Il diritto alla speranza non può essere negato neppure al condannato all’ergastolo: lo stabilisce la Convenzione europea dei diritti dell’uomo. E la Corte costituzionale lo ha ribadito, con l’ordinanza sull’ergastolo ostativo. Ora tocca al Parlamento.
Dal mito ai giorni nostri
Alla domanda di Jahvè («Che hai fatto? La voce del sangue di tuo fratello grida a me dal suolo. Ora tu sei maledetto (…) sarai ramingo e fuggiasco per il mondo»), Caino ammette il valore assoluto del «non uccidere», riconosce la propria colpa e accetta la punizione («Troppo grande è la mia colpa (…) chiunque mi troverà mi ucciderà»). Tuttavia, la giustizia di Jahvè è più alta di quella dell’uomo («Non sarà così»), perché ispirata alla speranza che chi ha sbagliato possa cambiare e quindi meritare il perdono («E Jahvè pose un segno su Caino, cosicché chiunque l’avesse incontrato non l’avrebbe ucciso»). Ma la narrazione della Genesi (4, 10-17) ha ancora un’appendice che troppo spesso viene dimenticata: «Caino (…) poi divenne costruttore di città». L’assassino ripaga il male compiuto non tanto con una sofferenza fine a sé stessa, ma attraverso l’accettazione della pena accompagnata da un percorso rieducativo che dovrebbe aiutarlo ad attuare un agire positivo.
Passando dal mito ai giorni nostri, pure l’ordinamento – al pari di Jahvè – condivide la speranza che anche il responsabile dei crimini più gravi possa cambiare. E perciò non sono ammesse presunzioni legali di irrecuperabilità sociale. Nessuna pena può rimanere indifferente all’evoluzione del soggetto che la subisce. Postulati, questi, impliciti nella funzione rieducativa assegnata alla pena dalla Costituzione: quel dover “tendere” alla rieducazione previsto dall’articolo 27 della Carta significa che il risultato non deve essere né imposto, né certo, ma neppure deve essere ritenuto impossibile. In definitiva, va riconosciuto al condannato il diritto alla speranza, che si traduce sovente in una spinta motivazionale in grado di promuovere positive evoluzioni psico-comportamentali in vista di un proficuo, anticipato rientro nella società civile.
Il diritto alla speranza non può essere negato neppure al condannato all’ergastolo, come ha stabilito anche la Corte di Strasburgo, incardinandolo sull’art. 3 Convenzione europea dei diritti dell’uomo: di fronte a pene perpetue o comunque di durata simile a quella della vita intera, il sistema deve prevedere la possibilità di un riesame che permetta di verificare se, durante l’esecuzione della pena, il detenuto abbia fatto progressi sulla via del rinserimento sociale (Corte eur., 13 giugno 2019, Marcello Viola c. Italia, n. 2, § 103-122).
In altre parole, dalla nostra Costituzione e dalla normativa sovranazionale è possibile desumere una linea di confine invalicabile nel regolare l’esecuzione penale: né una disposizione né una decisione può mai avere come effetto quello di togliere, oltre alla libertà, anche la dignità e la speranza.
Le principali tappe di un percorso di civiltà
Dalla definitiva presa d’atto di questa regola di civiltà è scaturito l’ormai inesorabile cammino verso il ridimensionamento della disciplina dell’ergastolo ostativo prevista dall’art. 4-bis dell’ordinamento penitenziario. La norma preclude tutte le misure mitigative dell’ergastolo agli autori di delitti molto gravi, a meno che il condannato non collabori con la giustizia. Una presunzione assoluta di pericolosità impedisce l’accesso ai benefici penitenziari e priva di fatto il condannato della realistica prospettiva di liberazione. Un pregiudizio invincibile da parte della magistratura di sorveglianza, priva della possibilità di ritenere, sulla base di indici diversi, che il condannato abbia compiuto un percorso di reinserimento sociale. È una disposizione nata nei primi anni Novanta, in un momento di acuta emergenza mafiosa, che vale ancora oggi per circa il 70 per cento dei condannati all’ergastolo, e che si è arricchita di nuove figure di reati molto diverse fino a comprendervi i delitti sessuali e i delitti dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione.
