Lo scambio proposto da Intesa Sanpaolo agli azionisti di Ubi è vantaggioso per chi cede le proprie azioni. La mossa non si spiega solo con la ricerca di sinergie. Ma con il potere di mercato che una mega-banca acquista verso famiglie, imprese e governi.
L’offerta di Intesa agli azionisti Ubi
Ha preso il via l’offerta pubblica di scambio (Ops) promossa da Intesa Sanpaolo su Ubi Banca: fino al 28 luglio (salvo sorprese) gli azionisti di quest’ultima potranno decidere di consegnare le proprie azioni ricevendo, per ognuna, 1,7 titoli dell’istituto offerente.
Nei mesi antecedenti l’annuncio dell’operazione il mercato “prezzava” un’azione Ubi tra 1,1 e 1,3 titoli di Intesa: una valutazione abbastanza stabile, come si vede dal grafico 1, prontamente rivista al rialzo quando si è affacciata la possibilità di fare scambio a condizioni migliori. Per effetto del rialzo, Ubi è tra le pochissime banche italiane i cui azionisti non abbiano perso soldi col coronavirus: il 10 luglio il titolo guadagnava qualche centesimo dall’inizio dell’anno.
Simili guadagni si sgonfierebbero come un soufflé se l’offerta dovesse fallire, ed è probabile che gli azionisti di Ubi decidano tenendo una mano sul cuore e l’altra sul portafogli. Meglio così che ascoltare gli esperti ingaggiati da Ubi medesima (due blasonatissime banche d’affari) che giudicano l’offerta svantaggiosa sulla base di un singolare procedimento. Il “vero” valore dei due titoli viene calcolato, infatti, ignorando le valutazioni del mercato e confrontando invece gli utili futuri previsti per le due banche. Idea rispettabilissima, se non fosse che le previsioni relative a Ubi sono quelle stilate dal suo stesso management, mentre per Intesa Sanpaolo si usano le stime “neutrali” degli analisti di borsa (in qualche caso addirittura riviste da Ubi stessa). È come scegliere tra due ristoranti chiedendo al primo se si mangia bene e valutando il secondo con la guida Michelin (magari “aggiustata” dal concorrente).
Sinergie, ma non solo
Perché tanta generosità da parte di Intesa Sanpaolo? Premesso che è sempre possibile un eccesso di entusiasmo (nel recente passato non mancano esempi di acquisizioni che hanno fatto felice solo il venditore), l’idea dell’offerente è che Ubi potrebbe valere di più entrando nel gruppo Intesa e magari fondendosi con la banca capogruppo. Perché sarebbe gestita meglio e perché beneficerebbe di economie di scala (per esempio nell’information technology) e di altre “sinergie”, ottenute estendendo alla nuova partecipata i prodotti e le procedure migliori.
È certo plausibile, ma non è tutto. Una mega-banca, infatti, può contare su altri vantaggi, a cominciare dal maggior potere di mercato nei confronti di famiglie e imprese: una su cinque diventerebbe cliente della nuova Intesa Sanpaolo, una quota significativa, anche se non incompatibile con gli standard di altri paesi Ue.
Per mitigare queste preoccupazioni – peraltro oggetto di attento scrutinio da parte dell’antitrust – l’offerente intende cedere un consistente pacchetto di filiali a un concorrente, che in questo modo assumerebbe dimensioni analoghe a quelle dell’attuale Ubi. È tuttavia possibile che – per rientrare del “regalo” fatto agli azionisti Ubi – Intesa Sanpaolo finisca per dare un piccolo giro di vite ai listini di certi prodotti o in determinate aree geografiche. Nell’attuale contesto di crisi, peraltro, cedere filiali sembra un’ottima idea (l’alternativa rischia di essere la chiusura), ma potrebbe non essere sufficiente a garantire la concorrenza: i servizi online, ad esempio, richiedono grandi investimenti fissi in innovazione e rischiano di diventare appannaggio di pochi grandi player.
Le mega-banche vengono inoltre percepite come più sicure dai risparmiatori: un vantaggio competitivo non da poco in tempi di crisi e bail in (la regola europea che impone di addossare perdite agli investitori privati prima di procedere a salvataggi pubblici).
A proposito di salvataggi, poi, la vicenda di Veneto Banca e Popolare di Vicenza (soccorse da Intesa Sanpaolo, in assenza di offerte migliori, ma solo in cambio di un robusto contributo pubblico) ci ricorda che un grande istituto tratta da pari a pari coi governi e le istituzioni europee. In tempi di bassa redditività delle attività bancarie tradizionali, anche questo è business.
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Pier
Sinergie: vale di + xrchê mandano in pre pensione un po’ di gente doppioni (e magari chiudo qualche filiale fra qualche anno quando acque si saran calmate) e le scarico all’ Inps che pagherà implicitamente il sovrapprezzo ??
guido
Analisi equilibrata e condivisibile.
C’è, a mio avviso, un solo punto omesso.
Le fusioni creano opportunità per sinergie ed economie di scala, come giustamente dice il post, ma queste opportunità vanno colte con scelte organizzative congruenti. Le fusioni bancarie, in Italia, si sono rilevate spesso un flop a causa di un top management incapace di portare avanti queste scelte, impopolari con politica e sindacati.
Cogliere le opportunità sinergiche e di economie di scala vuol dire tagliare, a tutti i livelli, duplicazioni, e sovrapposizioni con inevitabili ricadute occupazionali (anche di ambiti posti nei CDA). Se ciò non viene perseguito, l’unico modo per recuperare i costi della fusione è aumentare i costi dei servizi alla clientela sfruttando il potere oligopolistico.
Silvio Cuneo
Caro Andrea,
io ci vedrei più sinergie da costo (la differenza dei due cost-income è notevole). E magari “da patrimonio”, garantite dal riconoscimento del badwill nel patrimonio di vigilanza. Quest’ultimo punto, in questi tempi di price to book fortemente depressi, potrebbe diventare una spinta non da poco alle aggregazioni.
Un saluto
Silvio Cuneo
Andrea Resti
Caro Silvio, che bello leggerti. Sul cost/income: vedremo. Però non dipende solo dal cost, ma anche dall’income, e certo ISP ha una struttura di ricavi ampia e diversificata. Sul badwill hai ragione: punto importante anche se un po’ tecnico. Non l’ho sollevato perché, dopo aver visto cancellare tanti goodwill, sono diventato un po’ scaramantico: e se il price to book depresso rispondesse a una crisi strutturale dell’industria bancaria, anziché a un temporaneo appannamento dei fondamentali? Grazie dei tuoi commenti, sempre lucidi e utili, Andrea
Alberto Chiumento
Ho apprezzato molto l’articolo, che però mi ha creato un dubbio. Vi si legge che ” il vero valore dei due titoli viene calcolato (…) confrontando gli utili futuri previsti per le due banche.” ma che questi sono fatti uno da Ubi stessa e l’altra da un ente esterno. Dunque, perchè questa differenza tra gli enti di valutazione? Immagino proprio che anche ISP i suoi calcoli li abbia fatti. Benchè poi il paragone ristorante-guida Michelin faccia capire bene la differenza, non capisco come mai essa si crei? Grazie, Alberto