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I pensionati non sono tutti uguali*

Nei profili di longevità dei pensionati italiani esistono chiare disparità basate sull’occupazione ricoperta al momento del pensionamento. Sono particolarmente accentuate per gli uomini. Nel disegno dei sistemi previdenziali si dovrebbe tenerne conto.

Differenze di mortalità per gruppi occupazionali

Nei paesi a bassa mortalità, come l’Italia, si registra un’importante stratificazione socioeconomica nelle traiettorie di salute e di mortalità. Indipendentemente dall’indicatore utilizzato per misurare lo stato socioeconomico, sia esso il livello d’istruzione, il reddito o la categoria occupazionale, la speranza di vita tende ad accorciarsi man mano che si scendono i gradini della scala sociale (Mackenbach et al., 2019; Marmot e Wilkinson,2003).

Sebbene correlati, istruzione, reddito e occupazione non possono essere utilizzati in maniera intercambiabile. Se il livello d’istruzione orienta la capacità individuale di trasporre informazioni e conoscenze in scelte comportamentali e il reddito riflette la disponibilità di risorse materiali, l’occupazione è l’indicatore più adatto per catturare l’esposizione a specifici fattori di rischio lungo il corso della vita lavorativa (Cambois et al. 2020). Pertanto, esaminare e monitorare le differenze di mortalità tra specifici gruppi occupazionali è estremamente rilevante dal punto di vista delle politiche pubbliche, dalla prevenzione sanitaria alla previdenza sociale.

Tuttavia, le analisi più recenti in materia di disuguaglianze di mortalità, in Italia come negli altri paesi Ocse, si sono concentrate prevalentemente sui differenziali legati al reddito e al livello d’istruzione (Katikireddi et al. 2017). I pochi studi disponibili sulla mortalità differenziale lungo la dimensione occupazionale utilizzano categorie occupazionali aggregate che ne limitano la rilevanza  ai fini delle politiche pubbliche (Leombruni et al. 2015). In aggiunta, tali studi si focalizzano esclusivamente sulla popolazione in età lavorativa (Bertuccio et al. 2018). Per quanto importanti per rilevare modelli di mortalità prematura, non consentono di quantificare le disuguaglianze di mortalità in età anziana associata a specifiche traiettorie occupazionali. Questo tipo di informazione è però cruciale quando si tratta, ad esempio, di tratteggiare politiche miranti a bilanciare la necessità di adattare l’età pensionabile all’allungamento della speranza di vita con quella di garantire flessibilità in uscita dal mercato del lavoro per categorie di lavoratori vulnerabili.

Lo studio

Muovendo da queste considerazioni, in un nostro recente lavoro, di cui è apparsa una sintesi nell’allegato al XX rapporto annuale dell’Inps, abbiamo studiato i pattern di mortalità nella popolazione pensionata in Italia sulla base dell’occupazione specifica ricoperta al momento del pensionamento. Per la nostra analisi, abbiamo impiegato il registro delle Comunicazioni obbligatorie, che permette di identificare tutte le cessazioni dei rapporti di lavoro nel settore pubblico e privato in Italia tra il 2010 e il 2019. Per ogni rapporto di lavoro, il registro fornisce informazioni dettagliate sulla categoria occupazionale, definita sulla base della Classifica delle professioni Istat (CP 2011). Focalizzandoci sulle cessazioni legate al pensionamento e restringendo l’analisi alla finestra di età compresa tra i 65 e i 74 anni, abbiamo analizzato le differenze di mortalità post-pensionamento per occupazione specifica al momento del pensionamento. La tabella 1 riporta i tassi di mortalità standardizzati per età relativi ai soli uomini tra i 65 e i 74 anni per ciascuna categoria occupazionale. Osserviamo un gradiente occupazionale netto nei tassi di mortalità: tendono ad aumentare nel passare da occupazioni non manuali e altamente qualificate a occupazioni manuali e a bassa qualifica. Ad esempio, i pensionati con un passato lavorativo in qualità di dirigenti ed equiparati nella pubblica amministrazione hanno un tasso di mortalità tra i 65 e i 74 anni nettamente inferiore (766 decessi x 100 mila anni-persona)rispetto a pensionati precedentemente impiegati come lavoratori non qualificati nella manifattura, nell’estrazione dei minerali e nelle costruzioni (1.629 decessi x 100 mila anni-persona).

Cosa succede alle donne

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Nel caso delle donne (tabella 2), invece, i tassi di mortalità post-pensionamento non seguono un gradiente occupazionale specifico. Contrariamente agli uomini, emergono alcuni casi di gradiente inverso, con tassi di mortalità superiori nel caso di pensionate con carriere lavorative in occupazioni altamente qualificate (per esempio, imprenditrici e dirigenti d’azienda) rispetto a pensionate precedentemente occupate in lavori a bassa qualifica (per esempio, professioni non qualificate nelle attività domestiche). La letteratura attesta la presenza di un gradiente inverso di mortalità e, per alcune patologie, di morbosità per stato socioeconomico per le donne italiane legato a fattori di rischio quali il fumo e la posticipazione dell’età al primo figlio (Costa et al. 2017). È da sottolineare, tuttavia, che le differenze di mortalità stimate su base occupazionale nel caso delle donne risultano minime e, nella maggior parte dei casi, non significative, come si evince dagli intervalli di confidenza che tendono a sovrapporsi (tabella 2).

