corriere.it/cronache/20_febbraio_27/coronavirus-fugge-codogno-trovato-firenze-altri-5-fuga-zone-rosse-871f3486-592c-11ea-af71-899699a3d6d8.shtml

    L’edizione odierna del “Corriere della Sera” afferma che per chiunque tenti di violare la cosidetta “Zona Rossa” trova applicazione l’articolo 650 del codice penale, che prevede un’ammenda ridicola fino a 206 euro, ma anche la reclusione fino a tre mesi.
    Intanto, il Governo ribadisce le sue intenzioni pacifiche e non violente schierando nelle strade l’esercito e i mezzi pesanti (contro il popolo italiano), come rinforzo dei Carabinieri già presenti a pattugliare i luoghi incriminati.

    Gli italiani che varcano la zona rossa vengono chiamati “fuggitivi. Il passo successivo di questa graduale introduzione programmata della legge marziale sarà l’ordine di sparare a vista a chiunque non rispetti i posti di blocco, nè più nè meno di quanto già accade ad un comune delinquente che tenta di forzare un blocco di polizia non fermandosi all’alt intimato.
    Questa gente non ha cibo nè acqua e si mette in coda alle sei del mattino per procurarsi il necessario da vivere. Non abbiamo tuttavia visto quali sono i prezzi praticati dai pochi centri di distribuzione aperti

    • toninoc

      @@@ Marco De Antoni Ratti 27/02 h 11,46. I militari dell’esercito Italiano sono stati da sempre impiegati anche in operazioni di tipo “civile” soprattutto durante e dopo eventi di calamità naturali come alluvioni , terremoti od altro. Da militare di leva ho partecipato al trasporto urbano dei cittadini di Roma durante un lunghissimo sciopero dei tranvieri che aveva generato notevoli disagi alla popolazione e ricordo che anche durante l’alluvione nel Polesine o di Firenze l’impiego dei militari è stato ampio ed utilissimo. Non so se questo abbia disatteso qualche principio costituzionale, so che in ogni caso sono stati utili alla popolazione nei momenti di grande necessità .
      Inoltre l’Italia non è l’Argentina di Videla o il Cile di Pinochet ma una salda Democrazia e quindi ben venga l’aiuto dell’esercito nelle zone rosse infette dal corona virus.

  4. parte 2: l’art. 650 del codice penale teoricamente prevede la possibilità di impugnare un provvedimento illegittimo davanti al giudice, ma in concreto i tribunali restano chiusi e gli avvocati sono divenuti irreperibili proprio nelle zone in cui servirebbero.

    I provvedimenti hanno in sé scarsa legittimità. Prima dell’emergenza, l’unico provvedimento restrittivo della libertà personale ammesso nella potestà dei sindaci era il Trattamento Sanitario Obbligatorio, avente durata massima di una settimana non prorogabile e il quale richiedeva la controfirma di due ufficiali sanitari a fronte di un referto medico.

    Ai cittadini non resta altro da fare che proporre un ricorso d’urgenza al prefetto avverso le ordinanze dei loro sindaci ritenute arbitrarie in tema di obbligo di residenza domiciliare ovvero di interdizione di un’intera area.

    Nel momento in cui il Governo schiera l’esercito per le strade, diviene pressochè scontata la riposta.

  5. Marco De Antoni Ratti

    parte 2: l’art. 650 del codice penale teoricamente prevede la possibilità di impugnare un provvedimento illegittimo davanti al giudice, ma in concreto i tribunali restano chiusi e gli avvocati sono divenuti irreperibili proprio nelle zone in cui servirebbero.

    I provvedimenti hanno in sé scarsa legittimità. Prima dell’emergenza, l’unico provvedimento restrittivo della libertà personale ammesso nella potestà dei sindaci era il Trattamento Sanitario Obbligatorio, avente durata massima di una settimana non prorogabile e il quale richiedeva la controfirma di due ufficiali sanitari a fronte di un referto medico.

    Ai cittadini non resta altro da fare che proporre un ricorso d’urgenza al prefetto avverso le ordinanze dei loro sindaci ritenute arbitrarie in tema di obbligo di residenza domiciliare ovvero di interdizione di un’intera area.

    Nel momento in cui il Governo schiera l’esercito per le strade, diviene pressochè scontata la risposta.Grazie per il suo interessante articolo.Marco De Antoni Ratti

  6. Marco Spampinato

    Una piccola rivoluzione, ma rivoluzione. Ed incontra ostacoli culturali in quella preferenza per il controllo capillare su tempo e luoghi del ‘lavoro’ che esercita chi vorrebbe persino controllare le ‘teste’. Questo dal lato dei manager. Dall’altro c’è il perfetto timbratore di cartellino, in entrata e in uscita, che può finire per amare quella perfetta routine. Nella PA (tolti i servizi ‘a sportello’, riorganizzabili), il perfetto impiegato si affeziona a buono pasto e cartellino: il termine lavoro non indica lo sforzo finalizzato ad un risultato ‘visibile’ (consegnato via email, internet, o presentato a voce), ma il tempo passato in ‘corridoi e chiacchiere’, pettegolezzi, riunioni interminabili. Se l’intera PA diventasse ‘smart’, c’è da chiedersi quanti posti tradizionali entrerebbero in crisi. E soprattutto quante posizioni lavorative ad alto contenuto di conoscenza potrebbero svilupparsi. Un ricercatore può avere bisogno di un laboratorio sperimentale, ma non è detto gli serva tutti i giorni, e potrebbe condividerlo su prenotazione. Milioni di giovani e meno giovani possono preferire l’autonomia su dove studiare, leggere, e come e quando riunirsi con i colleghi. L’impatto su mobilità e ambiente sembra di grande interesse. Tuttavia, le rivoluzioni trovano molti conservatori, anche mascherati da progressisti. Rivendicazioni collettive da fare ce ne sono: solo chi è ben pagato può permettersi luoghi adeguati a lavorare ‘smart’ (a partire da una casa decente).

  7. Andrea

    Come è possibile che alcune aziende non riconoscano il buono pasto quando la prestazione è svolta dal domicilio, non vale la legge sul lavoro agile art.20 comma 1 “Il lavoratore che svolge la prestazione in modalità di lavoro agile ha diritto ad un trattamento economico e normativo non inferiore a quello complessivamente applicato, in attuazione dei contratti collettivi di cui
    all’articolo 51 del decreto legislativo 15 giugno 2015, n. 81, nei confronti dei
    lavoratori che svolgono le medesime mansioni esclusivamente all’interno
    dell’azienda.”?

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