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Vincitori e vinti della Superlega

Tutto nasce forse dal fair play finanziario, voluto dalla Uefa e che ha finito per concentrare ricavi e titoli in una élite di club. La Superlega avvantaggerà le squadre con brand riconoscibili nel mondo. Un aspetto sul quale le italiane non brillano.

La globalizzazione del calcio

Per capire cosa accade oggi nel calcio vanno collegati i due eventi dirompenti delle ultime settimane: la fine del fair play finanziario e la nascita della Superlega.

Il sistema regolamentare appena sgretolatosi era il risultato di un equilibrio tra club (di diversa forza e estrazione) e regolatori. A sua volta, l’equilibrio era però figlio del modello di business ed è utile notare come ogni club non ne gestisca più uno solo, ma tre o quattro coesistenti nello stesso veicolo giuridico. C’è il core business che genera ricavi (match day, diritti tv, sponsor, merchandising) a fronte di costi correnti, soprattutto per stipendi ai tesserati. Poi c’è il player trading: acquisto e vendita di calciatori con l’obiettivo di generare utili dalle famose plusvalenze. Collaterale a questo è la formazione di giovani calciatori. Infine, da qualche anno, il canale commerciale alimentato dalla tecnologia digitale attraverso gigantesche community di tifosi-follower a cui vendere modelli di lifestyle proposti da brand globali e non necessariamente legati al calcio.

La globalizzazione dei consumi calcistici, con l’apertura dei grandi mercati asiatici e nordamericani, ha quasi decuplicato in venti anni i fatturati aggregati dei club europei: da 2,8 miliardi (2006) a 21,1 (2018). Ma la crescita ha anche scavato una voragine tra i top club e tutti gli altri, come pure tra i campionati Big Five (Spagna, Germania, Italia, Francia, Inghilterra) e le altre leghe nazionali.

Tre fattori hanno allargato il solco: (1) il bacino nazionale del paese di appartenenza, in termini di popolazione e propensione alla spesa; (2) il brand: storia, tradizione ma oggi (soprattutto) numero di follower sui social; (3) la strategia Uefa fondata sulla vendita centralizzata dei diritti Champions ed Europa League e la distribuzione di premi alle squadre partecipanti con meccanismi basati anche sul merito sportivo.

Il modello Uefa

Il modello-Uefa innescava un circolo virtuoso (bacino – competitività – partecipazione Champions – risultati Champions – ricavi – capacità di investimento sul calciomercato – maggiore competitività – allargamento del bacino) che ha tagliato fuori le società meno ricche, concentrando ricavi e titoli in una élite. Ne è conseguita una perdita tangibile di incertezza. Nel decennio 2009-2019 l’82,5 per cento delle semifinaliste Champions League appartiene alla top-10 della Money League, il 97,5 per cento alla top-20 e, in termini geografici, il 97,5 per cento proviene da campionati Big-Five. Nel decennio precedente, il ventaglio delle semifinaliste era decisamente più ampio, includendo club come Leeds, Porto, Valencia, PSV Eindhoven, La Coruna, Villareal, Bayer Leverkusen, Monaco, mentre nel 1989-1999 addirittura una su quattro proveniva da leghe non-Big-Five.

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Anche nei campionati, una squadra (la Juve) ha vinto gli ultimi 9 scudetti in Serie A, in Germania il Bayern gli ultimi 8, in Francia 7 degli ultimi 8 il Psg, mentre in Spagna solo un anno, negli ultimi 15, l’Atletico ha spezzato il duopolio Real-Barça.

Il financial fair play fu varato nel 2011 in nome della sostenibilità: arginare la deriva dell’indebitamento finanziario. Ne era cardine il pareggio di bilancio che obbligava i club a equilibrare costi e ricavi, salvo uno sforamento massimo cumulato (30 milioni) in ogni triennio, non considerando come ricavi i contributi dell’azionista.

In realtà, il Ffp aveva molti limiti. Anzitutto, non è detto che il pareggio economico sia funzionale alla creazione di valore finanziario, perciò il Ffp rendeva la vita difficile ai nuovi investitori finanziari. Inoltre, impediva a un azionista facoltoso (il miliardario-tifoso o mecenate, il cosiddetto sugar-daddy) di finanziare il club col proprio patrimonio personale. Così la Uefa contrastava un principio della libera iniziativa: la sovranità degli azionisti nelle scelte di investimento. Una logica simile era però gradita ai top club che vi legavano la possibilità di erigere barriere all’entrata a protezione del loro vantaggio competitivo. A chi, se non ai detentori di posizioni dominanti, può infatti convenire escludere nuovi capitali? L’Uefa si è fatta garante di tali posizioni, promettendo ai grandi la protezione dai newcomer, spostando il fattore critico di successo dalla disponibilità di capitali (nel sistema pre-Ffp) al controllo di un meccanismo di produzione dei ricavi già oliato e funzionante, ma il gioco ha funzionato male. Il Ffp non ha impedito a nuovi azionisti facoltosi (Roman Abramovic, Mansour bin Zayed al Nahyan, il Qatar) di entrare nella élite a colpi di investimenti strabilianti, allargando così la tavola dei commensali, ma alzando l’asticella per tutti.

