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C’è un futuro per la didattica a distanza

Adottata nel lockdown come soluzione di emergenza, la didattica a distanza potrebbe rappresentare una chance di rinnovamento dell’insegnamento universitario. Per estendere l’offerta formativa, senza smaterializzare il rapporto docenti-studenti.

Dad, la soluzione nell’emergenza

Il Dpcm del 4 marzo 2020 ha imposto la chiusura alle università del nostro paese, per contenere la diffusione dell’epidemia Covid–19, costringendo docenti e studenti a ricorrere alla didattica a distanza (Dad). Rettori, loro delegati, direttori di dipartimento e, dove previsti, presidi hanno progressivamente messo a disposizione risorse tecnologiche per favorire l’erogazione della didattica in questa modalità. Poiché la chiusura si è protratta oltre la conclusione dei corsi, la modalità a distanza è stata poi estesa a esami di profitto e sedute di laurea. Tutto questo ha comportato uno sforzo organizzativo notevole da parte di tutti, in un momento di profonda preoccupazione per quello che stava accadendo a livello sanitario. Con buona pace dei negazionisti, il virus è ancora in circolazione, per cui ci si predispone a ricominciare in modalità ibrida, ricorrendo cioè alla didattica erogata in parte online e in parte in presenza. Questa eventualità offre una preziosa opportunità di affrontare le criticità che sono rimaste finora irrisolte, capitalizzando sulle buone pratiche che pure ci sono state. Un censimento su scala nazionale delle esperienze didattiche fatte durante l’emergenza è stato avviato da un gruppo di lavoro promosso dall’Anvur, l’Agenzia di valutazione del sistema universitario e della ricerca.

Nel frattempo, dovremmo chiarirci le idee su che cosa intendiamo per didattica a distanza e quali siano le applicazioni più opportune.

Per molti di noi, la didattica in presenza è l’unica di cui abbiamo mai fatto esperienza, per cui siamo convinti che sia la sola all’altezza del nostro compito, mentre la Dad è quella che di solito viene praticata negli atenei telematici. Durante l’emergenza abbiamo sviluppato anche la convinzione che la didattica a distanza consista nel proporre online, per mezzo di varie piattaforme, lezioni pensate per la modalità in presenza, magari accorciandole un po’, oppure caricarne la stessa versione preregistrata su Kaltura. L’immersione forzata in questi metodi di insegnamento è costata molta fatica e ha generato insoddisfazione nei docenti, soprattutto perché la maggior parte di noi non possedeva le competenze richieste e, forse, nemmeno le infrastrutture tecnologiche adeguate.

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Se Atene piange, Sparta non ride: anche per gli studenti non è sempre stata un’esperienza gratificante, per le occasioni non sempre ottimali di scambio con il docente e di condivisione con l’aula virtuale, oltre che per le diseguaglianze nell’accesso alla tecnologia.

Esperienze prima del lockdown

In Italia, le università tradizionalmente in presenza che avevano sperimentato la didattica a distanza prima del lockdown sono poche, con alcune eccezioni come, per esempio, quelle che hanno aderito al progetto EduOpen, finanziato dal ministero dell’Istruzione, Università e Ricerca, o che si sono associate alla Federica Web Learning, dell’Università di Napoli Federico II. Infatti, prima della pandemia, la Dad era di casa prevalentemente nelle università telematiche, che hanno prosperato quasi esclusivamente nel settore privato a partire dal 2003, nel disinteresse miope del settore pubblico. La mission di queste università, a cominciare dall’ammiraglia inglese Open University, era di permettere ad adulti occupati di acquisire una formazione che altrimenti sarebbe loro preclusa, per i vincoli legati al normale calendario delle lezioni che si sovrappone a quello del lavoro, gli impedimenti connessi agli spostamenti e gli impegni di famiglia. A quasi vent’anni di distanza, in Italia, questi atenei sembrano, come minimo, aver perduto la vocazione iniziale.

Più di recente, nei paesi anglosassoni la didattica a distanza è divenuta lo strumento preferito di chi, già in possesso di un diploma di laurea, desideri mantenere la propria occupazione o migliorarla, acquisendo nuove competenze. La tendenza ha subìto una notevole accelerazione con l’incalzare della rivoluzione tecnologica, che ha reso più rapido il processo di obsolescenza delle competenze acquisite con la laurea. Durante il lockdown, la popolarità di piattaforme online quali edX, Coursera, e FutureLearn, che offrono i Mooc (Massive Open Online Courses), è cresciuta come mai prima. In Italia, il sistema universitario non ha ancora saputo rispondere in modo adeguato a questa domanda.

