Per le imprese italiane la certificazione della parità di genere non è solo un passaggio obbligato per accedere ai fondi pubblici. Può rivelarsi utile per attrarre talenti e investimenti. E per questa via può favorire lo sviluppo di tutto il paese.
Lo scenario del divario di genere in Italia
Secondo il Rapporto globale sul divario di genere 2022 pubblicato dal World Economic Forum, l’Italia si colloca al 63esimo posto su 146 paesi nell’indice globale che prende in considerazione il divario di genere sulla base di quattro fattori: economia, istruzione, salute e politica. Se, però, si valuta esclusivamente il sottoindice riferito agli aspetti economici e di opportunità, il nostro paese si posiziona solo al 110emo posto. L’Italia, quindi, è in fondo alla classifica dei paesi europei e si piazza dopo l’Angola, il Nicaragua e il Tajikistan. Il dato è ancora più allarmante se si considera che nel 2012 l’Italia era al 101esimo e dunque di fatto ha perso nove posizioni in dieci anni. Un posizionamento così in basso nella classifica, tra l’altro, non trova riscontro in quanto constatato quotidianamente da imprese, organizzazioni e istituzioni e confermato dal rapporto presentato a gennaio 2022 da AlmaLaurea, con il sostegno del Ministero dell’Università e della Ricerca: le donne hanno performance pre-universitarie e accademiche migliori di quelle dei colleghi uomini. È chiaro, quindi, che a questo ricco capitale umano non corrisponde un ritorno in termini di competenze al paese, in particolare, se si considera il tasso di occupazione femminile del 50,7 per cento contro il 69 per cento per gli uomini.
Per ridurre il gap e per permettere la valorizzazione di questo capitale sviluppato all’interno del sistema paese, il Piano nazionale di ripresa e resilienza ha introdotto la certificazione della parità di genere all’articolo 46-bis del Codice delle pari opportunità, definendone le modalità attuative con il decreto della presidenza del Consiglio dei ministri n. 152/2022.
La certificazione della parità di genere
Il Dpcm n. 152/2022 ha stabilito che i parametri minimi per il conseguimento della certificazione devono essere quelli definiti dalla prassi Uni/PdR 125:2022. Lo standard prevede sei aree principali rispetto alle quali viene valutata la parità di genere all’interno di un’organizzazione: a) area cultura e strategia; b) area governance; c) area processi HR; d) area opportunità di crescita ed inclusione delle donne in azienda; e) area equità remunerativa di genere; f) area tutela della genitorialità e conciliazione vita-lavoro. Per ciascuna sono stati individuati indicatori prestazionali (Key Performance Indicators, Kpi), di natura quantitativa e qualitativa, a cui sono assegnati specifici punteggi. La certificazione si ottiene con il raggiungimento di un punteggio minimo pari al 60 per cento ed è previsto un sistema di punteggi semplificato per le piccole e micro-organizzazioni. Come chiarito dal Dpcm, la certificazione può essere rilasciata da parte di organismi di valutazione della conformità accreditati e, al momento, sono già tre gli organismi di certificazione accreditati da Accredia.
Incentivi e misure premiali
Al fine di ottenere la certificazione, le imprese sono chiamate a mettere in atto una serie di processi interni, pianificando una strategia e individuando un budget dedicato. Soprattutto in una fase iniziale l’investimento potrà comportare una dimensione di fatica, che potrà essere bilanciata da incentivi e misure premiali:
- riduzione del 30 per cento della garanzia fideiussoria per la partecipazione a gare pubbliche (art. 93, c. 7, Dlgs 50/2016, modificato dall’art. 34, c. 1, Dl 36/2022);
- attribuzione, da parte delle amministrazioni aggiudicatrici, di un maggiore punteggio ai fini della valutazione di un’offerta concernente beni, lavori o servizi (art. 95, c. 13, Dl 50/2016, modificato dall’art. 34, c. 2, Dl 36/2022);
- sgravi contributivi nel limite dell’1 per cento di quelli complessivamente dovuti e di 50 mila euro annui per ciascuna azienda (art. 5, c. 1 e 2, L 162/2021);
- attribuzione di un punteggio premiale per la valutazione – da parte di autorità titolari di fondi europei nazionali e regionali – di proposte progettuali ai fini della concessione di aiuti di stato a cofinanziamento degli investimenti sostenuti (art. 5, c. 3, L 162/2021).
È un possibile volano di sviluppo?
Il sostegno all’occupazione femminile, con la riduzione del gap di genere, non rappresenta solo una questione di giustizia sociale, ma è a tutti gli effetti un’esigenza legata allo sviluppo economico e all’innovazione del nostro paese. Secondo uno studio del Boston Consulting Group, c’è una relazione statisticamente significativa tra diversità e risultati dell’innovazione. Più le dimensioni della diversità (migrazione, settore industriale, percorso di carriera, genere, istruzione, età) sono rappresentate nelle aziende, più forte è la relazione con indici positivi. Uno studio dell’Università dello stato della North Carolina ha poi dimostrato che, su 3 mila aziende, quelle che soddisfano tutti e nove i requisiti di diversità annunciano una media di due prodotti extra in un dato anno.
