La sentenza dello scorso aprile della Corte Suprema degli Stati Uniti segna un precedente importante per l’economia digitale, sancendo che il copyright non si estende agli eventuali usi trasformativi delle opere. Ma molte questioni restano ancora aperte.
Lo sfruttamento a fini commerciali di materiali e contenuti appartenenti a soggetti terzi da parte di grandi piattaforme tecnologiche è una delle tematiche di proprietà intellettuale più discusse a livello transatlantico. Se da un lato gli ecosistemi digitali sviluppati dalle Big Tech permettono alle imprese terze di raggiungere un’ampia platea di utenti, dall’altro si contesta loro l’uso abusivo di opere dell’ingegno altrui, che rivestono un ruolo fondamentale per il successo stesso delle piattaforme. Per esempio, l’autorità antitrust francese ha recentemente sanzionato Google con una multa pari a 500 milioni di euro per non aver raggiunto un accordo volto a retribuire l’uso dei contenuti sviluppati dalle imprese editoriali francesi.
La sentenza Usa
Con riferimento a questo tema, lo scorso 5 aprile la Corte Suprema degli Stati Uniti si è invece espressa in merito a uno dei più importanti casi di copyright degli ultimi anni che ha visto contrapposti, in un complesso iter giudiziario durato oltre dieci anni, due giganti dell’industria tecnologica, Oracle e Alphabet (Google), con la richiesta da parte della prima di un risarcimento danni pari a circa 9 miliardi di dollari.
La controversia ha riguardato l’utilizzo da parte di Google di 11.550 linee di codice dell’interfaccia di programmazione (Application Programming Interface – Api) denominata Java, sviluppata dalla società Sun Microsystems (successivamente acquistata da Oracle). Pur avendo sviluppato ex novo i software alla base del proprio sistema operativo per smartphone (Android), Google si è infatti avvalsa di alcune parti dell’organizzazione dell’interfaccia di proprietà di Oracle senza l’autorizzazione di quest’ultima. La scelta è stata motivata dalla volontà di rendere Android più facilmente fruibile da parte della comunità mondiale dei programmatori, da tempo abituata al linguaggio di programmazione Java. Tale linguaggio di programmazione si compone di migliaia di method calls, ordinate all’interno della Api di Java. I programmatori si avvalgono di questi strumenti per far compiere all’elaboratore alcune funzioni basilari senza dover scrivere ex novo un apposito codice di istruzioni.
Il caso si colloca nell’alveo delle più importanti decisioni giurisprudenziali statunitensi che contribuiscono a definire le linee di sviluppo dell’economia digitale (Ohio et al v. American Express Co. et al”, “Verizon Communications Inc. v. Law Offices of Curtis V. Trinko, Llp”, “United States v. Microsoft Corporation) i cui tratti distintivi – esternalità di rete indirette, mercati a più versanti, asimmetrie informative, il ruolo dei cosiddetti gatekeeper, l’impatto dei diversi modelli di business sulle dinamiche competitive – acuiscono i trade off sottostanti a qualsiasi intervento regolamentare o giurisdizionale in materia.
La maggioranza dei giudici della Corte Suprema degli Stati Uniti ha sancito la legittimità della condotta di Google in quanto rientrante nella fattispecie di “fair use”, secondo la quale limitate parti di opere d’ingegno altrui possono essere utilizzate in maniera “trasformativa” in contesti diversi da quello originario. La sentenza – con valore di fonte del diritto nell’ordinamento statunitense – ha chiarito alcuni dubbi inerenti i limiti alla tutela in favore dei creatori delle Api, senza tuttavia pronunciarsi sulla possibilità che queste possano essere a pieno titolo coperte dal copyright. Tale problematica è quindi destinata a essere affrontata in future controversie.
Le questioni ancora aperte
Con riferimento al quesito preliminare (la possibilità di estendere il copyright alle Api), la Corte non si è infatti espressa. I giudici hanno preferito supporre, per mera finalità argomentativa, che l’interfaccia di Oracle sia effettivamente tutelata da copyright, in modo da poter risolvere il tema successivo.
