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L’università italiana continua a non premiare la ricerca*

L’unico modo per migliorare le università italiane è premiare chi fa la ricerca migliore. Ma quota premiale e tre Vqr non hanno reso più selettiva l’assegnazione dei fondi pubblici agli atenei. Dovremmo prendere esempio dal sistema del Regno Unito.

La quota premiale nelle università italiane

Da decenni si dibatte su come migliorare le università italiane. Il punto di partenza (e quasi sempre anche di arrivo) è tipicamente sulla quantità: “bisogna aumentare i finanziamenti”. Mai come ora questo dibattito è attuale, dato che potrebbero essere in arrivo molti soldi del Next Generation EU. Ma come far sì che i finanziamenti migliorino effettivamente la qualità della ricerca? L’insegnamento è difficile da valutare, e non ce ne occuperemo in questo intervento; la ricerca anche, però in misura minore: il meccanismo della “peer review”, il giudizio dei pari, è imperfetto ma è applicato ovunque.

La ricerca è fatta da esseri umani e per migliorarne la qualità in modo non casuale conosciamo un solo modo: premiare chi fa ricerca migliore. Una parte dei finanziamenti statali a un dipartimento o ateneo deve essere basata sulla qualità della ricerca espressa. A sua volta, questo darà ai decisori nel dipartimento e ateneo l’incentivo ad assumere e promuovere chi fa la ricerca migliore, invece che l’amico o il cognato.

Ma è importante partire da un dato di fatto: la ricerca ad alto livello non può essere distribuita uniformemente tra atenei e dipartimenti; non tutti gli atenei possono essere “eccellenti”. E questo per almeno due motivi. Il primo è l’esternalità da aggregazione: due buoni cervelli nello stesso posto si stimolano a vicenda e producono ricerca ancora migliore, lasciati separati a interagire con colleghi mediocri languono. Il secondo sono i costi fissi: soprattutto nelle scienze “dure”, il costo di laboratori e attrezzature all’avanguardia può essere sopportato solo dagli atenei più grandi. Meglio avere un’attrezzatura costosa, ma all’avanguardia in un solo ateneo che un’attrezzatura più a buon mercato distribuita su due atenei.

La conseguenza di tutto questo è duplice: almeno una parte dei finanziamenti all’università deve premiare la ricerca migliore; e questa quota premiale, se assegnata seriamente, sarà necessariamente concentrata.

Nel 2008 fu introdotta la “quota premiale”, che avrebbe dovuto assegnare il 7 per cento delle risorse del Fondo di finanziamento ordinario in base a indicatori di qualità dei diversi atenei, prevedendone il graduale incremento fino al 30 per cento (oggi siamo al 20 per cento).

A sua volta, la quota premiale è divisa in tre componenti. La prima è basata sugli esiti della “Valutazione della qualità della ricerca” (Vqr), essenzialmente un processo centralizzato di “peer review”; la seconda (“Reclutamento”) si basa sullo stesso criterio, ma applicato solo ai nuovi assunti nel triennio precedente. Finora si sono svolte tre Valutazioni della qualità della ricerca volte a offrire basi oggettive per l’assegnazione di questa componente.

La terza componente (“Autonomia responsabile”) è più complicata e ha una connessione molto dubbia con la qualità della ricerca o dell’insegnamento. Ogni ateneo sceglie due tra i tre gruppi di indicatori seguenti: “Qualità dell’ambiente di ricerca”, “Qualità della didattica” e “Strategie di internazionalizzazione”. Ogni gruppo consiste di quattro indicatori; all’interno di ognuno dei due gruppi prescelti, ogni ateneo sceglie un indicatore, per un totale di due indicatori su dodici disponibili. Per esempio, il primo gruppo “Qualità dell’ambiente di ricerca” consiste dei quattro indicatori seguenti: 1. indice di qualità media dei collegi di dottorato (R+X medio di ateneo); 2. proporzione di immatricolati ai corsi di dottorato che si sono laureati in altro ateneo; 3. proporzione di professori assunti nell’anno precedente non già in servizio presso l’ateneo; 4. proporzione di professori assunti nell’anno precedente a seguito di chiamata diretta ai sensi dell’art. 1, comma 9 della legge 230/05, non già in servizio presso l’ateneo.

