Nelle carceri italiane la diffusione del coronavirus è stata contenuta. Anche prima dei provvedimenti del governo, i magistrati di sorveglianza hanno utilizzato norme già presenti nel nostro ordinamento per garantire la salute di detenuti e personale.
Prigioni sovraffollate e diffusione del virus
L’emergenza sanitaria ha sollevato la questione della tenuta del sistema penitenziario del nostro paese. Un sistema malato da tempo e che all’arrivo della pandemia era caratterizzato da un tasso di affollamento pari al 120,2 per cento – secondo i dati ufficiali, considerati sottostimati rispetto a quelli reali. In una situazione già di per sé compromessa, è intervenuta la minaccia di un virus contro cui le uniche armi a disposizione sono il distanziamento sociale e una corretta igiene personale.
A leggere alcuni dei dati pubblicati in questi giorni da Antigone, l’associazione per i diritti e le garanzie nel sistema penale, la preoccupazione che il carcere potesse rappresentare il luogo ideale per l’esplosione di focolai di contagio, al pari di quanto successo nelle residenze sanitarie assistenziali, era più che fondata. Basti guardare, ad esempio, al tasso di affollamento negli istituti penitenziari situati nelle regioni più colpite dal virus: il 140,7 per cento in Lombardia, il 135,8 per cento in Veneto, il 130,3 per cento in Emilia Romagna. Oppure, alle inadeguate condizioni igieniche in cui è costretta a vivere una popolazione detenuta composta per il 25 per cento da over 50 e per il 67,5 per cento da persone con almeno una patologia: celle senza acqua calda (dato rilevato in 45 carceri su 98 tra quelle visitate dall’associazione nel 2019), con servizi sanitari a vista in cella (in 8 istituti su 98) e con l’accesso alla luce del giorno e all’aerazione degli ambienti ridotto, se non del tutto compromesso, dalla presenza di schermature alle finestre (in 29 penitenziari su 98).
Eppure, le carceri italiane non hanno (finora) rappresentato focolai di diffusione del virus. Anzi, i dati fotografano un numero di contagi in linea, se non inferiore, rispetto a quelli di altri paesi europei: in Italia al 15 maggio i detenuti positivi erano 119 e gli operatori penitenziari 162, contro i 410 contagi tra detenuti e agenti in Francia all’8 maggio e 378 positività nelle carceri spagnole al 12 maggio.
D’altronde, la maggior parte dei paesi europei ha avuto il merito di prevedere il potenziale impatto devastante che il virus avrebbe potuto causare all’interno delle carceri, riuscendo a limitarne la diffusione. Due i principali fronti sui quali si è agito: interruzione dei contatti con l’esterno tramite il divieto di colloqui con i famigliari; scarcerazione di detenuti particolarmente anziani e con patologie pregresse, di quelli con un minimo residuo di pena da scontare e di quelli reclusi per reati minori o non violenti. Al contrario, proprio laddove non si è intervenuti con decisione, si riscontrano i numeri di contagio più alti: il Regno Unito, dove al 12 maggio erano stati rilasciati soltanto 88 carcerati, detiene il triste record europeo del maggior numero di contagi all’interno degli istituti penitenziari, con 837 positivi e 29 morti tra detenuti e personale penitenziario. Per non parlare poi degli Stati Uniti, dove è stato scarcerato solo l’1,8 per cento della popolazione detenuta (meno di un decimo rispetto a quanto fatto in Italia e in Francia) e dove al 5 maggio i detenuti e gli operatori penitenziari risultati positivi al virus erano rispettivamente 21 mila e 9 mila, con ben 319 decessi segnalati.
Figura 2 – Andamento popolazione detenuta in Italia durante l’emergenza Covid-19.
Il ruolo della magistratura di sorveglianza
I dati raccolti da Antigone ci raccontano, tuttavia, qualcosa di più. Dimostrano come il contenimento della diffusione dell’epidemia nelle carceri del nostro paese sia solo in parte dipeso dalla legislazione d’emergenza adottata dal governo a fine marzo, con l’emanazione degli articoli 123 e 124 del decreto “cura Italia” (poi convertito con legge n. 27 del 24 aprile 2020) e l’applicazione di iter più snelli per l’accesso alla misura della detenzione domiciliare previsto dalla legge 199/2010 per chi doveva scontare una pena residua inferiore ai 18 mesi, assieme alla concessione di permessi premio per chi già si trovasse in semilibertà, con durata sino al 30 giugno 2020.
Fin dalla fine di febbraio un ruolo preponderante, infatti, è stato svolto dalla magistratura di sorveglianza. Nella consapevolezza del potenziale impatto che il diffondersi del contagio avrebbe prodotto all’interno degli istituti penitenziari, i giudici hanno adottato una serie di provvedimenti facendo ricorso a strumenti già esistenti nel nostro sistema giuridico: in particolare gli istituti dell’affidamento in prova, della detenzione domiciliare previsti dagli articoli 47 e 47-ter della legge sull’ordinamento penitenziario e il differimento della pena ai sensi dell’articolo 147 codice penale.
Nello specifico: da fine febbraio al 19 marzo, pur in assenza degli interventi emergenziali del governo, il numero di detenuti è calato di 1.811 unità, con una media di 95 persone in meno al giorno; dal 19 marzo al 16 aprile, anche a seguito dell’entrata in vigore del decreto legge “cura Italia”, si è registrato un calo di 4.421 detenuti, 158 persone in meno al giorno; infine, dal 16 aprile in poi, con lo scoppio delle polemiche sulle “scarcerazioni facili”, si è avuto un rallentamento delle uscite, con una media di 77 persone in meno al giorno.
In un sistema in cui il tasso di occupazione delle nostre carceri rimane a tutt’oggi pari al 107 per cento con alcune situazioni drammatiche a livello locale, come ad esempio negli istituti penitenziari di Latina (179,2 per cento) o di Taranto (187,6 per cento), la crisi sanitaria ha quindi messo in luce l’importanza del clima culturale in cui gli operatori del diritto si trovano a lavorare. Senza attendere gli strumenti predisposti per l’emergenza, i magistrati di sorveglianza sono stati in grado di ricorrere alle disposizioni normative già presenti nel nostro ordinamento giuridico, dimostrando come attraverso un utilizzo costituzionalmente orientato di alcuni istituti ordinari sia comunque possibile contribuire a costruire un sistema carcerario in cui siano garantite la salute dei detenuti e l’umanità del trattamento al quale sono sottoposti. E forse, se analogo sforzo di adesione alla lettera delle disposizioni e alla ratio dei principi fosse speso nella richiesta e nella applicazione della misura cautelare della custodia in carcere, anche il problema del sovraffollamento potrebbe essere in buona parte risolto.
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