Per comprendere il fenomeno delle cosiddette grandi dimissioni occorre avere un identikit più preciso di quali lavoratori hanno lasciato volontariamente il posto di lavoro nel 2021. Dall’analisi dei dati delle comunicazioni obbligatorie emergono novità.
Il dibattito sul fenomeno
Da alcuni mesi in Italia si parla del fenomeno delle cosiddette “grandi dimissioni”, dibattito avviato proprio da un contributo qui su lavoce.info. Alla prima analisi, ne son seguite molte altre (le principali qui, qui e qui), che hanno approfondito i contorni del fenomeno, le sue possibili cause e le potenziali conseguenze. Per aggiungere un ulteriore tassello è utile ora costruire un “identikit” di chi si è dimesso: capire settore, qualifica, età, genere, anzianità di servizio di chi ha lasciato volontariamente il proprio posto di lavoro offre indicazioni per orientarci tra le diverse cause ipotizzate. È possibile tracciare un primo identikit a partire dal campione rappresentativo di comunicazioni obbligatorie rilasciato dal ministero del Lavoro per motivi di ricerca, ora aggiornato fino al terzo trimestre del 2021.
Un confronto con il passato
Confrontiamo alcune caratteristiche di coloro che si sono dimessi nel secondo e terzo trimestre del 2021 con lo stesso periodo del 2019. Le tabelle sotto riassumono il risultato dell’analisi.
La prima colonna mostra la variazione percentuale nel numero di dimissioni per ciascuna categoria.
Nella seconda colonna, invece, viene riportata la percentuale della variazione totale attribuibile a ciascuna categoria. Ad esempio, se in numeri assoluti vi sono state 100 dimissioni in più rispetto al passato e tra gli uomini ve ne sono osservate 70 in più, mentre tra le donne 30 in più, nella quarta colonna si riporta, rispettivamente, 70 per cento e 30 per cento. In alcuni casi, infatti, da un anno all’altro si è verificato un grande aumento di dimissioni per alcune categorie che però hanno un peso molto basso sul totale della popolazione. Una lettura congiunta della prima e seconda colonna aiuta quindi ad apprezzare i cambiamenti per ciascuna categoria, ma allo stesso tempo anche il loro peso relativo sul totale.
L’identikit dei dimessi
Cosa emerge dai dati? Cominciamo dalla Tabella 1a, con alcune caratteristiche demografiche. L’aumento è trainato principalmente dagli uomini, rispetto alle donne. Ed è interessante vedere come dal 2019 al 2021 l’aumento percentuale salga al crescere dell’età al momento della dimissione del lavoratore. Rispetto però alla composizione anagrafica della platea dei dimessi, il peso delle varie categorie d’età sul totale è abbastanza equivalente.
Per quanto riguarda invece il titolo di studio, l’aumento è maggiore per chi possiede almeno un titolo di studio terziario (e questo dato sembra parzialmente in linea con le spiegazioni date su burnout e “smart-malaise”), ma la differenza non è eccessiva e il peso maggiore sul totale è invece dei lavoratori con un diploma di scuola superiore.
Spostandoci alla Tabella 1b, che contiene informazioni sul contratto cessato, si nota chiaramente che il +55 per cento delle dimissioni avviene tra chi aveva un contratto attivo da 2-3 anni (nel 2021, quindi iniziato prima della pandemia). Irrilevante invece la crescita delle dimissioni tra coloro che hanno contratti attivati da poco tempo (ossia, guardando al 2021, contratti avviati durante la pandemia). Altro dato interessante è il grandissimo aumento delle dimissioni da contratti a tempo determinato, che crescono di oltre il 20 per cento e pesano per oltre la metà del totale: ciò va sicuramente contro la lettura costruita in questi mesi del “lascio il posto fisso e cambio vita”.