Infine, c’è una componente introdotta più di recente, i “Dipartimenti di eccellenza”, che è essenzialmente una forma più selettiva della Vqr: premia direttamente i dipartimenti e solo se veramente di eccellenza. Per brevità la considereremo parte della “quota premiale”, anche se strettamente parlando ne è separata. Per mancanza di dati sulla distribuzione tra atenei, non abbiamo incluso: i fondi First (Fondo per gli investimenti nella ricerca scientifica e tecnologica, circa 45 milioni nel 2018); i fondi Fisr (circa 26 milioni nel 2018) e i fondi del Cnr e Prin.

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Le altre fonti di finanziamento degli atenei italiani sono la “quota base”, che schematizzando molto si basa sui costi storici e le dimensioni dell’ateneo; e le rette studentesche. La prima colonna della Tabella 1 mostra l’incidenza di ogni voce nelle entrate totali dei 57 atenei pubblici italiani per cui abbiamo tutti i dati necessari. La seconda colonna mostra l’ammontare medio di ogni voce per docente, in euro.

Abbiamo poi calcolato il valore di ogni voce in ogni ateneo, in rapporto al numero di docenti di quell’ateneo, e ne abbiamo calcolato l’indice di concentrazione di Gini nel campione dei 57 atenei. Ricordiamo che l’indice di Gini di ogni voce di bilancio è 0 se ogni ateneo riceve lo stesso ammontare; è 1 se un solo ateneo riceve tutti i finanziamenti mentre gli altri non ricevono niente. I risultati sono nella colonna 3. L’indice di concentrazione della quota premiale è addirittura inferiore a quelli della quota base e delle rette. Persino l’indice della quota Vqr, che in teoria dovrebbe premiare espressamente la qualità della ricerca, è inferiore a quello delle rette e della quota base. L’unica voce che presenta un indice di concentrazione nettamente superiore a quello delle altre voci è “Dipartimenti di eccellenza”, che infatti premia solo alcuni dipartimenti in alcune università (ma è molto più piccolo delle altre componenti). Si noti che persino la voce “Autonomia”, che è un miscuglio di criteri senza legame con la ricerca, ha una concentrazione superiore alla Vqr. Se si esprimono tutte queste voci in rapporto al numero degli studenti invece che dei docenti, i risultati sono quasi identici.

Il sistema inglese

C’è qualcosa di inevitabile in questi risultati che ci sfugge? Come metro di comparazione abbiamo preso il sistema universitario inglese (per ragioni di disponibilità di dati ci siamo limitati alle università inglesi, escludendo quelle gallesi, scozzesi e nord-irlandesi), che è interamente pubblico, e abbiamo condotto lo stesso esercizio. La lista totale delle università pubbliche inglesi con dati di bilancio include 210 atenei; di queste molte però mancano di informazioni sul numero di studenti o docenti, altre sono atenei con un solo dipartimento (per esempio filmografia o teatro). Abbiamo quindi estratto i 104 atenei che appaiono nel ranking di The Times, concordemente ritenuto autorevole. Da questo abbiamo estratto poi anche il campione delle 57 migliori università secondo questo ranking, per pareggiare la numerosità del campione italiano. Tutti i dati provengono dall’HESA (Higher Education Statistics Agency). La Tabella 2 replica la Tabella 1 su questo campione dei primi 57 atenei inglesi.

Come sempre in questi casi, è difficile ottenere una corrispondenza esatta tra le voci di bilancio degli atenei italiani e quelli inglesi, perché le classificazioni sono differenti. L’equivalente inglese delle rette pagate dagli studenti è la voce “Tuition fees and education contracts” (la sua incidenza nelle entrate totali è molto più alta che in Italia, perché include le rette pagate dagli studenti ma rimborsate dallo stato o pagate con un prestito statale). L’equivalente della “Quota premiale” è “Research”, data dalla somma di due voci: le entrate provenienti dai sette “Research Councils”, per setti gruppi di discipline diversi, che come la Vqr italiana valutano la ricerca con un sistema di “peer review”; e i “research grants” erogati da “Research England”, un organo governativo che assegna fondi in gran parte sulla base della qualità della ricerca. L’incidenza della quota premiale appare più bassa che in Italia, ma ciò è dovuto in parte a un effetto composizione: la terza grande voce di bilancio, “Other income” è una voce residuale in cui sono incluse alcune voci che sono distribuite in base alla ricerca, come grants dei governi e altri enti locali e altro ancora. La corrispondenza più precisa è tra la voce “Vqr” in Italia e la voce “Research” in Inghilterra: entrambe sono basate sulla qualità della ricerca. Le quote nelle entrate totali sono in questo caso simili: 12,2 per cento in Italia e 9,7 per cento in Inghilterra. Una corrispondenza ancora più precisa potrebbe esserci tra la voce “Vqr” in Italia e la voce “Research Councils” in Inghilterra: entrambe sono basate su un meccanismo di peer review delle pubblicazioni. Anche la voce “Research England” in gran parte lo è, ma i criteri esatti sono meno trasparenti.

