La pubblicazione dei nuovi leaks sulla presunta evasione fiscale di personaggi celebri non ha ricevuto grande attenzione dai cittadini. Neanche in Italia, dove si sta per varare una riforma del fisco. Un caso di sensazionalismo che crea solo confusione.
Le nuove rivelazioni
Pochi giorni fa, il Consorzio di giornalisti indipendenti ha pubblicato una nuova lista (parziale, per ora) di leaks fiscali, che riguardano personalità della politica e dello spettacolo. Secondo il Consorzio e la documentazione acquisita, avrebbero a diverso titolo evaso le imposte nel loro paese attraverso l’utilizzo di società in paradisi fiscali.
Non si tratta di una novità: in passato siamo già stati investiti di altri leaks o Papers, che hanno portato sotto i riflettori scandali mondiali, sollevato indignazione nei confronti di paradisi fiscali, messo all’indice l’una o l’altra personalità politica, la cui identità è svelata a discrezione del consorzio stesso (per esempio, incuriosisce che almeno per ora nelle pagine in possesso del gruppo di giornalisti non compaia nessun politico statunitense). I giornali italiani hanno naturalmente ripreso la notizia o collaborato all’indagine, nell’attesa voyeuristica dei nomi che verranno progressivamente centellinati all’opinione pubblica.
C’è però un dato che sorprende nella pubblicazione dei documenti in rete. Il loro lancio, promosso dal Consorzio sui social network con hashtag #Pandorapapers, non ha mai scalato le cosiddette tendenze in Italia: nel momento di massima attenzione del pubblico, si è assestato al ventinovesimo posto tra i trend topics di Twitter, per poi subito scendere in modo inarrestabile. È andata ancora peggio, in termini di engagement, in altri paesi, con risultati non comparabili agli altri leaks del passato.
Perché così poca attenzione?
Com’è possibile? L’evasione fiscale e il suo contrasto sono al centro dell’agenda paese. Il governo ha appena approvato la legge di delega di riforma fiscale che andrà in parlamento e che dovrebbe contribuire a una svolta, anche sull’evasione fiscale, sulla quale in passato, troppe volte si sono celebrati più trionfi che vittorie, come direbbe Tacito.
In un momento in cui il governo intraprenderà probabilmente una strada ispirata al pragmatismo nella tenuta dei conti e della tassazione (immobiliare), il patrimonio di informazioni, dati e – perché no – nomi sembrerebbe rappresentare un interesse comune, attraverso il quale esercitare subito forme di controllo di natura politica. Nulla di tutto questo è accaduto: lo tsunami preconizzato dal Consorzio, almeno per ora, si è rivelato ben poca cosa, nonostante la ricchezza delle informazioni.
A quanto emerge dalle prime letture dei Papers, le forme di pianificazione fiscale più spesso usate consisterebbero nella costituzione di società fiduciarie – o trust – in paradisi fiscali, alle quali personaggi pubblici attribuirebbero beni di elevato valore, o i profitti delle loro attività (come, ad esempio, i proventi derivanti dalla gestione dei diritti d’immagine). Attraverso queste forme di pianificazione fiscale si sortirebbe un duplice effetto: da un lato non risultare proprietari dei beni in questione e dall’altro evitare la tassazione sugli ingenti proventi comunque realizzati. La casistica è particolarmente ricca nei quasi tre terabyte di dati acquisiti, per ordini di grandezza multimilionari ancora di difficile quantificazione.
Le ragioni di questa sorta di omeostasi della società civile dinanzi ai nuovi scandali tributari affonda le radici in diversi fattori: da un lato, la loro sequenza e insistenza, che porta a una sorta di assuefazione dell’uditorio, e probabilmente a un (erroneo) senso di resa. Ma, prima ancora, ha forse stancato la genericità degli addebiti, se non i clamorosi fraintendimenti nei quali il giornalismo investigativo cade inconsapevolmente (nella migliore delle ipotesi) ogni volta che parla di imposte, confondendo tra loro fattispecie che hanno ben poco a che spartire fra loro. Così nello stesso frullatore si mescolano assieme evasione, elusione, pianificazione fiscale e personaggi come Tony Blair, Shakira, il re di Giordania e Julio Iglesias: in una notte in cui tutte le vacche diventano nere, i cittadini, disorientati e confusi, preferiscono andare a dormire.
Il caso più significativo, in questo senso, è quello dell’ex premier britannico che avrebbe (asseritamente) evaso la Stamp duty (analoga alla nostra imposta di registro) sull’acquisto di un immobile. Anziché acquisire il fabbricato, avrebbe acquistato le azioni di una società immobiliare cui il fabbricato è intestato. Chiunque, in Italia, sa che analoghi problemi si sono registrati all’interno del nostro ordinamento, qualora anziché vendere un’azienda l’imprenditore ha ceduto le quote di una società di cui quell’azienda è espressione. Il dibattito in giurisprudenza è stato ampio, ma la letteratura ha sempre icasticamente stroncato ogni velleità orientata a ravvisare in questo comportamento un intento elusivo, se non addirittura evasivo.
