Anche nell’anno della pandemia, l’imprenditoria immigrata in Italia ha continuato a crescere e rappresenta ora quasi il 10 per cento del totale. Un’opportunità per tutto il paese, a patto di creare le condizioni per attrarre competenze e talenti.
Quello dell’imprenditoria immigrata è un tema che continua a emergere soprattutto in occasione di inchieste o casi di cronaca che abbiano per oggetto evasione fiscale o altre pratiche illecite. L’ultimo episodio in ordine cronologico racconta di un’operazione della Guardia di Finanza di Treviso, che ha portato a galla un giro di riciclaggio di denaro sporco tra alcune aziende tessili gestite da cinesi. La conclusione che molti lettori possono trarre – alimentati da alcuni esponenti politici – è che “tutte” le imprese cinesi siano così. Poco si parla, invece, dei potenziali benefici che l’imprenditoria straniera può portare al nostro sistema economico. La Fondazione Leone Moressa, istituto di ricerca creato e sostenuto dalla Cgia di Mestre, da anni analizza queste dinamiche.
Presenza in aumento
Partiamo innanzitutto dai dati. Anche nell’anno della pandemia, l’imprenditoria immigrata in Italia ha continuato a crescere. A fine 2020 gli imprenditori nati all’estero erano 739.568, con un’incidenza del 9,8 per cento rispetto al totale (valore in costante crescita rispetto al 7,1 per cento del 2011). Tra questi sono compresi anche i titolari di imprese individuali e le partite Iva che, come vedremo in seguito, rappresentano una quota maggioritaria nell’imprenditoria immigrata. Rispetto al 2011 i nati in Italia sono fortemente diminuiti (-8,6 per cento) mentre i nati all’estero sono aumentati (+29,3 per cento). Anche nel 2020, nonostante l’emergenza sanitaria, aumentano i nati all’estero (+2,3 per cento), mentre i nati in Italia rimangono stabili (-0,02 per cento).
Per quanto riguarda l’area di origine, tre paesi rappresentano da soli quasi il 30 per cento del totale: Cina (75.906), Romania (73.490) e Marocco (70.067). Nell’ultimo anno gli aumenti più significativi si sono registrati tra le comunità dell’Est Europa: Romania (+3,6 per cento), Albania (+6 per cento), Moldavia (+8,6 per cento), Ucraina (+5,2 per cento). In crescita anche Nigeria (+8,2 per cento), Pakistan (+5,1 per cento) ed Egitto (+3,8 per cento). Rallentano invece Bangladesh (+1,7 per cento) e India (+2,4 per cento), nazionalità che erano cresciute fortemente nell’ultimo decennio. In generale, non sembra che il 2020 abbia inciso particolarmente sul numero di imprenditori immigrati: continua il trend di espansione, con alcune nazionalità più vivaci della media.
Esaminando il settore di attività, circa un terzo degli imprenditori di origine immigrata opera nel commercio (32,8 per cento). Seguono i servizi (23,4 per cento) e le costruzioni (21,4 per cento). L’incidenza straniera per settore è invece più alta nell’edilizia (16 per cento).
I dati Infocamere consentono inoltre di osservare le “imprese straniere”, ovvero quelle con una prevalenza di soci o amministratori nati all’estero. Nel 2020 esse sono 563 mila, il 10,9 per cento del totale. Tra queste, è interessante notare come la stragrande maggioranza (95,4 per cento) sia gestita al 100 per cento da imprenditori nati all’estero, segno di una ancora debole interazione tra imprenditori italiani e stranieri.
Una caratteristica delle imprese a conduzione straniera è la dimensione, generalmente molto piccola. Sebbene questo sia un elemento presente in tutta l’imprenditoria nazionale, tra le imprese straniere si accentua ulteriormente. Le micro-imprese (con meno di 10 addetti) rappresentano il 97,5 per cento delle imprese straniere, contro il 94,7 per cento delle italiane. Tra le straniere, le micro-imprese raggiungono il 99,3 per cento nel settore del commercio, mentre si fermano al 90 nella manifattura. L’agricoltura è l’unico settore in cui le micro-imprese sono più presenti tra le italiane che tra le straniere. Questa differenza appare evidente anche da un’altra prospettiva. L’81,7 per cento delle imprese straniere è un’impresa individuale, contro il 55,7 delle italiane. Al contrario, solo il 12,4 per cento delle straniere è una società di capitale, contro il 26,1 delle italiane.
Luci e ombre
Come detto in apertura, molto spesso parlando di imprenditoria immigrata ci si concentra quasi esclusivamente sugli aspetti negativi (episodi di evasione fiscale, concorrenza sleale, illegalità). Episodi che, evidentemente, fanno più notizia quando compiuti da stranieri. Senza voler sminuire questi episodi, vale la pena ricordare anche i benefici, effettivi o potenziali.
Sul piano individuale, l’avvio di un’impresa rappresenta quasi sempre l’evoluzione di un percorso di integrazione cominciato con il lavoro dipendente (molte volte anche informale). Le storie di successo raccontate dal MoneyGram Award tra il 2009 e il 2019 ne sono una preziosa testimonianza.
Inoltre, l’imprenditoria immigrata mantiene in vita commerci di quartiere e, potenzialmente, può portare innovazione, intesa come nuovi prodotti o servizi, rapporti commerciali con i paesi d’origine e infine posti di lavoro. Già nel 2011 l’Agenda europea per l’integrazione dei cittadini di paesi terzi (Com/2011/0455) evidenziava come occorra “rafforzare l’importante ruolo imprenditoriale degli immigrati, la loro creatività e capacità innovativa con il sostegno di autorità chiamate a informare il pubblico sulla creazione d’impresa”. Concetto ribadito un anno più tardi dal Comitato economico e sociale europeo (Cese): “gli imprenditori migranti offrono maggiori opportunità sociali alla popolazione migrante, creano una maggiore leadership sociale, rappresentano dei modelli per la società in generale e in particolare per i giovani, favoriscono l’autostima e promuovono la coesione sociale dando nuova vitalità a strade e quartieri”.
Uscendo dalla realtà italiana, questo apporto è evidente. Secondo un rapporto dell’Immigration Policy Center, alcune delle aziende più famose e importanti della Silicon Valley sono state fondate da immigrati (per esempio Yahoo!, eBay, Google). Lo stesso studio evidenziava che, dal 1995 al 2005, oltre il 52 per cento delle startup nella Silicon Valley aveva almeno un fondatore immigrato e che, dal 2007 al 2011, gli immigrati in California hanno fondato circa il 45 per cento di tutte le nuove attività nello stato, mentre il 36,6 per cento degli imprenditori in California nel 2011 erano immigrati. Quindi il problema, semmai, non è la presenza straniera, quanto la capacità di un paese di attrarre competenze e talenti.
In conclusione, i dati e le esperienze di altri paesi dimostrano che l’imprenditoria immigrata non può essere considerata solo per le cronache giudiziarie ma andrebbe valorizzata e promossa per i benefici in termini di integrazione dei cittadini stranieri e di opportunità di crescita per l’intero sistema economico.
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Marcomassimo
Queste cose andatele a dire a Prato e poi sentire cosa vi rispondono
Pippo Calogero
Ma non si può raffrontare la media dei fatturati per dipendente per tipologie d’impresa, per capire se si tratta di attività sane o di concorrenza sleale? Non è che poi succede come con l’IRPEF per cui scopriamo che uno straniero su due dichiara meno di 10000€ l’anno? Già il fatto che la metà di queste imprese sia attiva nel commercio e nell’edilizia non lascia ben sperare, altro che California.