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Lavori che possiamo continuare a svolgere

Quanti lavori possiamo svolgere da casa? Quanti altri tutelando sicurezza di lavoratori e consumatori? E quanti ancora potremo svolgerne con meno restrizioni? Molti. Potranno essere ancor più se le imprese investiranno in tecnologie che tutelano il lavoro e proteggono dal rischio epidemico.

Il lavoro in tempo di epidemia

Da due settimane siamo passati a tre settimane di blocco totale e alla chiusura delle fabbriche e di tutte le attività che non siano strettamente necessarie. C’è chi pensa che ci vorrà ancora un mese di fortissime restrizioni alla mobilità per permettere al nostro sistema sanitario di reggere l’urto della pandemia. Bene allora porsi alcune domande:

1) Quanti saranno i lavori che potranno essere comunque svolti anche sotto le restrizioni? E quando passeremo a norme leggermente meno stringenti sulla mobilità, quanti altri lavori possiamo realisticamente recuperare?
2) Ci sarà un costo in termini di minore produttività associato al lavoro a distanza?
3) Come agire su quei lavori che non possono essere agevolmente messi in sicurezza?

Quanti lavori in sicurezza?

Partiamo dal primo quesito. Se l’Italia avesse un’economia come quella di Israele, con l’80 per cento dei lavoratori nei servizi e un terzo degli addetti alla manifattura operanti in settori high-tech, potrebbe prevenire il rischio di contagio da Covid-19 senza grossi traumi sul piano economico. Una quota molto alta di lavori, infatti, potrebbe essere svolta da casa minimizzando il rischio di contagio.

L’Italia ha, invece, una struttura economica con un peso ancora rilevante della manifattura (dà lavoro a un quarto degli occupati) e un livello ancora limitato di digitalizzazione e robotizzazione. Ci sono circa 3 milioni e mezzo di operai nell’industria che oggi lavorano spesso l’uno a stretto contatto dell’altro. Certo, molte mansioni, anche nel manifatturiero, possono essere gestite a distanza, come i servizi amministrativi e la commercializzazione dei prodotti. Tuttavia, è anche vero che la struttura industriale è composta da molte piccole imprese in settori tradizionali, che sono tipicamente meno inclini a investire nelle tecnologie che permettono di ottimizzare il lavoro a distanza. A parità di distribuzione della manodopera fra settori, questo penalizza l’Italia rispetto ad altri paesi: solo un occupato su cinque dichiarava nel 2018 di avere qualche volta lavorato da casa nell’ultimo anno. Altrove, in Europa, il rapporto è di uno su tre (fonte: report Eurofund).

Ma un conto è il numero di lavori che oggi vengono svolti a distanza. Un altro conto è quanti potrebbero essere svolti a distanza anche subito, con cambiamenti non radicali nell’organizzazione produttiva, e un altro ancora è quanti altri, pur prevedendo uno spostamento, garantiscono comunque condizioni di sicurezza ai lavoratori e a chi beneficia dei loro servizi.

Siamo partiti da una classificazione O-Net (Occupational Information Network), un database che definisce mansioni e caratteristiche di centinaia di occupazioni, per stimare il numero di lavori che potenzialmente potrebbero essere svolti a distanza o, pur comportando uno spostamento, potrebbero comunque svolgersi in condizioni di ragionevole sicurezza. Il problema è che la classificazione guarda solo alla necessità generica di contatti frequenti, senza specificare se questi contatti avvengano di persona, per via telefonica o online. Abbiamo dunque riclassificato le occupazioni presenti nella lista O-Net in quattro categorie che permettessero di distinguere i vari gradi di contatto interpersonale che intercorrono tra la necessità quotidiana di frequenti contatti de visue la possibilità di lavoro da casa propria.

Nella “categoria 1” abbiamo inserito tutte le occupazioni che possono essere condotte direttamente dalla propria abitazione online oppure fruendo di altri mezzi, senza però richiedere uno spostamento fisico del lavoratore. Per fare alcuni esempi, fanno parte di questa categoria docenti universitari, ingegneri, architetti, avvocati, manager, lavoratori del comparto assicurativo e finanziario.

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A seguire, abbiamo incluso nella “categoria 2” non solo tutte le occupazioni che possono essere svolte da casa, ma anche quelle che richiedono uno spostamento fisico senza comportare un contatto con altre persone sul luogo di lavoro. Fanno parte di questa seconda categoria (ma non della prima, che è un sottoinsieme della seconda) giardinieri, orefici, chimici, archivisti, guardie forestali, veterinari e altri lavoratori a contatto con gli animali.