Dunque, la certificazione della parità di genere, per le imprese italiane, non solo rappresenta un passaggio obbligato per accedere ai fondi pubblici, ma può anche costituire uno strumento attraverso il quale posizionarsi sul mercato come un’organizzazione “plurale” e quindi capace di attrarre talenti e finanziatori, atteso che entrambi prediligono le aziende “illuminate” anche in chiave di percorso di crescita e innovazione.
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Senior Legal Advisor presso lo studio legale RP Legal & Tax, assiste le imprese sui temi della sostenibilità, ESG e diritti umani. Prima di unirsi allo studio RP Legal & Tax, ha lavorato in questo ambito per il centro studi dell’International Bar Association e ha conseguito un dottorato di ricerca in Law and Economics presso l’Università degli Studi di Rotterdam. È membro del direttivo della ONG Human Rights International Corner, che promuove la sostenibilità d’impresa in Italia e all’estero.
Professoressa Associata di Organizzazione Aziendale all’Università di Milano-Bicocca. Dal 2018 è professoressa di Management Pubblico presso la Scuola Nazionale dell’Amministrazione della Presidenza del Consiglio dei Ministri.
Esperta di diversity management in relazione all’innovazione e alla sostenibilità nelle organizzazioni, insegna in corsi di formazione manageriale in diverse istituzioni ed è faculty member del Criet, centro di ricerca interuniversitario in Economia del Territorio e del MIP, School of Management del Politecnico di Milano. Autrice di libri e ricerche sulla gestione delle risorse umane, svolge attività di formazione per lo sviluppo delle competenze manageriali e attività di advisory in progetti di cambiamento organizzativo per le imprese. È stata membro e vicepresidente del Comitato di Sostenibilità di Eurizon Capital dal 2013 al 2018. È chairman del 40° EGOS Colloquium del European Group of Organisational Studies, una delle più importanti conferenze internazionali di studiosi e professionisti di organizzazione del lavoro, che si svolgerà a Milano nel 2024.
Natalia Bagnato è Partner e Head of ESG Compliance dello Studio Legale Ontier. Esperta in Corporate Sustainability, con solida esperienza in diritto civile e commerciale. La sua attività si concentra sull’intero spettro delle questioni ambientali, sociali e di governance (ESG), tra cui la conformità e l’integrazione dei fattori ESG nella governance aziendale, la finanza sostenibile, l’innovazione sociale, la due diligence ESG/diritti umani e il reporting. Lavora da oltre 15 anni in primari studi legali nazionali e internazionali, fornendo assistenza e consulenza legale, giudiziale e stragiudiziale, in diritto civile e commerciale, ESG e legal impact, oltre che tutti gli ambiti dell’innovazione sociale. Natalia affianca da sempre l’attività professionale all’attività di docenza in ambito ESG presso Corsi di alta formazione e Master riconosciuti a livello nazionale e internazionale. È, inoltre, membro del Consiglio di Amministrazione di una società benefit attiva nell’ambito della consulenza ESG.
Guido Zichichi
Ecco perché, da femminista, non sono d’accordo:
1) I fondi non vanno investiti così. Come già scritto su Lavoce.info, perché aumenti il tasso di occupazione femminile, la prima cosa da fare sono gli asili nido
2) Non è etico. Incentivi economici perché si assumano donne ne svaluta il lavoro, come se il loro lavoro valesse meno
3) Il primo modo per verificare quale sia il rapporto di causalità in due variabili correlate è verificarne la successione temporale. Per quelle oggetto di analisi, abbiamo prima crescita e dopo diversità. Non prima diversità e poi crescita come lasciano intendere le autrici. C’è la stessa correlazione tra la percentuale di dipendenti con iphone e crescita o tra immigrazione nell’area e crescita.
Pietro Della Casa
Ho dato una occhiata al rapporto, e la mia impressione è che le classifiche siano prive di significato – o equivalentemente che il loro significato sia troppo complesso per essere di qualsivoglia utilità informativa.
Per fare un esempio, l’Italia è in posizione 108 nella categoria “Salute e Sopravvivenza”. Nella stessa categoria, ai primi posti troviamo Belize e Brasile. Che cosa significa?
Altro esempio: Svezia e Burundi se la giocano alla pari in cima alla classifica “Partecipazione all’Economia e Opportunità”, mentre l’Italia è vicina a Corea del Sud, Giappone, Etiopia ed Arabia Saudita. Mi riesce difficile immaginare un assortimento di nazioni che abbiano meno cose in comune.