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Le entrate totali per docente sono circa il doppio che in Italia (per la conversione in euro abbiamo usato i tassi di cambio aggiustati per la parità del potere di acquisto). Si tenga presente che il campione inglese comprende le 57 migliori università, mentre il campione italiano comprende quasi tutte le università pubbliche. Si noti però che l’ammontare delle voci “Quota premiale” e “Research” è praticamente identico: circa 24 mila euro.

Il quadro d’insieme in Inghilterra è molto differente da quello italiano. L’indice di Gini per “Research” è tre volte superiore a quello delle rette, e ben superiore a quello di “Other income” (che, come si è visto, include entrate basate sulla ricerca). La differenza con la voce “Research Councils” è ancora più marcata.

Confrontando le stesse voci tra paesi, la concentrazione delle rette è addirittura leggermente più alta in Italia che in Inghilterra; ma la concentrazione di “Research” è cinque volte superiore a quella della Vqr.

Si potrebbe pensare che le differenze nella concentrazione siano dovute alle differenze negli ammontari medi: più basso è l’ammontare medio di una voce, più difficilmente quella voce potrebbe essere concentrata in pochi atenei. Le regole per l’assegnazione delle risorse sono quelle che determinano la concentrazione e sono indipendenti dagli ammontari medi. In ogni caso, “Research” è 4,5 volte più concentrata della “Quota premiale” nonostante gli ammontari medi di “Research” siano praticamente identici a quelli della “Quota premiale”. E all’interno del sistema italiano, “Dipartimenti di eccellenza” ha un ammontare medio contenuto (è un quarto di “Vqr”) ma è quasi cinque volte più concentrato.

La conclusione è molto semplice: la quota premiale e le tre Vqr non hanno contribuito a rendere più selettiva l’allocazione dei fondi pubblici alle università. Al contrario, paradossalmente e inspiegabilmente hanno finito per ridurla. Il passaggio dalla cosiddetta “quota di riequilibrio” alla “quota premiale” è stato solo nominalistico. Così non si stimolano le università a fare meglio, a differenza di quanto avviene nel Regno Unito, un paese con un sistema universitario prevalentemente pubblico, come l’Italia.

* Questo articolo è apparso contemporaneamente su Repubblica.

Su richiesta di alcuni lettori, gli autori mettono a disposizione i dati del loro studio: qui quelli relativi all’Italia, qui quelli relativi all’Inghilterra.

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14 commenti

  1. Savino

    I nostri talenti giovani non riescono neanche a fare gli spazzini in Italia, nè inseriti all’Università, nè nella P.A. Il virus ci ha fatto notare quante cantonate prendono i seniores che escludono i nostri giovani nel momento in cui c’è da prendere decisioni, laddove incompetenza e disorganizzazione la fanno da padroni.

  2. Roby T

    Mi sembra un’analisi che non evidenzia l’elefante nella stanza. La quota di finanziamenti ricavata dalle rette universitarie è molto più alta in Inghilterra (e sanno tutti benissimo che frequentare l’università in UK è molto più costoso che in Italia). A causa di questa differenza, gli atenei italiani dispongono della metà delle risorse per docente, nonostante i finanziamenti pubblici alla ricerca siano quantitativamente identici nei due paesi. In questo contesto, i “finanziamenti alla ricerca” in Italia servono anche a supplire ad una cronica mancanza di risorse, e per questo sono distribuiti più a pioggia, altrimenti senza accesso a queste risorse gli atenei minori avrebbero serie difficoltà nel far quadrare i conti e continuare a funzionare.

