Attraverso la rigenerazione e il riuso dei prodotti si ottengono benefici ambientali ed economici. Ma in Italia queste attività sono ancora poco praticate, per la mancanza di regole chiare e la carenza di capacità organizzative e imprenditoriali.

Un approccio davvero circolare

Ogni cittadino europeo consuma in media 15 tonnellate di materie prime all’anno e produce circa 4,5 tonnellate di rifiuti. Un’economia in grado di massimizzare attività come il riuso e la preparazione al riutilizzo potrebbe abbattere contemporaneamente sia lo spreco di risorse sia la produzione di rifiuti.

E cosa c’è di più “circolare” di azioni come la riparazione, la rigenerazione e la preparazione al riutilizzo di materiali arrivati a fine vita? Di azioni capaci di evitare la produzione di scarti non recuperabili e quindi destinati alla distruzione e alla discarica? E di azioni in grado di generare vantaggi economici e ambientali?

Le domande sono retoriche, ma la risposta è che oggi non è possibile realizzarle. Scegliere riuso e preparazione al riutilizzo come vie per gestire i rifiuti significa dunque creare le condizioni per:

1) ridurre la produzione e la movimentazione dei rifiuti, con benefici netti sull’intero ciclo di vita dei prodotti;
2) incentivare l’innovazione, contribuendo a diminuire l’uso di materie prime vergini (con annessi problemi di accesso ai materiali considerati strategici – si pensi alle cosiddette terre rare);
3) contribuire ad allungare l’utilità economica dei prodotti e dei servizi;
4) generare occupazione e di riposizionare competenze e know-how verso produzioni alternative, rimediando almeno in parte agli esiti della delocalizzazione produttiva.

Eppure, benché siano al vertice della cosiddetta “gerarchia dei rifiuti” (e dunque tra le opzioni preferibili), riuso e preparazione al riutilizzo non hanno finora goduto di grande considerazione. Collocandosi in una sorta di “terra di mezzo” tra il mondo dei rifiuti e quello dei non rifiuti, hanno sofferto la mancanza di regole chiare e la carenza di capacità organizzative e imprenditoriali, per finire relegate al ruolo di comprimarie. E, soprattutto, sia dal livello nazionale che locale non hanno attirato quegli investimenti o incentivi economici che avrebbe consentito il salto di qualità in questo ambito, professionalizzando e remunerando le risorse impiegate.

Rispetto alle altre opzioni, sia il riuso che la preparazione richiedono, certamente, qualcosa in più, ossia un vero cambio di approccio, dove l’attenzione si sposta su tutto il ciclo di vita del bene, dalla progettazione fino alla possibilità che attraverso processi di riparazione, rigenerazione, upgrading, disassemblaggio, il prodotto o parti del prodotto possano continuare a svolgere la stessa funzione, o funzioni differenti, all’interno di un nuovo prodotto.

Non è quindi un tema di quantità di beni immessi nel mercato, quanto piuttosto della loro qualità: i beni devono essere concepiti sin dall’inizio per favorirne riparazione, rigenerazione e riciclo.

Qualche passo in avanti si sta facendo. Nel caso degli imballaggi in plastica, ad esempio, il contributo ambientale pagato dai produttori è calibrato in modo da premiare quelli riciclabili. Ma si tratta di una eccezione. Per le apparecchiature elettriche ed elettroniche (Raee), ove chiaramente esiste un potenziale per rigenerazione e riciclo, gli incentivi alla riciclabilità previsti dal Dm n. 140 del 2016 sono rimasti lettera morta, perché i costi del complesso iter amministrativo superano abbondantemente i benefici (abbattimento dei target di riciclaggio).

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“Prodotto” o “rifiuto”?

Ma vi è una differenza tra riutilizzo e preparazione per il riutilizzo? Sì, e riguarda quel confine che distingue un “prodotto” da un “rifiuto”. Se il primo è già pronto per l’impiego nella catena del valore, il secondo ha bisogno dell’avvio di un percorso di trattamento per tornare a far parte del ciclo produttivo.

Infatti, se il riutilizzo riguarda un prodotto o una componente che non è rifiuto e si colloca, dunque, nell’ambito della prevenzione, la preparazione per il riutilizzo si riferisce a un prodotto – o a una componente – diventata rifiuto, e pertanto necessita di una autorizzazione.

Diverso è il caso della riparazione e rigenerazione, che rientrano nelle attività di prevenzione rispetto alla produzione di rifiuti. Si tratta di operazioni che, come il riutilizzo, riguardano a tutti gli effetti prodotti, non rifiuti, e che pertanto dovrebbero essere preferibili a ogni altra forma di gestione del rifiuto, proprio perché orientate a prevenirne la produzione.

