Cresce anche in Italia il pluralismo religioso, soprattutto nelle periferie delle città. Queste comunità svolgono un ruolo positivo per l’integrazione degli immigrati nella società. Meriterebbero il riconoscimento istituzionale che finora è mancato.

Una ricerca sulla Lombardia

Un processo di innovazione culturale sta prendendo piede in Italia, ma stenta a ottenere il riconoscimento che meriterebbe: il crescente pluralismo religioso indotto dall’insediamento di popolazioni immigrate. C’è da scommettere che il nuovo governo non s’impegnerà a favorirne l’istituzionalizzazione, ma cercherà piuttosto di contrastarlo, com’è già avvenuto in Lombardia con una controversa legge regionale, in parte abrogata dalla Corte costituzionale. Proprio per questo è importante conoscerlo e parlarne.

Nell’Europa Occidentale l’insediamento delle religioni degli immigrati fatica, complessivamente, a trovare un terreno favorevole. La diffidenza delle tradizioni laiciste nei confronti dell’influenza delle religioni si è incontrata con le preoccupazioni derivanti dall’indebolimento della coesione sociale, a causa del radicamento di comunità religiose indipendenti e transnazionali. Le polemiche francesi contro il “comunitarismo” ne sono l’espressione più militante.

Il pluralismo religioso, tuttavia, cresce e mette radici sul territorio, soprattutto nelle periferie popolari delle nostre città. Le stime a livello nazionale disegnano una mappa in cui spiccano nell’ordine i musulmani (1.700.000), i cristiani ortodossi (1.500.000), i protestanti di varie denominazioni (oltre 200.000), gli induisti (160.000), i buddhisti (120.000), i sikh (90.000). A questi vanno aggiunti circa 900.000 immigrati cattolici, che occupano una posizione per vari aspetti intermedia, tra la tradizione religiosa storicamente prevalente e i nuovi culti introdotti dagli immigrati.

Una ricerca appena pubblicata, promossa dal Centro studi Confronti e dalla Fondazione Lelio e Lisli Basso, approfondisce questo composito panorama con riferimento alla Lombardia, che è d’altronde la regione italiana che accoglie il maggior numero d’immigrati e di comunità religiose di origine straniera. Si tratta con ogni probabilità della più ampia ricerca sul fenomeno in Europa, essendo riuscita a mappare 347 luoghi di culto di religioni minoritarie: 70 parrocchie ortodosse, 127 centri islamici, 41 chiese evangeliche a carattere etnico, 85 comunità cattoliche, 17 templi Sikh, 6 centri buddisti.

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Il ruolo delle comunità religiose

La ricerca disegna un panorama in cui diversi elementi attraversano e accomunano confessioni diverse. Migliaia d’immigrati trovano nelle proprie tradizioni religiose un ancoraggio identitario, un collante sociale, una fonte di speranza e di solidarietà. Le comunità religiose sono un porto sicuro, un punto di riferimento in primo luogo per uscire dall’isolamento e dalla solitudine. Costituiscono un crocevia per chi ha bisogno di medicine, per chi cerca un lavoro o una casa, per chi ha il problema del disbrigo di varie pratiche burocratiche: pur disponendo di mezzi limitati, si sforzano di rispondere ai bisogni dei membri e spesso anche, per quanto possono, dei non membri. Sono protagoniste di forme di soccorso sociale, di un “welfare dal basso”, come viene definito nella ricerca, che affonda le radici nei precetti religiosi di aiuto verso il prossimo.

Le comunità musulmane sono quelle che attraggono più attenzione e subiscono maggiori polemiche e ostracismi. Dalla ricerca emerge invece la loro volontà di mostrarsi leali con la società italiana e le sue istituzioni. Ci tengono a prendere le distanze dalle forme di fondamentalismo, condannano gli imam fai-da-te ed esprimono una volontà collaborativa verso il paese che le ospita, come è avvenuto concretamente con le collette e le forme di aiuto organizzate durante il confinamento per la pandemia. Rispetto al passato, hanno oggi responsabili religiosi più preparati, spesso provenienti dall’estero e affiancati da giovani istruiti, cresciuti e formati in Italia, che assumono soprattutto compiti di relazione con le istituzioni italiane e di soluzione dei complessi problemi burocratici che le comunità devono fronteggiare.

Anziché settarismo e isolamento, l’indagine ha riscontrato un diffuso e concreto impegno verso l’integrazione degli immigrati nella società italiana. Ciò che difetta è invece il riconoscimento istituzionale. Come ricorda nelle conclusioni Paolo Naso, esponente della minoranza valdese, le norme italiano sono ferme ai “culti ammessi” della legislazione fascista. A diverse religioni manca anche il semplice riconoscimento giuridico e non solo il più impegnativo livello dell’intesa con lo stato italiano. Con un atto di ottimismo, vorremmo sperare che il nuovo governo smentisca i suoi critici – e le sue premesse culturali e storiche – muovendo un passo nella direzione di un’apertura al pluralismo religioso e alla sua valorizzazione: la diversità è già tra noi, riconoscerla e istituzionalizzarla potrà aiutare a far crescere il dialogo e la coesione sociale.

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