Dopo una prima sentenza del 2019 con la quale la Corte costituzionale aveva dichiarato l’illegittimità dell’art. 4-bis ord. penit. nella parte in cui non prevede la concessione di permessi premio in assenza di collaborazione con la giustizia, è intervenuta l’ordinanza 11 maggio 2021, n. 97. La Corte costituzionale ha puntato la propria attenzione sempre sulla presunzione assoluta di perdurante pericolosità del condannato che non collabora, ma questa volta con riferimento all’accesso al diverso beneficio della liberazione condizionale. In particolare, è stato evidenziato come sia proprio la possibilità di conseguire la libertà condizionale a rendere compatibile la pena perpetua con la Costituzione: in presenza di preclusioni, invece, l’ergastolo rischia di contrastare con la finalità rieducativa della pena di cui all’art. 27, comma 3 Cost. Tale principio, secondo i giudici, entra in tensione con la vigente disciplina “ostativa”, che «da una parte eleva la utile collaborazione a presupposto indefettibile per l’accesso (anche) alla liberazione condizionale, dall’altra sancisce, a carico del detenuto non collaborante, una presunzione di perdurante pericolosità, dovuta, in tesi, alla mancata rescissione dei suoi collegamenti con la criminalità organizzata».
Mancata collaborazione e pericolosità
Il contrasto con la Costituzione non deriva dalla esistenza di una presunzione in sé, quanto dal suo carattere assoluto, che fa della collaborazione con la giustizia «l’unica strada a disposizione del condannato a pena perpetua per l’accesso alla valutazione da cui dipende la sua restituzione alla libertà». D’altronde, se ci si pensa bene, un simile comportamento non può assurgere a insuperabile indice legale di mancato ravvedimento, potendo dipendere da ragioni che niente hanno a che vedere con il mantenimento di legami con associazioni criminali. Così, allo stesso modo, la decisione di rivelare informazioni agli inquirenti non è sempre il sintomo di una sincera messa in discussione del proprio operato, potendo essere frutto di valutazioni solo utilitaristiche. Si può persino dubitare che la collaborazione sia frutto di una scelta sempre libera da parte del condannato, prefigurando l’attuale disciplina una sorta di scambio tra informazioni utili a fini investigativi e conseguente possibilità per il detenuto di accedere al normale percorso di trattamento penitenziario. Per il condannato all’ergastolo ostativo, lo “scambio” in questione può assumere una portata drammatica, allorché lo obbliga a scegliere tra la possibilità di riacquisire un giorno la libertà e il suo contrario, cioè un destino di reclusione senza fine. In casi limite, può trattarsi di una “scelta tragica”: tra la propria (eventuale) libertà, che può tuttavia comportare rischi per la sicurezza dei propri cari, e la rinuncia a essa, per preservarli da pericoli.
Insomma, quello che la Corte sembra ritenere estraneo a un ordinamento penitenziario costituzionalmente bene orientato è la presunzione assoluta, legata a una condotta equivocabile, che determini la carcerazione perenne. Deve spettare alla magistratura di sorveglianza – sembra suggerire la Corte – la libertà di decidere, caso per caso, in base agli ordinari indici previsti dalla legge (compresa, ma non unica, la collaborazione), la meritevolezza dei benefici da parte dell’ergastolano.
La tecnica del rinvio al legislatore
La Corte ha così deciso, riaffermando nell’ordinanza dello scorso maggio una “tecnica decisoria” già utilizzata negli ultimi anni – si pensi all’ordinanza n. 207 del 2018 in tema di istigazione o aiuto al suicidio ex art. 580 cp (il cosiddetto “caso Cappato”) e all’ordinanza n. 132 del 2020 in tema di diffamazione: non accogliere le questioni sottoposte, ma rinviare la trattazione all’udienza del 10 maggio 2022, per consentire nel frattempo al legislatore di intervenire sulla materia.