Per agevolare l’interpretazione delle implicazioni di differenziali, abbiamo provveduto a stimare la speranza di vita a 65 anni per ciascuna categoria occupazionale, distinguendo tra uomini e donne. A tal fine, abbiamo estrapolato le curve di sopravvivenza calcolabili a partire dai dati per ciascuna categoria occupazionale tra i 65 e i 74 anni. La figura 1 e la figura 2 riportano le stime della speranza di vita a 65 anni con i relativi intervalli di confidenza, rispettivamente per uomini e donne. Nel caso dei primi, emerge un chiaro gradiente occupazionale: i pensionati precedentemente impiegati in occupazioni non manuali e altamente qualificate hanno un vantaggio di 4-5 anni rispetto agli individui precedentemente impiegati in occupazioni manuali poco qualificate o routinarie. Nel caso delle seconde, coerentemente con quanto già illustrato, l’analisi non rileva disparità significative, avvalorando le conclusioni di studi precedenti in materia (Bertuccio et al. 2018).

Figura 1 – Speranza di vita a 65 anni (uomini)

Nota. Le barre rosse indicano gli intervalli di confidenza al 95 per cento. Elaborazione degli autori su dati Inps.

Figura 2 – Speranza di vita a 65 anni (donne)

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Nota: Le barre rosse indicano gli intervalli di confidenza al 95 per cento. Elaborazione degli autori su dati Inps.

Le disuguaglianze di longevità sollevano criticità rispetto a politiche previdenziali che ignorano l’eterogeneità, quali l’ancoraggio dell’età pensionabile alla speranza di vita media della popolazione o l’utilizzo di coefficienti di trasformazione indifferenziati per il calcolo delle pensioni secondo il metodo contributivo. Tali misure, infatti, penalizzano potenzialmente gli individui appartenenti a categorie occupazionali caratterizzate da profili di mortalità sistematicamente sfavorevoli rispetto alla mortalità della popolazione generale.

Se l’allungamento della vita media rende necessaria l’adozione di misure atte a garantire la sostenibilità e l’equità intergenerazionale del sistema previdenziale, le disuguaglianze che si celano dietro l’invecchiamento della popolazione pongono questioni di equità intra-generazionale altrettanto pressanti.

* L’articolo è estratto dal progetto di ricerca Lifespan inequalities among the over 50 in Italy: evidence from administrative data. Il progetto è stato condotto nell’ambito dell’iniziativa VisitInps Scholars dell’Inps. Le opinioni espresse sono esclusivamente quelle degli autori e non riflettono necessariamente quelle dell’Inps.

Questo articolo è apparso contemporaneamente sul Menabò di Etica Economia.

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  1. Mahmoud

    In generale ritengo sarebbe utile considerare lo stato di salute del pensionando a ridosso del pensionamento. Ogni caso è a sé, ci sono persone che indipendentemente dal lavoro svolto per esempio superano i 60 anni già affette da gravi patologie, basti pensare a quelle oncologiche. Ecco, l’aspettativa di vita su cui viene calcolata l’età di pensionamento e l’importo dell’assegno è la medesima di una persona in piena salute.

  2. Firmin

    Una volta confermata l’intuizione che un ingegnere vive più e meglio di un minatore (come si evince dal rapporto Inps), mi chiedo se abbia senso aumentare le pensioni dei minatori e diminuire quelle degli ingegneri a parità di altre condizioni (ammesso che oggi esistano ancora carriere continuative nella stessa professione). Se la pensione viene “personalizzata” troppo in base alla speranza di vita individuale (legata anche a stili di vita e patrimonio genetico) si rischia di incoraggiare attività lavorative e comportamenti poco salutari, a cominciare dal mancato rispetto delle norme di sicurezza. Sarebbe come pagare indennizzi più elevati a chi ha un incidente guidando ubriaco, senza casco o cinture (e quindi ha una speranza di vita inferiore agli altri). Oltre tutto, il calcolo della speranza di vita è sempre (necessariamente) retrospettivo e quindi rischia di creare più sperequazioni di quelle che intende sanare. Ad esempio, la vita di un operaio di oggi è infinitamente più “sana” di quello di un turnista addetto alla catena di montaggio negli anni 70, su cui però sono calcolati implicitamente gli indicatori di sopravvivenza Inps e Istat. In compenso, un quadro di oggi viaggia molto più di uno del secolo scorso e quindi è esposto a molti più rischi del passato.

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