Mantenendo fermo l’obiettivo di rientrare in un’aula reale al più presto e in condizioni di sicurezza, anche in Italia sarebbe opportuno impegnarsi nello sviluppo di un piano della didattica a distanza che consenta molto di più che far fronte all’incertezza che avvolge la ripartenza dell’anno accademico. Per ora i Mooc delle università italiane più all’avanguardia coprono l’offerta formativa a macchia di leopardo, mentre invece si potrebbe cominciare a realizzare la copertura almeno di alcuni corsi triennali, a cominciare da quelli che non richiedono la frequentazione di laboratori. Questi prodotti culturali potrebbero essere spendibili sia nell’emergenza sia nella normalità e, se erogati in lingua inglese, potrebbero attrarre anche studenti stranieri.

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Ci sono almeno due ottime ragioni per cui è raccomandabile che siano le università tradizionali a trainare la trasformazione. La prima è che in esse vi è una maggior consuetudine alla ricerca: vari studi suggeriscono una forte correlazione tra qualità della didattica e qualità della ricerca. La seconda è che, come già accade negli atenei telematici, studentesse e studenti potrebbero iscriversi in qualsiasi momento dell’anno accademico, aumentando così il numero degli iscritti. Non dimentichiamo che l’Italia è all’ultimo posto per numero di laureati in Europa.

In conclusione, il nostro sistema universitario dovrebbe cercare di tradurre questo momento di grande incertezza in una opportunità di rinnovamento della didattica, divenuta un po’ ripetitiva anche in seguito alla riorganizzazione post-riforma Gelmini. Non si tratta di trasformare, come taluni temono, l’offerta formativa tout-court in didattica a distanza, smaterializzando il rapporto tra docenti e studenti, ma semmai di estenderla, sfruttandone l’indubbio potenziale di diffusione.

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  1. Henri Schmit

    Articoli interessante su un tema importante: la didattica universitaria, tecnica e professionale. L digitale è opportunità di crescita quantitativa e di miglioramento qualitativo e sfida di sapersi ridefinire, da vasi rigidi chiusi a offerta aperte modulabile, da monoprodotto a multiprodotto, da universitas a multiversitas, da formazione spot a formazione continua, una rivoluzione particolarmente sconvolgente per il modello tradizionale italiano.

  2. Grazie per l’interessante articolo.
    Quando si parla di didattica a distanza, un aspetto che viene troppo spesso trascurato è quanto sia positivo iniziare ad abituare i giovani a quell’approccio “ibrido” (cioè un po’ in presenza e un po’ da remoto), con il quale dovranno gioco-forza convivere quando entreranno nel mondo del lavoro. Sempre più aziende, infatti, utilizzano modalità di smart working, che mixano la collaborazione in presenza con quella da remoto. Una flessibilità di spazi, luoghi e sopratutto di forma mentis, che è ormai fondamentale per orientarsi e per eccellere nel mercato del lavoro.
    Come ben sa chiunque pratica uno sport, un’arte o qualsiasi altra disciplina, tutto ciò che si impara da piccoli risulta poi molto più semplice da adulti. Mi auguro davvero che questa esperienza di “remotizzazione” prima forzata e poi sempre più voluta rappresenti un valore aggiunto e un punto di forza per i nostri connazionali più giovani.

  3. Marco Depolo

    Buon tema di discussione. M ogni proposta va letta nel suo contesto. Chiedere oggi di rispondere con modelli DAD alle difficoltà della formazione di I e II ciclo mi sembra dimenticare che: a) le prove fornite dagli atenei telematici sono a dir poco deludenti; b) le esperienze più decorose di altri Paesi mi risulta cerchino di dare comunque una formazione a popolazioni di studenti che per motivi soprattutto socio-economici mai si inserirebbero in un percorso “classico” (vedi UNED spagnola); c) le esperienze di successo (come si dice nel testo) sono soprattutto quelle dirtette a popolazioni che – essendo già al lavoro – cercano percorsi di cambiamento/perfezionamento delle proprie competenze.
    Mescolare questi livelli, la cui interazione reciproca richiede una analisi che non mi sembra di vedere ancora oggi, mi sembra poco vantaggioso, senza dimenticare che fa oggettivamente da alibi per il modo in cui il sistema trascura il nostro bistrattato diritto allo studio.
    Anche se, lo riconosco, la DAD universitaria è una scorciatoia che può avere elementi di attrazione per alcuni stakeholder: ma avere ad esempio più laureati in classifica può interessare forse Anvur, ma temo abbia poco a che fare in sé con un miglioramento e allargamento della formazione universitaria italiana.

  4. Maria Laura Bufano

    Non capisco perché siano in tanti in Italia a non considerare che anche la Spagna sia Europa. Sarebbe interessante indagare sul perché di questo. Forse perché è stata nel passato un ponte, anche linguistico e culturale, fra Occidente ed Oriente?
    Comunque in Spagna esiste la UNED, università pubblica con didattica quasi tutta a distanza. Invio il link:
    https://www.uned.es/universidad/inicio.html

  5. Ruben Benatti

    La didattica a distanza è semplicemente orribile. Poi a livello universitario è particolarmente deleteria. Lo dico da docente che non è affatto contrario per principio alle innovazioni tecnologiche. Ma se il futuro è fare DAD per la maggior parte dei corsi, l’università e la scuola sono finite.

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