Un intervento meramente “demolitorio” avrebbe potuto creare effetti disarmonici sul complessivo equilibrio della disciplina, rischiando inoltre di minare le esigenze di prevenzione generale e sicurezza collettiva. Spetterà quindi al Parlamento decidere quali ulteriori scelte possano accompagnare l’eliminazione della collaborazione quale unico strumento per accedere nella disciplina dell’ergastolo ostativo ai permessi premio e alla liberazione condizionale.
In attesa di sviluppi, non possiamo nascondere una certa preoccupazione per come il Parlamento sia rimasto finora inerte nei casi analoghi sopra ricordati.
Le reazioni di due importanti leader politici della maggioranza, che hanno definito la recente scarcerazione di Giovanni Brusca (dopo 25 anni di carcere e una fattiva collaborazione con gli inquirenti) una “giustizia che gli italiani non meritano” e “un pugno nello stomaco”, chiedendosi increduli “come sia stato possibile?”, non scacciano la preoccupazione, anzi la acuiscono. In genere, quelli che non sanno quello che fanno, potranno pure essere perdonati dall’amore “inumano” del Cristo di Fabrizio De André che “rantola senza rancore”, ma difficilmente portano a termine operazioni men che disastrose.
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Paolo
Si parla di speranza di riduzione della pena come diritto che va comunque garantito al condannato, in base a progressi sulla via del reinserimento sociale . Quale reinserimento vi potrebbe mai essere senza *almeno* un pentimento e una confessione? Parrebbe ovvio che non sia possibile alcun progresso in tal senso, se prima non si rescinde ogni legame omertoso.
Se non è così ovvio come pare, almeno lo si giustifichi.
Sarebbe poi opportuno un intervento sul fatto che la legislazione italiana preveda ancora che il pentito debba fornire le dichiarazioni entro 6 mesi dalla volontà di parlare: che senso ha tale norma, se non quello di limitare la portata delle dichiarazioni dei pentiti stessi? Non si dovrebbe invece favorire la ricerca della verità? Su questo punto l’articolo non prende posizione, anzi non lo cita per nulla.
Umbe
Perfetto, per la parte del condannato.
Nulla da dire sulla condanna a vita delle vittime ?
Lantan
L’attuale legislazione che permette a chi collabora con le Istituzioni di avere qualche vantaggio nella pena è stata pensata da Giovanni Falcone dopo averla mutuata dagli Stati Uniti. Adesso viene fuori che questa legislazione contraddice la Costituzione (se ne sono accorti un po’tardi… e già questo è sospetto…). Non si capisce perché chi rimane legato o comunque fedele ai principi ed ai metodi criminali delle organizzazioni criminali, debba essere trattato alla stesso modo di chi invece rischia la propria vita e quella dei propri cari per collaborare con la Giustizia. E poi perché proprio adesso questa “messa in discussione” dell’opera di G. Falcone? Forse perché qualcuno pensa che la mafia possa in qualche modo essere riconoscente, magari mettendo a disposizione del sistema economico “legale” i propri capitali sporchi (accumulati grazie al traffico di droga, armi, clandestini, mazzette…)? Non è mai successo che la mafia di dimostrasse riconoscente per i favori ottenuti. Se gli regali un dito, vuole prendersi tutto il braccio. E’ sempre stato così.
Pietro Della Casa
Devono essere garantite “dignità e speranza”. Ma cosa significa dignità? E speranza di cosa, precisamente? Se si intende questo come l`opportunità di affrontare un percorso di autoricostruzione, volto a ridare al soggetto quella dignità che ha perso attraverso l´uccisione di altri esseri umani, e se la speranza è quella di poter riuscire a compiere questa ricostruzione, allora sono d`accordo. Obiettivi che non implicano alcuno sconto di pena – anzi una reale trasformazione dovrebbe essere accompagnata dalla coscienza di dover scontare la propria pena fino in fondo. Ma temo che in realtà tutti questi discorsi e sentenze significhino solo una cosa: chi è morto non conta nulla, e la tentazione del revisionismo in favore dei criminali sociopatici è – specialmente in ambito intellettuale – un irresistibile esercizio narcisistico.