Sanzioni invece di azioni militari: a renderlo possibile è la globalizzazione. Ma i paesi cercano alternative per evitare i ricatti economici reciproci. Nei prossimi anni avremo una riconfigurazione dell’economia globale per gruppi integrati di paesi.
Le sanzioni sono efficaci?
Le sanzioni economiche imposte dall’Occidente alla Russia stanno funzionando? È la pressante domanda che l’Occidente e, soprattutto, l’Ucraina si pongono in questo momento. La risposta è “dipende” da che cosa si intende per “funzionare” e in particolare da quale scenario alternativo si ha in mente.
Se per “funzionare” si intende costringere l’armata russa a fare dietrofront, chiaramente le sanzioni non stanno funzionando. Se invece si intende aumentare il costo, non solo economico, per Mosca della sua operazione militare speciale, allora le sanzioni funzionano.
Quale potrebbe essere considerato uno scenario alternativo più efficace in termini di dietrofront? Verrebbe in mente un intervento militare della Nato, ma subito verrebbe anche scartato per gli enormi costi, non solo economici, che comporterebbe per gli alleati atlantici. Se la guerra è il proseguimento della politica con altri mezzi, anche le sanzioni lo sono, ma con ulteriori mezzi.
Dalla fine della seconda guerra mondiale, l’Occidente ha fatto un uso crescente delle sanzioni, talvolta a sostegno ma molto più spesso in sostituzione dell’azione militare. Perché? Certo, gli orrori delle due guerre mondiali, largamente fratricide per quella che ora è l’Unione europea, hanno insegnato qualcosa su quello che l’azione militare può davvero ottenere e soprattutto sui suoi tragici costi. Ma c’è qualcos’altro e questo qualcos’altro si chiama globalizzazione.
Il crescente uso delle sanzioni al posto della guerra coincide temporalmente con quella che viene chiamata la “seconda ondata” della globalizzazione. La “prima ondata”, sviluppatasi a cavallo dell’inizio del Novecento, si infrange contro il primo conflitto mondiale. La seconda comincia a salire e gonfiarsi dopo il secondo conflitto mondiale, per poi incurvarsi in tutta la sua potenza alla fine del secolo scorso. In quegli anni l’importanza degli scambi internazionali di merci e capitali per l’economia mondiale raggiunge e supera per la prima volta quella avuta durante la prima ondata. Questo avviene straordinariamente soprattutto in ambito finanziario. È la seconda ondata che le sanzioni cavalcano per soppiantare l’azione militare come strumento di coercizione di stati sovrani non allineati agli interessi e ai valori occidentali.
Senza la globalizzazione, l’ascesa delle sanzioni sarebbe inspiegabile. L’integrazione di un paese negli scambi internazionali è, infatti, ciò che lo rende più vulnerabile a questo tipo di intervento. Le sanzioni rendono difficile e, in alcuni casi, impossibile l’interazione del paese sanzionato con chi lo sanziona. Un paese che già interagisce poco non ha molto da temere, a meno che quel poco non sia vitale. Viceversa, maggiore è la sua interazione, più dirompente è l’impatto delle sanzioni. In tal senso, la globalizzazione aumenta la potenza di fuoco delle sanzioni.
Due limiti
Le sanzioni hanno però due limiti principali, uno più ovvio e uno meno ovvio. Il primo è che sono un’arma a doppio taglio: danneggiano necessariamente anche chi le impone. La ragione è che le sanzioni indeboliscono o recidono legami d’affari tra sanzionato e sanzionatore: se esistono, è perché sono nell’interesse di entrambe le parti. L’Unione europea ha forti legami con la Russia in vari ambiti, tra cui quello energetico, perché ritenuti convenienti. Farne a meno richiede di perseguire vie alternative, che, se erano già perseguibili prima, non possono che essere meno convenienti e, se non lo erano, richiedono una costosa esplorazione. Circa il 40 per cento del petrolio e del gas europei viene importato dalla Russia e la Germania è uno degli stati dell’Ue più dipendenti. Bruxelles sta intensificando gli sforzi per diversificare rapidamente il suo paniere di fornitori di energia e si rivolge ad altri esportatori di gas come Stati Uniti, Norvegia, Qatar, Azerbaigian, Algeria, Egitto, Turchia, Giappone e Corea del Sud. Se non l’ha fatto prima, è perché riteneva queste opzioni meno convenienti.
Il secondo limite delle sanzioni è che più vengono usate, più perdono di efficacia. Come i batteri si adattano a resistere a un farmaco antibiotico mediante modifiche del proprio patrimonio genetico, così i paesi si adattano a resistere alle sanzioni mediante modifiche delle loro relazioni economiche. In questo caso l’adattamento richiede una riduzione delle interazioni con paesi anche solo potenzialmente ostili a vantaggio di paesi più affini. È quanto cerca di fare la Russia, corteggiando per esempio la Cina alla luce di comuni sentimenti anti-americani. Di nuovo, se Mosca non l’ha fatto prima, è perché riteneva che l’adattamento non fosse conveniente.
Il caso del sistema Swift
Per capirne i motivi è interessante approfondire il caso delle sanzioni di natura finanziaria imposte a Mosca, tra cui le limitazioni all’uso del circuito Swift (Society for Worldwide Interbank Financial Telecommunication), il sistema di comunicazione con sede in Belgio, la cui funzione principale è quella di fungere da principale rete di messaggistica attraverso la quale vengono avviati i pagamenti internazionali. Per non essere limitata nelle sue transazioni internazionali e per ottenere la pregiata valuta estera (principalmente dollari) necessaria per tali transazioni, la Russia ha cominciato a guardare con rinnovato interesse alle alternative disponibili. Quelle a prima vista più attraenti si trovano sul versante cinese.