La “categoria 3” include anche lavori che richiedono mobilità personale e anche contatti con colleghi, purché siano sporadici e possano avvenire con ragionevole sicurezza di evitare il contagio. Fanno parte della categoria 3 (ma non delle categorie 1 e 2) meccanici, elettricisti, idraulici, autotrasportatori, operatori di gru e trivelle. Rimangono così escluse tutte quelle occupazioni in cui i contatti frequenti di persona sono inevitabili e a rischio di imporre incontri ravvicinati a se stessi o ai propri utenti. Ad esempio, ci riferiamo, oltre che ai medici e agli infermieri, agli insegnanti d’asilo, ai baristi, agli istruttori di fitness, ai muratori nei cantieri edili (che hanno peraltro continuato a lavorare in queste settimane), agli operai in catena di montaggio.

Si tratta comunque di una classificazione restrittiva, in quanto diversi lavori potrebbero essere riportati a standard di sicurezza. Ad esempio, le lezioni di fitness possono anche essere svolte on line. La catena di montaggio, anche mediante investimenti in automazione, potrebbe evitare contatti ravvicinati fra gli operai, e così via.

Una volta compiuta la categorizzazione, abbiamo ricondotto le occupazioni O-Net alla codifica del sistema statunitense Soc (Standard Occupational Classification) per poi arrivare finalmente alla classificazione delle occupazioni utilizzata dalle statistiche comunitarie (Isco, International Standard Classification of Occupations). Poiché non per tutte le occupazioni esiste una corrispondenza uno a uno tra il sistema Soc e Isco, abbiamo applicato medie ponderate (i cui pesi sono dati dal numero di occupati medi in ciascuna occupazione negli Stati Uniti) per mappare le categorie assegnate alle occupazioni Soc che sono riconducibili a una medesima occupazione Isco.

Ottenuta così la classificazione Isco corrispondente alle tre categorie, abbiamo potuto calcolare la quota di lavori che possono essere svolti in sicurezza in Italia, utilizzando i dati delle forze lavoro 2017. La figura 1 riporta i nostri risultati.

Come si vede, circa un quarto degli occupati in Italia svolge un lavoro che può essere fin da subito eseguito dalla propria abitazione (“categoria 1”), un terzo può svolgere le proprie mansioni da casa o spostandosi senza dover necessariamente avere contatti de visu(“categoria 2”) e attorno alla metà degli occupati può lavorare da casa, recarsi al lavoro senza contatti di persona o averli solo sporadicamente (“categoria 3”).

Quali costi in termini di minore produttività?

Passiamo alla seconda domanda. Secondo un’indagine curata da Astra Ricerche per Manageritalia su un campione di circa 1.400 iscritti all’associazione, sono sempre di più le imprese che, a seguito dell’epidemia, hanno organizzato il lavoro a distanza per tutte le mansioni per cui questo è possibile. Il 70 per cento degli intervistati dichiara di avere adottato questa modalità di lavoro che, in circa il 40 per cento dei casi, non rappresenta una semplice estensione di pratiche di lavoro a distanza già esistenti per alcuni dipendenti, ma un vero e proprio ampliamento della platea di lavoratori coinvolti. Lo smart working riguarda oggi molti dipendenti che sin qui non lo avevano mai praticato. Il tutto sembra avvenire, secondo chi risponde all’indagine, senza pesanti contraccolpi negativi sulla produttività: solo il 5 per cento dei rispondenti sostiene che il lavoro a distanza ha comportato un abbassamento della produttività per lavoratore. Le cose cambiano da settore a settore: si va dall’11 per cento dei manager che riscontrano un impatto negativo del telelavoro nel settore dei media ed editoria al 2 per cento del settore It e telecomunicazioni. L’indagine Manageritalia poneva anche una domanda sulle aspettative dei manager riguardo all’adozione di questa modalità di lavoro anche dopo l’emergenza. Il 51 per cento dei rispondenti è convinto che potrebbe giovare al benessere dei lavoratori e alla produttività aziendale, a patto che vi sia una diversa organizzazione del lavoro. Anche in questo caso la percentuale varia notevolmente tra i diversi settori: si passa dal 61 per cento dei servizi assicurativi, bancari e finanziari al 32 per cento di turismo e ospitalità.