    Detto per inciso, in questo contesto la proposta di “taglio delle rette universitarie” caldeggiata a fasi alterne da certa sinistra, senza mai spiegare da dove si prenderebbero le risorse addizionali per finanziare l’università, sembra decisamente fuori luogo.

  3. Leonardo Tagliente

    Interessante l’approccio e le evidenze emerse. Forse spunto per un’ampliamento dello studio su una base geograficamente più ampia e maggiormente rappresentativa di esperienze diverse. Forse l’approccio premiale sarebbe più opportuno indirizzarlo non solo verso le università aventi un livello “stock” di qualità elevato, ma anche a quelle che registrano in un determinato periodo di tempo un’evoluzione del proprio livello di qualità della ricerca. In questo modo si incentiverebbero le università meno “virtuose” ad impegnarsi maggiormente nel miglioramento del livello di performance della propria ricerca, motivando i docenti a restare in quelle università e consentendo loro di beneficiare di risorse aggiuntive per consolidare un metodo potenzialmente valido ma scarsamente prolifico a causa della mancanza di risorse.

  4. Max

    Articolo interessante. Sui risultati, a parte i fattori correttivi previsti sulla quota premiale in modo che non generi troppa disuguaglianza
    (che credo influenzino non poco il risultato finale in termini di Gini), sollevo un ulteriore spunto di riflessione. Eccezion fatta per i Dipartimenti
    di Eccellenza non mi risulta che ci sia nessun meccanismo che leghi il contributo di un dipartimento al risultato finale in termini di VQR e
    quindi di quota premiale ai fondi che riceve dall’Ateneo. Al contrario molti atenei credo distribuiscano in maniera più o meno equilibrata la quota premiale ai
    dipartimenti in base ad algoritmi che spesso premiamo la numerosità delle teste (dopo tutto i voti contano uno e non pesano per dove pubblichi).
    Per cui non solo tutti gli Atenei ricevono più o meno lo stesso, ma anche i dipartimenti dentro gli Atenei ricevono più o meno lo stesso.
    Non si vede allora come questo possa motivare o contribuire alla qualità della ricerca. Problema maggiore in Atenei dove vi sono
    Facoltà molto diverse (Umanistiche, Scienze dure, Scienze Sociali, ecc. ecc.) o dipartimenti di qualità molto diversa, per cui spesso c’e’ in pratica cross-subsidization.

  5. Daniel Remondini

    Il problema mi sembra a monte: i fondi sono cosí pochi nel totale che anche la quota premiale non produrrebbe alcun effetto significativo. I finanziamenti ai singoli professori in UK di provenienza nazionale (forse solo nelle universitá piú prestigiose) differiscono almeno di un fattore 10 rispetto ai nostri (credo anche di piú).

  6. Piero Torelli

    Salve,
    vorrei portare all’attenzione degli autori la tematica delle infrastrutture di ricerca che purtroppo quando si parla di qualità delle ricerca del sistema paese e’ spesso assente. Personalmente lavoro in uno di questi centri ed ho potuto toccare con mano come dal 2008 ad oggi molti gruppi universitari abbiano mancato la possibilità di sfruttare queste installazioni, disperdendo importanti capitali di competenze e di risorse, nel cercare di mantenere in vita laboratori “fuori mercato” nelle mutate condizioni economiche. Curiosamente il motivo di questa occasione persa ha spesso origini “culturali” in particolare nei meccanismi di promozione dei dipartimenti universitari che tendono a premiare il lavoro “locale” anche se non di altissimo livello. Come giustamente menzionato dagli autori il next generation eu sarebbe l’occasione per rivitalizzare il nostro sistema ricerca e sarebbe grave se anche questa volta si perdesse l’occasione di sfruttare appieno l’occasione rappresentata dalle infrastutture (in particolare come giustamente sottolineato dagli autori nel campo delle scienze dure dove l’investimento in strumentazione ha costi importanti). Siccome come dicevo un freno allo sviluppo di queste attività (con mutuo danno delle infrastrutture e delle università) ha, in primis, origini culturali mi piacerebbe che chi come gli autori ha un impatto sul dibatto pubblico inserisse anche questa tematica nella discussione sul futuro della ricerca in Italia.
    Piero Torelli (CNR)