Riconoscendo l’eccezione di fair use, la Corte Suprema ha evidenziato l’intrinseca flessibilità di tale istituto, che può essere declinato dalla giurisprudenza a seconda delle esigenze concrete del caso e delle problematiche poste dallo sviluppo tecnologico. Tale decisione si ispira ai principi basilari della disciplina del copyright statunitense, ossia il bilanciamento tra le aspettative economiche dell’autore di un’opera originale e l’interesse della società a promuovere la disseminazione delle conoscenze e l’innovazione.
Tuttavia, per evitare di indebolire la tutela offerta dal copyright sui software in generale, la Corte ha circoscritto la portata innovativa della pronuncia entro un perimetro piuttosto limitato. Perché un operatore possa in futuro beneficiare dell’eccezione di fair use, ai sensi di questo precedente, dovrà infatti soddisfare i requisiti delineati dai giudici. In particolare, l’uso dovrà riguardare (I) frammenti di codice di una interfaccia di programmazione largamente diffusa, (II) il cui valore consegua dall’essersi affermato come uno standard di fatto piuttosto che dalle sue peculiarità espressive, (III) da parte di un operatore che intenda utilizzarlo in un nuovo settore dove l’originario sviluppatore non ha concrete possibilità di ingresso.
Le implicazioni della decisione
Le implicazioni della sentenza per l’economia digitale sono comunque molteplici, anche in chiave concorrenziale, sebbene la pronuncia non tratti gli eventuali profili antitrust dell’operato di Google:
1) la Corte ha segnalato che il copyright non può essere utilizzato come leva per estendere il monopolio degli autori su eventuali usi innovativi e trasformativi delle loro opere, prendendo atto delle dinamiche evolutive del mercato dei software e riconoscendo l’utilità sociale di assicurare un’ampia interoperabilità tra linguaggi di programmazione e sistemi operativi sviluppati da soggetti diversi;
2) secondo molti esperti la decisione contribuirebbe alla tutela dell’innovazione e della creatività, con ricadute positive anche per i consumatori. L’accoglimento della tesi contrapposta avrebbe probabilmente aumentato i costi di sviluppo dei nuovi software e applicazioni interoperabili con i sistemi esistenti;
3) il ricorso alla fattispecie del fair use, originariamente pensato dal legislatore per tutelare i piccoli operatori, ha nei fatti avallato l’operato di un gigante dell’industria come Google, che ha esteso il proprio potere di mercato dal settore dei motori di ricerca a quello dei sistemi operativi per smartphone;
4) la protezione conferita dal copyright sui software agevola le imprese Big Tech nel presidio dei canali di accesso ai propri ecosistemi digitali (il cosiddetto walled garden), contrastando la cosiddetta “adversarial interoperability”, ossia lo sviluppo di programmi interoperabili da parte di concorrenti senza il consenso dei relativi titolari. La pronuncia erode pertanto una barriera giuridica allo sviluppo e commercializzazione da parte dei new comers di nuovi prodotti e servizi compatibili con i principali sistemi operativi più diffusi nell’ambito dell’Internet delle cose, come lo stesso Android di Google e iOS di Apple.
L’inevitabile forzatura arrecata ad alcuni capisaldi del sistema di copyright statunitense sui software da parte della Corte Suprema può essere letta come il tentativo di adattare tale istituto alle esigenze dell’economia digitale, evitando che lo stesso si tramuti in un freno all’innovazione e alla concorrenza dinamica.
La sentenza acquista inoltre interesse nell’ambito dell’odierno dibattito europeo e statunitense su come le questioni competitive connesse all’emersione delle grandi piattaforme tecnologiche debbano essere affrontate da legislatori e autorità di mercato. A questo proposito, la Corte ha preferito concentrarsi sugli obiettivi cardinali della proprietà intellettuale, ossia la tutela dell’innovazione e delle creatività, piuttosto che focalizzarsi sui risvolti indiretti del potere economico accumulato dalle due società. Un approccio diverso avrebbe infatti comportato il rischio che il diritto venisse plasmato in modo ondivago sulla base della natura dei litiganti di volta in volta impegnati nella controversia, invece che di principi fondanti volti a preservare l’innovazione e la disseminazione della conoscenza.
* Il contributo riflette esclusivamente le opinioni degli autori e non intende rappresentare le posizioni ufficiali dell’istituzione di appartenenza.
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firmin
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