Ogni ordinamento giuridico si basa su “strutture”, come spesso vengono definite nella stampa divulgativa le società utilizzate per investimenti complessi. Sin da quando si è immaginata la limitazione della responsabilità nelle società commerciali (per permettere ambiziosi investimenti limitando gli effetti negativi di affari tentati nelle lontane Indie di due secoli fa), ogni giurista sa che l’impiego di società costituite presso altre giurisdizioni, più o meno favorevoli, spesso è un passaggio necessario per il successo economico.
In altri casi, per converso, la costituzione di società (o trust) in giurisdizioni favorevoli appare invece un tassello di un più complesso disegno criminoso, come sembrerebbe suggerire il caso Latchford: un mercante d’arte di prestigio mondiale che avrebbe utilizzato strutture a Jersey per agevolare il contrabbando di opere dalla Cambogia e il riciclaggio. Si tratta in questo caso di uno scenario di rilevanza non solo fiscale, ma anche criminale. Insomma, nel vaso di Pandora ci sarebbe un po’ di tutto, ma non per questo si dovrebbe trattare tutto allo stesso modo, accomunando lo sfruttamento di forme di agevolazione fiscale a comportamenti da reprimere con la massima severità.
Un’informazione a volte basata sul sensazionalismo non soltanto tradisce la realtà dei fenomeni giuridici e la complessità delle scienze sociali, ma diventa controproducente, impedendo ai lettori di distinguere tra loro comportamenti che, almeno allo stato, sono tra loro profondamenti diversi sia dal punto di vista giuridico che politico.
Il rischio che si corre è quello di aprire il vaso di Pandora, e di trovarlo già vuoto.
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Andrea Resti
Grazie, per l’articolo, molto chiaro e piacevole da leggere. Qualche dubbio sulla liceità di certi comportamenti rimane, ma è vero che nel caso di specie l’immobile dei Blair è stato acquistato per uso commerciale, dunque la società costituita ad hoc non “mascherava” una villa di lusso o cose simili.
Henri Schmit
Sono doppiamente d’accordo con l’autore che lamenta 1. lo scarso interesse (su TW in italiano) per un problema che è invece grave e importante e 2. la confusione nella ricerca giornalistica di cose molto diverse. La confusione fra a. ottimizzazione fiscale e b. uso di veicoli spesso in paradisi lontani per intestarsi, coperti dall’anonimato, cespiti patrimoniali di origine illecita, frutto di evasione fiscale, di corruzione o di attività più criminosa ancora, questa confusione è la migliore protezione degli autori e beneficiari degli illeciti a cui giova l’amalgama fra astuzia lecita e arricchimento illecito. Dietro le due categorie si nascondono altri criminali come trafficanti e mafiosi. Detto ciò, sono deluso dal modo com’è stato trattato su Twitter e in questo articolo la vicenda dei Blair; si afferma o si insinua infatti che sia se non illecita, sicuramente immorale. Non sono d’accordo. In tutti i paesi si evitano le tasse transazionali, se per la compravendita immobiliare si usa una società (immobiliare, di scopo). Gli investitori professionali, grandi gruppi e fondi d’investimento, operano sempre così, anche in Italia. I Blair (secondo The Guardian, articolo del primo giorno della prima pubblicazione dei Pandora Papers) hanno comprato un palazzo a Londra attraverso una loro società immobiliare; era un investimento, e uno degli inquilini del palazzo era, se non ho capito male, la società di consulenza della signora Blair. Il venditore era un ex-ministro degli Emirati, se ricordo bene, che loro prima della transazione non conoscevano. Questo è importante per escludere altre ipotesi di irregolarità. Il palazzo era già intestato ad una BVI che i Blair hanno (suppongo immediatamente) liquidata e fusa nella loro immobiliare. Non capisco francamente che cosa neanche minimamente si possa rimproverare ai coniugi. Riportare il loro caso in modo incompleto o ingannevole è pessimo giornalismo, quasi una campagna per diffamare l’ex primo ministro che deve essere giudicato per quello che ha fatto o omesso di fare, non per l’investimento perfettamente regolare dei ricavi della sua attività di conferenziere, presumo. La vicenda veramente losca degli investimenti caraibici intestati alla madre defunta del presidente della Regione Lombardia implicato anche in altri affari palesemente illeciti è stata trattata con la stessa attenzione. L’interessato contrariamente a Tony Blair è tuttora in carica.