  7. PAOLO BARBIERI

    E se, per cominciare, si incentivassero i singoli ricercatori a spostarsi? Incentivi individuali (ad es. possibilità di portarsi appresso il proprio “finanziamento” in POE) sarebbero forse meno politicamente problematici ma alla lunga favorirebbero una ‘naturale’ concentrazione di chi fa ricerca in certi dipartimenti. SE i dipartimenti di “origine” (quelli da cui si va via) fossero penalizzati se perdono ricercatori e quelli di “Destinazione” fossero invece premiati… alla lunga avremmo (pochi) centri numerosi che fanno ricerca ben fatta e (giocoforza) centri dove si fa (solo/prevalentemente) teaching. Il costo dell’operazione si scaricherebbe sui singoli (mobilità) ma almeno qualcosa si smuoverebbe.

  8. Alessandro

    Non ci siamo, è la stessa ricetta iper-liberista di Tremonti-Gelmini, tanto amata anche dal renzismo, che tanto ha scassato il sistema universitario. Ricordiamoci l’IIT.
    Gli economisti mi sembrano sempre avulsi dalle altre realtà, non solo le scienze dure, molto più esatte dell’Economia, come Chimica, Fisica, Matematica, Ingegneria, ma anche tutte quelle di area biomedica, senza dimenticare gli ambiti umanistici. Tutte realtà dove mancano gli strumenti di base!!!
    Come fai a competere col resto del mondo se non ci menti gli strumenti?
    Risultato1: sopravvive il più scaltro, che, superato il dettato costituzionale, rende la ricerca (e la didattica) libera solo perché si riesce a far finanziare da fuori le proprie attività, sia con bandi regionali/nazionali/europei che con privati, dreagliando dalla ricerca di base, ma sfruttando anche la forza dei territori. I fondi dello Stato NON BASTANO! Altro che pioggia non premiale! Attenzione al deserto industriale e culturale che la concentrazione produrrebbe.
    Risultato2: quelli che rimangono lo fanno perché cresciuti in una culla già lanciata e che ora drena risorse ai più deboli (non di intelletto o capacità), non per la loro indipendenza o eccezionalità.

    Solo quando lo Stato garantirà a tutti gli strumenti indispensabili per una libera ricerca guidata dalla curiosità, capace di confrontarsi con il mondo, allora si potrà ragionare su indici e premialità del singolo, per il suo contributo allo sviluppo dello specifico filone.

  9. Ezio Pacchiardo

    Il tema della ricerca non può essere disgiunto da un modello di sviluppo che si può identificare in una struttura così composta:
    1 – cosa ricercare, ovvero chi promuove l’idea della ricerca da condurre;
    2 – chi è più qualificato o volenteroso per approfondire e condurre la ricerca;
    3 – quanto è previsto essere il costo della ricerca, chi lo finanzia ed a quali condizioni di risultati conseguiti e di tempo speso;
    4 – quale valore ha la ricerca e chi è disposto ad acquistarla pagandola al termine, oppure partecipare e condividerne la realizzazione ed i benefici di conseguenti progetti industriali.
    In tutto questo percorso non si deve trascurare di stabilire dei check point per valutare la validità di proseguire nel progetto e per deliberare la successiva quota di finanziamento, che è bene sia progressiva e condizionata ai risultati raggiunti.
    In sintesi una ricerca mirata ed efficace industrialmente.

  10. Aram Megighian

    Università è Didattica, Ricerca e Cultura. Se facciamo solo Ricerca, siamo solo un Ente di Ricerca. Se facciamo solo Didattica (magari a distanza e digitalmente e ripetuta) siamo solo una delle tante Scuole di Insegnamento Superiore. Se facciamo solo Cultura siamo un Circolo.
    Università è tutte e tre le cose assieme ed è, soprattutto, laboratorio di discussione e creazione di nuove idee. Le nuove idee nascono dalla discussione e dall’interazione intellettuale libera. La costrizione dell’Università in un sistema di algoritmi aziendali oltre a non poter portare ad alcuna valutazione assoluta, ma sempre adattata, proprio per la natura stessa del sapere Universitario, conduce a minare il libero scambio intellettuale all’interno dell’Università. E conseguentemente mina alle fondamenta il concetto stesso di sapere universitario, trasformando l’università in un sistema aziendale che non è.
    Le analisi riferite nell’articolo possono essere giuste e corrette, ma sono avulse dal chiedersi se sono utili a sviluppare il sapere universitario come sopra definito. Sono utili in quest’ottica a stimolare la libera circolazione di idee all’interno dell’Università e quindi a dare a questa quell’essenziale valore all’interno della Società come fucina di idee e di laureati preparati in prospettiva futura ? Oppure vogliamo, appunto, un sistema aziendalistico che prepari degli ottimi laureati per le aziende del presente ?

