In tempo di pandemia, anche i servizi per l’impiego si ritrovano a fare i conti con lo smart working. Ma l’Italia continua a pagare un gap organizzativo, di risorse e di personale con gli altri paesi europei. A partire dallo scoglio del digital divide.
Il modello svedese
Organizzare i servizi pubblici per il lavoro garantendo le azioni di ricerca di opportunità formative e lavorative e di contatti con le aziende anche da remoto è fondamentale, ma non risolutivo. La suggestione proposta da Francesco Verbaro nell’articolo de Il Sole 24 Ore dello scorso 16 novembre “Dopo la sanità il lavoro: la Caporetto della Pa” è estremamente importante. Occorre riorganizzare la Pa in modo che il lavoro agile o da remoto sia capace di rendere servizi efficaci. L’autore sostiene che la Pa deve organizzarsi in modo da svolgere in maniera efficiente le proprie attività anche e soprattutto da remoto, a partire dai servizi per l’impiego, in modo che lo smart working non sia causa di congelamento delle funzioni, ma di incremento della loro efficienza. Verbaro propone quindi di prendere l’esempio dalla Svezia, i cui servizi per l’impiego, allo scopo di facilitare una celere ricollocazione dei nuovi disoccupati a causa della pandemia, hanno aperto una nuova sezione della banca dati delle vacancies nazionale, con l’hashtag #jobbjustnu (lavoro immediato), dedicata ai datori di lavoro che hanno urgente bisogno di manodopera, e hanno messo a disposizione il format «incontri personali a distanza» dove i datori di lavoro possono condurre via chat o mobile dei brevi colloqui con i disoccupati candidati alle vacancies di lavoro immediato.
Per completezza di informazione, è giusto osservare che questo genere di iniziative è presente anche nei servizi pubblici per l’impiego italiani. Buone prassi di questa natura sono realizzate o con interventi sporadici o in modo più sistematico (basti guardare all’istituzionalizzazione delle “fiere del lavoro” telematiche, periodicamente organizzate in Veneto da Veneto Lavoro). Ma una prima differenza fondamentale è che in Svezia il sistema è organizzato su un portale unico statale, diffuso senza dispersioni territoriali mediante un canale chiaro ed efficiente. Una seconda ma non trascurabile differenza è il gap ancora enorme tra Italia e Svezia (e non solo) per quanto riguarda le risorse in campo: il numero dei dipendenti addetti ai servizi per il lavoro nel nostro paese è largamente insufficiente rispetto agli altri stati membri dell’Ue (i dati riportati nella tabella 1 sono ormai antichi, ma danno l’idea dell’abisso esistente).
Il gap di personale
Dati più aggiornati, al 2019, informano che in Italia presso i centri per l’impiego “risultano essere operative 8.081 unità”. Il quadro non dovrebbe essere cambiato di molto: è vero che sono state assegnate le risorse nell’ambito del piano di potenziamento dei servizi per l’impiego, ma i concorsi per lo più sono ancora fermi. I circa 4 mila navigator non vanno annoverati tra i dipendenti dei centri per l’impiego, sia perché si tratta di collaboratori che conducono il proprio rapporto con Anpal, sia perché la loro azione è limitata ai soli percettori del Reddito di cittadinanza.
Anche per quanto riguarda la Svezia il numero dei dipendenti dei servizi pubblici per il lavoro (circa 10 mila) dovrebbe considerarsi ancora stabile. Il rapporto European Network of Public Employment Services Assessment Report on PES Capacity del 2019 evidenzia una riduzione di poco più del 5 per cento dei dipendenti rispetto all’ordinario stock svedese. E ancora, la spesa in politiche attive per il lavoro in rapporto al Pil, nella quale è ricompresa quella per la gestione dei servizi pubblici, in Italia nel 2015 era grosso modo la metà di quella svedese.
I dati Eurostat confermano un gap costante e molto elevato nella spesa per i servizi pubblici per il lavoro italiani rispetto a quelli svedesi e inoltre in Svezia le persone registrate come disoccupati sono 350 mila, mentre in Italia circa 10 volte tanto. Gli abitanti della Svezia sono circa 10 milioni, con una percentuale di disoccupati iscritti ai servizi del 3,5 per cento circa e un rapporto tra dipendenti dei servizi pubblici per il lavoro e cittadini dello 0,1 per cento. In Italia siamo al 5 per cento nel primo caso e allo 0,01 per cento nel secondo. Le forze in campo appaiono assai diverse.
L’ostacolo del digital divide
Attivare in Svezia sistemi di incontro domanda-offerta da remoto appare oggettivamente più semplice, anche alla luce di un’organizzazione dei servizi pubblici certamente più avanzata. C’è comunque da osservare che l’idea di servizi pubblici per il lavoro da remoto in Italia non è così futuristica. In Veneto, i servizi gestiti da Veneto Lavoro consentono correntemente di sottoscrivere da remoto i Patti di servizio con i disoccupati anche percettori di Naspi da remoto; lo stesso vale per i Patti per il lavoro del Reddito di cittadinanza e per l’erogazione di politiche attive regionali (l’Assegno per il lavoro). Un utilizzo ampio e continuativo di strumenti come webinar o videocall consente di effettuare da remoto attività di orientamento e anche di gestione delle attività di tirocinio. Gli applicativi consentono l’acquisizione delle vacancy e la trasmissione delle preselezioni alle aziende sempre online, cosa che avviene diffusamente in tutti i territori italiani.
In Italia si incontra, tuttavia, un altro problema enorme: il digital divide. Proprio tra le persone caratterizzate da particolari debolezze nel mercato del lavoro è diffusa una scarsa competenza nell’utilizzo delle risorse digitali; contestualmente, queste persone non sempre dispongono di pc o smartphone e – soprattutto – di connessioni adeguate. Con chi non è di madrelingua italiana, poi, la conduzione di un colloquio finalizzato alla proposta di lavoro, formazione o orientamento risulta molto difficoltosa se svolta mediante telefono o video call.
L’incidenza dei disoccupati con accesso estremamente ridotto e problematico alle risorse telematiche è molto elevata ed è un fattore che non consente una piena operatività dei servizi da remoto anche per quelle realtà il cui livello di organizzazione e diffusione degli applicativi online risulti particolarmente elevato. Per ottenere un salto di qualità dei servizi per il lavoro pubblici in Italia – oltre a rimediare ai gap organizzativi, di risorse e di personale rispetto per esempio alla Svezia – occorre pensare a risolvere la delicatissima questione del digital divide, che costituisce un handicap profondo, non colmabile dall’organizzazione dei servizi per il lavoro. A meno che non si provveda a dotarli di finanziamenti per promuovere estese attività di formazione sull’alfabetizzazione digitale e non si dedichino risorse da destinare ai disoccupati, con precisi vincoli di destinazione all’acquisto di connessioni e apparecchiature di qualità.
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