Nella Tabella 1c possiamo vedere poi le variazioni rispetto al settore lavorativo di appartenenza (secondo la classificazione Ateco). Qualcosa di sicuro accade nel settore delle costruzioni, che registra un +52 per cento di dimissioni e che da solo spiega il 28 per cento dell’aumento totale: probabilmente ha poco a che fare con la pandemia e molto più con un mercato distorto dai bonus governativi. Importanti sono poi le dimissioni nel settore manifatturiero e in quello della sanità. Infine, nella Tabella 1d, possiamo osservare la scomposizione dei dati per professione (secondo la classificazione delle professioni Istat). La categoria più rilevante è data dalle professioni non qualificate (che include per esempio braccianti, bidelli, lavapiatti e simili), seguita da quella degli artigiani e operai specializzati (manodopera probabilmente molto impiegata nel settore delle costruzioni).
Una lettura d’insieme
Dare una lettura d’insieme dei dati non è semplice. Sicuramente suggeriscono cautela nello sposare interpretazioni relative a un cambio radicale di attitudini nei confronti del lavoro da parte dei lavoratori: i dati, infatti, ridimensionano l’idea di dimissioni trainate da profili qualificati che decidono di “cambiare vita”, così come l’idea che il fenomeno interessi prevalentemente i giovani o chi ha un “posto fisso”. Occorre invece pensare a spiegazioni più sfaccettate. Da non trascurare il ruolo del settore delle costruzioni: sarebbe sbagliato infatti interpretare il suo trend con le lenti di un cambiamento post-pandemico. Ovviamente, i dati presentati nelle tabelle sono a disposizione dei lettori per ulteriori interpretazioni, utili ad arricchire il dibattito sul tema.
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Michele Gambera
Curioso che non ci siano segni di great resignation nel settore del turismo e dell’ospitalita’, dove e’ ragionevole attendersi un elevato livello di burnout viste la precarieta’ ed il continuo cambiamento delle regole.
claudio martinelli
le CO non danno informazioni attendibili per questo tipo di analisi. I codici delle professioni e attivita’ sono vecchi, lontani dalla realta’ e numerosissimi.Spesso sono inseriti non dico a caso ma quasi, non per cattiva volonta’.
Saluti
Francesco Armillei
Gentile Claudio, grazie per il suo commento. Sul fatto che siano vecchi e lontani dalla realtà non posso che affidarmi al fatto che sono stati rinnovati recentemente (gli Ateco nel 2008, i codici professionali nel 2011) ed al fatto che si tratta della classificazioni usate dall’Istat e da tutti gli enti statistici nazionali. Sul fatto che siano inseriti a quasi a caso invece si tratta di una problematica più difficilmente sormontabile. Penso però che utilizzando livelli di aggregazione non troppo granulari (come ad esempio qui nell’articolo) si riduca il rischio ci catturare codici sbagliati.
Claudio Martinelli
Caro Francesco, lei è ottimista! Le faccio qualche esempio. I Consulenti del Lavoro che effettuano le comunicazioni telematiche, hanno a disposizione qualifiche/professioni obsolete e anche un po’ ridicole a volte.
Ad esempio: assistente psichiatrico a domicilio, assistente sociale del lavoro, assistente sociale familiare, assistente sociale medico-ospedaliero , assistente sociale medico-psico-pedagogico ,assistente sociale per minori ,assistente sociale psichiatrico, assistente sociale scolastico. Chieda all’Ordine degli Assistenti Sociali cosa ne pensano, sentirà una sonora risata. Queste qualifiche, forse, sono riferite al sistema socio-assistenziale dei primi anni 70.
Oppure: impiegato addetto alla revisione di originali o bozze. Esisteva nelle redazioni dei giornali fino a trenta anni fa o più.
Oppure: Membri di organismi di governo e di assemblee con potestà legislativa e regolamentare a livello nazionale.
Vogliamo fare indagini socio economiche con questo sistema di classificazioni delle occupazioni del mercato del lavoro? Codificando i membri del Parlamento?
Istat, Ex ISFOL, Ministero del Lavoro, Regioni: tante Amministrazioni si occupano di sistemi di classificazione delle professioni. I risultati, purtroppo, sono assai modesti a mio parere (ma i Sistemi Regionali sono molto utili per la Formazione professionale, certamente) . Questa problematica, purtroppo, impatta negativamente non solo sulla ricerca socio economica, ma anche sulle politiche attive del lavoro.
Cordiali saluti