Se finora un vero e proprio cambio di approccio sembra non aver preso piede, le premesse per una prossima diffusione delle pratiche di prevenzione e dei modelli del riutilizzo nel nostro paese sembrano esserci. Le principali leve che potrebbero favorirle sono tre:

1) il nuovo Piano d’azione per l’economia circolare, promosso dalla Commissione Ue;
2) il nuovo Programma nazionale di prevenzione dei rifiuti, che il ministero per la Transizione ecologica dovrà redigere;
3) la regolazione Arera nel settore dei rifiuti urbani.

Se il Piano d’azione rappresenta la strategia Ue che dovrà indirizzare l’industria verso l’immissione al consumo di prodotti durevoli e più facilmente riutilizzabili o riparabili, spalancando le porte anche al tanto acclamato “diritto alla riparazione”, il Programma di prevenzione e la regolazione Arera potranno incentivare la diffusione di buone pratiche a livello regionale e locale, dal punto di vista del cittadino e delle imprese.

Anche gli strumenti economici sono chiamati a sostenere la gerarchia dei rifiuti, così come l’integrazione tra i gestori responsabili della raccolta dei rifiuti urbani e gli operatori professionali dell’usato.

La sfida consiste nel trovare l’equilibrio affinché, nel rispetto dei singoli ruoli, i beni possano essere valorizzati, da una parte eliminando i costi di transazione, dall’altra senza scaricare i costi sul sistema tariffario, quindi in bolletta. E ciò avviene facendo rientrare la professionalità degli operatori dell’usato all’interno del servizio di raccolta e di selezione.

Qual è la situazione oggi in Italia?

Secondo il Rapporto nazionale sul riutilizzo 2018, le attività di preparazione e riutilizzo interessano annualmente tra le 600 e le 700 mila tonnellate di rifiuti, circa il 2 per cento della produzione di rifiuti urbani e che potrebbero essere sottratti al trattamento e allo smaltimento. Da dati forniti dalla Rete degli operatori nazionali dell’usato, il mercato dell’usato in conto terzi muove circa 850 milioni di euro l’anno e riguarda circa 3mila iniziative stabili, mentre il segmento che impiega più persone è quello dell’ambulantato.

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Una tendenza in forte crescita, che parzialmente rimpiazzerà i mercati “fisici”, è rappresentata dai mercatini per l’usato on-line. Oltre ad alcuni colossi dell’e-commerce come eBay, che già a metà degli anni Novanta aveva intuito il potenziale della compravendita online di prodotti nuovi e usati, e a Facebook, che dal 2016 ha introdotto un marketplace che coinvolge gli utenti del social network, si moltiplicano le aziende che consentono di vendere e acquistare prodotti usati sul web. La tecnologia ha favorito negli anni lo sviluppo di questo segmento, consentendo attraverso app mobile di semplificare l’incontro tra domanda e offerta. una di queste è Shpock (Shop in your pocket), che attraverso la geolocalizzazione permette di trovare prodotti usati in vendita entro un raggio chilometrico impostato dagli utenti. Mentre fra le nuove generazioni, suscitano curiosità e interesse piattaforme come Depop e Vinted, fondate rispettivamente nel 2011 e nel 2012.

La sfida da vincere, invece, è quella di trasformare un settore ancora caratterizzato dall’economia informale in una gestione professionale, capace di produrre valore economico e sociale.

Complessivamente, con la rigenerazione e, in genere, con il riuso si creano benefici economici, oltre che ambientali, almeno su altri tre fronti. Primo, per i produttori, che ottengono risparmi sui costi di produzione, potendo erogare servizi ai clienti nelle fasi post-vendita e migliorando la fidelizzazione. Secondo, per i consumatori finali, visti i costi inferiori di un bene rigenerato rispetto al nuovo e, terzo per l’occupazione in generale, considerato che rigenerazione/riuso/preparazione al riuso sono attività ad elevato tasso di manodopera, che può permettere di recuperare parte della disoccupazione originata dalla delocalizzazione produttiva e dall’automazione.

Puntare sempre più in alto, dritti verso il vertice della piramide rovesciata della gerarchia dei rifiuti, non è certo un pranzo di gala, ma un processo faticoso e articolato che richiede volontà, lungimiranza e capacità, fattori che vanno messi in rete e a servizio di una idea di economia circolare concreta e giusta. Che è poi esattamente quello che chiedono a gran voce gli operatori del settore, già pronti a fare la propria parte, fino in fondo.

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