Il Governo punta a soluzioni semplici per risolvere i problemi della formazione dei medici. Per garantire più qualità, però, bisogna agire in maniera strutturale su tutto il percorso educativo. Ecco una panoramica delle principali criticità.
Le polemiche sul numero programmato
Anche quest’anno, puntualmente, con le prove di ammissione al corso di medicina, si sono reiterate le proteste degli aspiranti studenti e i ricorsi sollecitati dalle varie associazioni, cui le famiglie, peraltro frustrate dalle spese sostenute durante l’estate per la preparazione ai test, hanno prontamente aderito. Forse l’incrocio cronologico con le elezioni politiche ha accentuato le proteste, talora anche assai vivaci, ma è indubbio che il problema esiste e che per risolverlo non basta pensare a una semplice abolizione del numero programmato a medicina, come qualcuno vorrebbe. Chi lo pensa, infatti, non ha allungato abbastanza il proprio sguardo su quella che potremmo definire la “filiera della formazione medica”; filiera, peraltro, assai delicata che non può che partire dalla scuola per transitare attraverso il corso di medicina e finire alla scuola di specializzazione e, perché no, al dottorato di ricerca. Il percorso subisce, tra l’altro, significativi condizionamenti da strutture sovranazionali, come l’Unione europea o la World Federation of Medical Education, se si vuole che il titolo di studio italiano sia riconosciuto ovunque.
Anche se in tempi diversi, io stesso insieme a molti altri – politici o docenti – mi sono già espresso sul modello di accesso che ritengo più adatto al nostro paese. In questo articolo, vorrei soffermarmi invece su come occorra evitare di scardinare gli equilibri delicati della filiera della formazione, anzi, su come rinforzarne gli anelli deboli.
Un problema che parte dalle superiori
Al primo posto tra le criticità c’è un problema di orientamento a livello di scuola secondaria, che è sempre di vitale importanza, ma che diventa pregnante per chi si sente attratto dagli studi medici: se si vuole garantire a tutti la stessa possibilità di successo, sarebbe auspicabile intercettare la spinta emozionale e la vocazione alla medicina di tanti giovani, ma associandola, almeno nell’ultimo anno delle superiori, a un rafforzamento di insegnamenti modulati sull’iter universitario successivo. Per quanto meritori siano i programmi di orientamento organizzati dagli atenei, giungono fatalmente alla fine del percorso scolastico.
Anche i corsi per la preparazione ai test di ammissione che molti atenei mettono a disposizione vengono generalmente frequentati nei mesi che precedono l’esame; in più, per quanto nelle intenzioni di chi li organizza siano pensati per sostituire i costosi corsi privati di cui vi è abbondanza nel web, sono questi ultimi che continuano a essere molto più seguiti.
L’orientamento invece dovrebbe essere precoce e dovrebbe muoversi su due livelli distinti, ma integrati. Il primo livello è psicologico e dovrebbe mettere i giovani di fronte a una seria riflessione sulla scelta verso una realtà lavorativa che si rivelerà molto complessa; il secondo livello dovrebbe fornire un supporto culturale adeguato a chi vuole affrontare il percorso, che inizi per tempo, almeno all’ultimo anno della scuola superiore, se non al penultimo.
Aumentare le borse di specializzazione non basta
Si è poi parlato molto di imbuto formativo per gli accessi alle scuole di specializzazione per i laureati in medicina e chirurgia. Non vi è dubbio che il numero di posti disponibili è inferiore al numero dei laureati. Abbiamo però anche letto che in alcune scuole i posti sono andati deserti. Il fatto non deve stupire, dato che, in realtà, l’aumento indiscriminato delle borse di specializzazione non risolverebbe affatto il problema. Vi è carenza di specialisti, è vero, ma solo in alcune realtà lavorative, o troppo usuranti e non adeguatamente remunerate, come anestesia e terapia intensiva, medicina e chirurgia di urgenza. Altre specialità – come medicina territoriale e domiciliare – sono state abbandonate a sé stesse per molti anni e ora devono essere rilanciate e riorganizzate. Urge una diversa programmazione che tenga conto delle capacità formative degli atenei, ma anche delle esigenze del paese, che non possono essere semplicemente quelle fornite dalla Conferenza stato-regioni e dal relativo tavolo tecnico interministeriale, le cui prospettive di lungo termine si sono rivelate fallaci.
Rilanciare il dottorato per nuovi “medici scienziati”
Il dottorato di ricerca è senza dubbio un percorso poco seguito nell’area medica, i cui laureati trovano nell’iscrizione a una scuola di specializzazione la destinazione più ovvia per la propria formazione post-laurea: un miglior trattamento economico e un più rapido accesso al mondo del lavoro inducono a questa scelta. In effetti, poco meno della metà degli iscritti ai corsi di dottorato non è in realtà in possesso di una laurea in medicina e chirurgia e solo un quarto circa degli addottorati trova stabile impiego all’interno di una istituzione di ricerca, più spesso l’università. Se poi la scelta alla fine cade sul dottorato, avviene spesso con un enorme ritardo rispetto alle altre aree.
Del resto, la legge 240 equipara il titolo di specialista a quello di dottore di ricerca, per cui quest’ultimo può apparire come una perdita di tempo. Tuttavia, la stessa 240 consentirebbe di frequentare i due corsi nello stesso tempo, ma pochissimi si avvalgono di questa opportunità. Il nostro paese paga un prezzo alto per questa anomalia: sarebbe infatti auspicabile creare una generazione di medici che possa vantare conoscenze avanzate anche in alcuni settori come la bioinformatica e la bioingegneria, le nano tecnologie e l’intelligenza artificiale. In altre parole, da noi manca una robusta rappresentanza della figura del “medico scienziato”, il physician scientist che invece è ben presente nei paesi anglosassoni.
Ciò comporta fatalmente una progressiva perdita di talenti che potrebbero invece contribuire in modo significativo al progresso della scienza medica. Eppure, per migliorare la situazione da questo punto di vista basterebbe introdurre un cosiddetto percorso di MD-PhD, che consenta agli iscritti a un corso di medicina e chirurgia di conseguire il titolo di laureato e al contempo di dottore di ricerca. Si tratta di qualcosa di assai diverso dai cosiddetti “percorsi di eccellenza”, che pure vengono perseguiti in molte facoltà di medicina e chirurgia italiane: nel caso del corso MD-PhD, i livelli formativi dovrebbero di necessità salire molto, così come l’impegno, anche strutturale, dell’ateneo e degli iscritti.
In conclusione, limitare gli interventi legislativi o ministeriali a operazioni di corto respiro, come l’aumento indiscriminato delle borse di specializzazione o una abolizione del numero programmato, tanto più se effettuata in maniera non graduale, non solo non risolverà i problemi della formazione medica, ma rischia anzi di mettere ancor più in pericolo la tenuta del percorso formativo. Coinvolgere il Ministero dell’Istruzione e del Merito insieme a quelli dell’Università e Ricerca e della Salute non sarebbe, mi rendo conto, operazione semplice, ma i rischi legati a una formazione medica carente e non al passo coi tempi sono notevoli, come dimostrano i recenti eventi pandemici.
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