  11. Ileana Steccolini

    In questo articolo parlate di fondi, ma immagino che nelle vostre intenzioni questo faccia parte di una riflessione più ampia di cui l’università italiana ha bisogno? L’Italia spesso non partecipa a programmi e consorzi di ricerca internazionali (non esistono solo Horizon 2020 o ERC! Gli altri paesi, europei e non, sono attivi nel disegnare alleanze di ricerca in cui l’Italia sistematicamente non è presente). Il sistema delle assunzioni e promozioni è ancora dominato da logiche medievali che tengono in Italia spesso i deboli (purché controllabili) e mandano all’estero i bravi. La mobilità fra atenei non esiste, o è decisa a tavolino da “club” di baroni. In Gran Bretagna le università hanno “uffici ricerca” che in Italia non trovano nulla di lontanamente paragonabile. E il sistema di valutazione della ricerca britannico è talmente incisivo da guidare le decisioni giornaliere delle università e di ogni singolo accademico che vi opera. Quello britannico è anche un sistema culturalmente molto differente, in cui ad esempio le battute sessiste o razziste, che ancora si sentono nella realtà italiana, non sono neanche concepibili. Insomma, non basta rivedere come si attribuiscono i fondi, bisogna anche rivedere tanti altri sistemi e processi di “funzionamento” delle università (selezione, gestione e motivazione delle persone, mobilità, difese contro bullismo, razzismo e sessismo negli atenei) e sicuramente ri-bilanciarne i sistemi (impliciti) di potere. Buona fortuna!

  12. (1) La VQR non è se non in alcune sue componenti accessorie una peer review e che misuri la qualità della ricerca è assai dubbio.
    (2) La concentrazione delle risorse in pochi “centri di eccellenza” passerebbe per un transitorio in cui buona parte delle linee di ricerca italiane sarebbero cancellate, essendo molte di esse condotte anche negli atenei più piccoli. Distruggere è facile, costruire chiede i decenni.
    (3) Perché non invece puntare sulle forme collaborative. Come il grande centro di calcolo accessibile a tutti coloro che hanno progetti validi? Notare che è già così per telescopi, satelliti, acceleratori di particelle… Non darei invece un telescopio di una certa importanza in mano a una singola università. Sarebbe uno spreco assurco.

  13. Patrizio Dimitri

    Da molti anni, i docenti bocconiani, Giavazzi, Perotti, Alesina & company, attaccano a tutto spiano l’Università e la ricerca pubblica in Italia. Ricordo il titolo aggressivo di un convegno organizzato dalla Bocconi nel 2013 “La ricerca in Italia. Cosa distruggere, come ricostruire”.
    Informo gli autori che considerando la produttività, ovvero il rapporto tra i fondi ricevuti (pochi) e la produzione scientifica (numero di pubblicazioni su riviste internazionali e citazioni ricevute), l’Italia già dal 2012 era ai primi posti davanti ad altri paesi europei. Il CNRS l’ha definito il paradosso italiano. Con buona pace di Perotti che scrisse che “L’Università italiana non ha un ruolo significativo nel panorama della ricerca mondiale (Perotti, L’Università truccata. 2008). Proprio gli interventi indicati dai nostri bocconiani e attuati dai governi di cui sono stati e sono ancora suggeritori, hanno penalizzato con spending review, non solo università e ricerca pubbliche, ma anche la sanità e ne paghiamo le conseguenze.
    Infine, gli autori dimenticano che la VQR costruita dall’ANVUR è un sistema quantitativo che non indentifica necessariamente la qualità della ricerca, dove prevale l’automatismo della bibliometria e si ricorre al peer-review solo in casi estremi. Detto questo, la ricerca non è solo eccellente (termine abusato), esistono vari livelli di qualità, tutti degni di considerazione. Il progresso scientifico e tecnologico non è solo il risultato dell’opera dei premi Nobel!

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