Quando la Uefa ha elevato sanzioni, lo ha fatto in maniera strabica, colpendo club meno potenti ma preservando sempre, con cavilli e inspiegabili dimenticanze, i player forti. La pandemia ha accelerato la fine di un equilibrio che non garantiva più nessuno, perché non si può imporre per legge il pareggio dei conti a un’industria in sofferenza economica per l’evaporazione dei ricavi. Con visibile disagio, la Uefa ha dichiarato conclusa l’era del break-even: un “liberi tutti” non privo di effetti, che ha accelerato il progetto in cantiere da anni.

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L’obiettivo della Superlega

La Superlega non è solo uno show, ma una mossa strategica: disintermediare la Uefa, consegnare la macchina a chi la alimenta con gli investimenti, produrre e (soprattutto) distribuire in proprio le risorse. Allargherà ancora le distanze, ma i promotori la vendono come un win-win game. I club fondatori ne guadagneranno, contando su un pool enorme di ricavi certi da dividere per 15 (non per 48). Ma la crescita dei ricavi conviene, dicono, anche ai club esclusi perché la Superlega distribuirà contributi di solidarietà superiori agli attuali. Se andrà così, l’unica vittima sarà l’Uefa.

Quale modello di business emergerà dalla Superlega? Certamente il blockbuster club, dotato di brand riconoscibile nel mondo, seguito da decine di milioni di follower, capace di far girare un sistema di fatturato indipendente dal risultato sportivo, vero criterio discriminante tra chi è “top” e chi no. Esempio lampante lo United, che assiste da anni ai successi del City senza subire rovesci economici, grazie a una macchina che produce fatturati robusti e diversificati. Se i club italiani non realizzano questa transizione, non ci sono illusioni: saranno relegati nella seconda fascia. In un’industria guidata da unicità e insostituibilità del talento, una fetta consistente dei maggiori fatturati andrà inevitabilmente a remunerare chi fornisce la risorsa più scarsa. In questo caso, i calciatori. Normale aspettarsi un’impennata negli ingaggi e nei cartellini, che alzerà l’asticella del livello di competitività necessario a competere coi grandi. Il bacino di fatturato farà sempre la differenza, perché il calcio tende all’overspending (in ciò raffigurato perfettamente dai criceti di George Akerlof). L’impennata di fatturato sarà un toccasana nel breve, riequilibrando bilanci sofferenti, ma la competitività di medio periodo richiede una tensione al valore che, da sempre, i club italiani trascurano.

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  1. amadeus

    Al momento, quel che viene presentato come un win win game rischia seriamente di trasformarsi in un lose lose game, cioè esattamente nell’opposto. Come spesso accade nei divorzi c’è il rischio di scatenare una guerra sanguinosa. Il fatto che allo schieramento degli scissionisti manchi la seconda squadra europea per tradizione e attuale detentrice della CL (il Bayern) e della probabile vincitrice della CL del 2021 (il PSG), introduce un importante elemento di debolezza nello schieramento secessionista. Le squadre tedesche, forti della loro migliore gestione finanziaria, han preferito stare alla finestra, mentre il PSG, ovvero il Qatar, pensa ai mondiali 2022. I club promotori, anche in virtù del rischio che stanno prendendo, si autoassicurano la permanenza a vita nella nuova Lega, lasciando le briciole per i futuri aderenti. Questo particolare, assai rilevante, va a cozzare con i principi della competizione sportiva e del merito che rischiano di allontanare i tifosi. Stando così le cose gli incentivi per i nuovi aderenti sono piuttosto bassi, anche considerando che il nuovo campionato potrebbe ragionevolmente arrivare a 24 squadre. C’è il rischio concreto di una guerra aperta con spezzettamento e svalutazione del prodotto e relativo depauperamento, con misure di ritorsione e ricatto reciproche. Al di là delle motivazioni economiche e delle rendite di potere gestite da UEFA e FIFA, ci sono degli aspetti strategici non facilmente ricomponibili, anche considerando il business.

  2. Savino

    il giocattolo si è ampiamente rotto da tempo, spero che gli appassionati siano compatti nel non volersi bere questa sciagurata iniziativa e nel difendere il romanticismo delle origini e delle radici di questo sport che è patrimonio dell’umanità. Senza tifosi al seguito, i club non andranno da nessuna parte e avranno dato vita all’ennesima figura indegna.

  3. toninoc

    Con la creazione della superlega,oltre che dividere le Società calcistiche in ricchi di serie a e meno ricchi di serie b, divideranno anche gli appassionati del calcio fra tifosi che potranno pagarsi l’abbonamento e tifosi che smetteranno di guardarlo in diretta e dovranno accontentarsi di piccole riprese registrate. L’avranno vinta loro, i club più ricchi, che faranno pagare i loro debiti accumulati negli anni per onorare contratti miliardari ai alciatori cosidetti top. Anche in quest’ambito chi comanda è sempre il mondo “finanziario”. Nulla di nuovo sotto il sole.

    • Francesco

      Ma scusa, stai raccontando al futuro una cosa che è avvenuta 20 anni fa. Tant’è che già oggi c’è la distinzione tra ricchi di A e ricchi di B e i tifosi che non possono permettersi la pay per view che non vedono più il calcio in diretta. La Superlega esiste già dal 2000, da quando cioè la Champions’ league è stata aperta all’accesso delle quarte squadre delle federazioni maggiori a scapito dei campioni delle federazioni minori, relegate ai preliminari

  4. Claudio

    Tutto questo,secondo me,servirà ad aprire le menti aiutandole ad orientarsi su altri sport,risparmiando così tanti soldi facendo fallire il progetto,contribuendo così a far rompere il giocattolo.elementare Watson!

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