Negli ultimi decenni la Cina ha costruito numerose reti finanziarie anche globali, come quelle delle banche statali presenti nelle principali piazze commerciali di tutto il mondo. Poiché Pechino non ha aderito alle sanzioni occidentali, tale rete potrebbe aiutare Mosca a reperire dollari. Il problema è che le banche statali cinesi che più interagiscono con il sistema finanziario occidentale sono quelle che seguono la maggior parte dell’interscambio tra Cina e Stati Uniti attraverso entità legali domiciliate in America. È improbabile che queste grandi banche siano disposte a continuare a fare affari in dollari con la Russia mettendo a rischio le proprie operazioni con un’economia dieci volte più grande.
La Russia potrebbe sfruttare il collegamento diretto tra la propria banca centrale e quella cinese per effettuare transazioni senza bisogno di passare attraverso il sistema Swift, accedendo ai suoi circa 90 miliardi di dollari di depositi, denominati principalmente in yuan e detenuti presso la banca centrale cinese. Potrebbe anche fare ricorso alla linea di scambio da 150 miliardi di yuan che ha con Pechino. Con queste risorse potrebbe finanziare le importazioni dalla Cina in sostituzione di quelle dai partner commerciali ostili. Potrebbe infine aumentare le esportazioni verso la Cina, ottenendo valuta estera in cambio. Il problema è che tutte queste operazioni rimarrebbero in ampia parte in yuan, mentre, per far fronte ai propri impegni finanziari nei confronti del resto del mondo, la Russia ha soprattutto bisogno di dollari. Inoltre, le sanzioni messe in atto finora sono essenzialmente “primarie”, colpiscono cioè le istituzioni russe e quelle dei paesi sanzionatori che con queste interagiscono direttamente. Un paese come la Cina potrebbe voler evitare il rischio di incappare in eventuali future sanzioni “secondarie”, cioè contro paesi terzi che fanno affari con la Russia.
Infine, la Russia potrebbe provare a sostituire il sistema Swift con l’analogo cinese, chiamato Cips (Cross-Border Interbank Payment System). Tuttavia, per controllare i flussi di capitali con il resto del mondo, la Cina consente alle banche estere di collegarsi al Cips solo indirettamente, attraverso banche di compensazione cinesi e utilizzando la messaggistica Swift. Il che significa che le sanzioni occidentali riuscirebbero comunque a intercettare qualsiasi trasferimento tra banche russe escluse da Swift e banche estere.
Come per l’Europa, ancora di più per la Russia le alternative disponibili per il momento non sono granché. Almeno non lo sono per ora. Aspettiamoci anni in cui gli sforzi di molti paesi saranno improntati alla creazione di alternative migliori per sottrarsi a ricatti economici reciproci. L’esito più probabile non sarà tanto la deglobalizzazione temuta o auspicata da molti commentatori, quanto una “riglobalizzazione selettiva”, una riconfigurazione cioè dell’economia globale per gruppi integrati di paesi affini, coalizioni in competizione tra loro per l’egemonia economica, politica e culturale.
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aldo
le sanzioni non sono certo una novità degli ultimi decenni. L’italia fu sanzionata nel 1936 per la guerra di Etiopia, solo per fare un esempio. “Riglobalizzazione selettiva” è a mio parere un eufemismo per definire una nuova “cortina di ferro”, il cui scopo principale è quello di separare la ue dalla russia (e più in generale, dal blocco eurasiatico). Facendo il conto di chi eventualmente “sarà dentro o fuori” l’impressione è che l’occidente potrebbe rischiare uno “splendido isolamento” che certo non gioverebbe, specialmente agli europei. Ai quali, se le cose andranno così, in futuro quasi certamente toccheranno lo shale gas, la soia ogm e il grano col glifosato.
Emanuele
Paper assolutamente ineccepibile. Molti paesi, o unione di paesi come la UE hanno capito che l’autonomia energetica, e l’autonomia produttiva di base (vedi chip) sono purtroppo un esigenza obbligata. Certamente questo porterà ad un protezionismo strisciante, e da qui una riglobalizzazione selettiva. Comunque, cosi come ci insegna l’economia internazionale, passato lo shock iniziale, questa riglobalizzazione selettiva porterà ad una decrescita del pil mondiale. Shock iniziale per altro che a mio avviso pochi hanno colto pienamente nella sua importanza dirompente. Studi ancora non ve ne sono e non ve ne possono essere, visto che non si sa quando la guerra in Ucraina finira, e come finirà. A caldo, si parlava dello 0,8%. Oggi siamo arrivati al 2%. Io credo che l’impatto sarà anche maggiore, con l’effetto trascinamento sugli anni a seguire. Una diversificazione negli approvigionamenti energetici, richiede tempo per essere attuato, a maggior ragione se lo si innesta su di un processo di transizione energetica che di persè è già un fenomeno lungo e costoso. I costi saranno molto alti.
Stefano Antoniutti
Un commento “a caldo” è che la globalizzazione va bene per il commercio dei fiori e dei pesci da acquario, per i materiali “strategici” son da anni convinto che sia una follia tra nazioni “libere” e nazioni “non libere”, perchè espone solo a possibili ricatti da parte di queste ultime, e deprime le risorse umane delle prime.
Secondo me, è ststa poi proprio la decisione del summit sul clima di Glasgow a far decidere Putin a muoversi : se non ora, quando ? Quando non ci sarà più mercato per il gas ed il petrolio russo nei paesi occidentali decarbonizzati ? La Russia ha ancora un ventennio per agire, poi di che vivranno i 160 milioni di russi ? Di rimesse delle badanti ?