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Se organizzato assegnando obiettivi individuali, il lavoro a distanza in effetti può aumentare la produttività, riducendo le assenze e ottimizzando il tempo dei lavoratori anche alla luce della non più necessaria mobilità verso il luogo di lavoro. A differenza che in passato, lo smart working andrebbe però imposto a tutti, anche a chi in condizioni normali preferirebbe recarsi sul posto di lavoro e non avere obiettivi individualizzati. Tuttavia, molti studi sperimentali (con gruppi trattati e gruppi di controllo randomizzati) dimostrano che lo smart working non provoca riduzioni della produttività pro capite anche quando “imposto” ai lavoratori. Semmai diminuisce la produttività per ora lavorata, ma questo non è un problema per l’azienda posto che il lavoro agile (a differenza del telelavoro) non è basato su orari rigidi di lavoro, bensì sull’assegnazione di compiti da svolgere in un dato arco di tempo. La permanenza a casa, soprattutto quando ci sono i figli, spinge a fare tante altre attività familiari spezzettando nel tempo il lavoro per l’azienda, il che può non essere efficiente in tutti i casi in cui il completamento di un alto numero di mansioni in rapida successione (batch working) funziona meglio che un metodo di lavoro segnato da lunghe interruzioni tra una mansione e l’altra, ma alla fine gli obiettivi di produzione individuali vengono pur sempre raggiunti.

Cosa fare per gli altri lavori?

Rimane infine il quesito su cosa fare per quella quota maggioritaria di lavori che richiedono una profonda riorganizzazione per essere messi al riparo dal contagio di epidemie (anche una volta debellato il Covid-19). Qui saranno necessari investimenti, anche non marginali. Ma sono proprio gli investimenti che andrebbero oggi incentivati attraverso gli aiuti pubblici alle imprese e ai lavoratori. A differenza di altri paesi che hanno un debito pubblico molto più basso del nostro, l’Italia non sembra oggi in condizione di offrire garanzie sui prestiti bancari concessi alle imprese per fronteggiare l’emergenza. Potremmo però limitarci a fornirle a quelle imprese e a quei lavoratori che utilizzino le risorse per adeguare l’organizzazione del lavoro al rischio epidemico. L’esame di congruità spetterebbe alle banche. Sarebbe salutare sviluppare competenze di questo tipo negli istituti di credito. E sarebbe un esempio di come le tecnologie salvano, anziché distruggere, il lavoro rendendolo per tutti più sicuro.

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Scelte in corsia: i criteri per guidarle

  1. Savino

    I primi che devono smetterla di fare gli opinionisti tv e mettersi a studiare seriamente il virus sono i virologi, i quali hanno spaventato tutti ed ora nessun cittadino vuole tornare al suo lavoro e al suo quotidiano. Il decalogo dei comportamenti di prevenzione e le misure di contenimento debbono trasformarsi in un manuale di convivenza, anche per 1-2 anni, col virus. Non possiamo stare più di qualche settimana tappati in casa. C’è chi il carrello della spesa non lo può riempire per indisponibilità. Stato, Regioni e Comuni debbono adottare provvedimenti uniformi, senza equivoci e con equità (non favorendo i grandi industriali e professionisti e lasciando a piedi i piccoli imprenditori, i commercianti, gli artigiani e le partite IVA). Alcune istituzioni e categorie non stanno facendo il bene, nè sanitario, nè economico, dell’Italia.

  2. Lorenzo

    Poi ti accorgi che l’Italia è dietro la Turchia in fatto di e-government e che (Berlusconi docet) pensiamo ancora agli incentivi al semper moribondo digitale terrestre e non alla fibra

  3. bob

    Una tecnologia che dovrebbe rientrare in una logica e lungimirante politica di sviluppo di un Paese ( ma prima di queste emergenza dove eravamo?) viene “catturata” prima ancora che dalle aziende dalla famelica inutile burocrazia per ricamarci sopra quel concentrato di “intelligenza” che Pietro Ichino ci ha spiegato nel Suo intervento.

    Lavori che possiamo continuare a svolgere? Edilizia, agricoltura, ristorazione, assistenza anziani. Cioè i comparti dove l’italiano non è più presente. L’elevato numero di abbandoni scolastici, il minor numero di diplomati e laureati, le percentuali di analfabetismo da paura non ci consentiranno di fare altre cose

  4. CRISTIANO

    Io e il mio socio abbiamo una piccola falegnameria abbastanza moderna. Il dipendente per sicurezzac è a casa. Avremmo anche del lavoro e un po’ di scorte. Viviamo anche nello stesso comune nel quale abbiamo l’attività (e questo credo sia la situazione di molte realtà come la nostra). Potremmo lavorare a distanza di sicurezza, in due in 600 mq. Ma non possiamo. Invece possia fare la fila fuori dall’edicola (dove edicolante non ha mascherina perché esaurite) o fuori da un supermercato per poi ritrovarci all’interno con 50/100 persone! Si sta facendo una politica ottusa, basata soprattutto sulla paura e sui moduli da stampare ma nessuna parola sulla strategia per il dopo emergenza! Questi pensano che dopo averci rinchiuso per mesi, quando daranno il via libera la gente farà tutto come se nulla fosse accaduto. Ci vorranno mesi per avere persone al lavoro o nei locali perché la paura del virus sarà sempre in agguato.

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